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Il Corno d’Africa tra endemica instabilità e terrorismo internazionale

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Il Corno d’Africa è una delle aree del mondo su cui, in virtù di un’importanza geostrategica forse addirittura maggiore rispetto ad altri noti scenari di crisi, sono oggi più attentamente puntati i riflettori dell’intera comunità internazionale. Nella regione, tra le più povere ed instabili del pianeta, si intersecano, infatti, tre livelli di scontro – una forte conflittualità interna, guerre regionali ed interstatali e un terrorismo islamista in feroce crescita – che, alimentandosi uno con l’altro, rischiano di condannare il Corno d’Africa ad un futuro sempre più buio e di minacciare gravemente la sicurezza e la stabilità internazionali.

Il recente conflitto tra Eritrea e Gibuti

Un allarmante focolaio di crisi si è aperto nel marzo del 2008 nella zona confinaria tra Eritrea e Gibuti, a causa di azioni militari di Asmara nell’area di Ras Doumeira e nell’isola di Doumeira volte, ufficialmente, alla cattura di disertori. Il territorio occupato e conteso, formalmente neutralizzato, si trova lungo una contestata linea di frontiera risalente ad accordi siglati tra Italia e Francia nel 1901 e rappresenta, dunque, ancora oggi, una pesante eredità coloniale.

Tale contenzioso confinario si inserisce, tuttavia, in un più ampio scenario di tensione. Il Gibuti è, infatti, la principale via al mare per l’Etiopia, l’arci-nemica dell’Eritrea, e Ras Doumeira si trova in un fazzoletto di mare altamente strategico per i traffici internazionali, in quanto è l’imprescindibile rotta di transito per i commerci tra il Golfo di Aden ed il Mar Rosso. Se, dunque, Asmara ottenesse il controllo sull’area accrescerebbe notevolmente la propria rilevanza nello scacchiere regionale ed il proprio potere negoziale, soprattutto nei confronti di Addis Abeba, con cui guerreggia quasi ininterrottamente dal 1961 e a cui imputa il mancato riconoscimento delle linee di demarcazione fissate dagli Accordi di Algeri del 2000 nonché il mantenimento di truppe nel proprio territorio. Asmara sta altresì sostenendo l’organizzazione secessionista etiopica Oromo Liberation Front, accusata da Addis Abeba di essere di natura terroristica e di intrattenere legami con Al–Qaeda. Alcuni militanti dell’OLF, arrestati in Somalia, confermarono di aver vissuto per un determinato periodo in Yemen, mentre altri ammisero di essere stati dispiegati ed addestrati proprio dall’Eritrea. Inoltre, se l’Etiopia si erge a maggior sostenitrice del governo federale di transizione di Mogadiscio, in cui difesa è intervenuta militarmente nel 2006, l’Eritrea ha, al contrario, svolto per molto tempo un importante ruolo di destabilizzazione nel conflitto interno in Somalia, fornendo – secondo i rapporti ONU in merito – appoggio politico, diplomatico, militare e finanziario ai gruppi di opposizione armata somali. La Somalia, senza un governo centrale autorevole da circa vent’anni e a tutti gli effetti un failed state, è insomma di fatto utilizzata dall’Eritrea come teatro di scontro con l’Etiopia.

Il rischio – reale – che il Corno d’Africa diventasse una nuova polveriera e le minacce che un’escalation del conflitto Eritrea – Gibuti avrebbe posto alla pace internazionale hanno indotto l’ONU ad intervenire. Dopo il mancato rispetto di Asmara della Risoluzione 1862 (adottata all’unanimità nel novembre 2009) invocante il ritiro delle parti allo status quo ante, il 23 dicembre 2009, su pressioni dell’U.A. e dell’Autorità Intergovernativa per lo Sviluppo[1], il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, ex capitolo 7 dello Statuto, ha imposto, nonostante la pesante astensione di Pechino, un pacchetto di sanzioni all’Eritrea. Considerata ingiusta da Asmara, la Risoluzione 1907 (sostanzialmente un embargo militare e il congelamento dei beni degli alti responsabili politici e militari) è riuscita tuttavia a sbloccare la situazione. Grazie alla mediazione del Qatar, nella cui leadership sia Asmara che Gibuti confidano, nel giugno 2010 è stata ratificata un’intesa con la quale le due parti si impegnano a raggiungere un accordo negoziato; esse attribuiscono, inoltre, a Doha il compito di formare un Comitato che possa facilitare la demarcazione della frontiera e controllarne l’implementazione. Infine, nell’attesa di un accordo definitivo, al Qatar è demandato il dispiegamento di un gruppo di osservatori militari[2] con funzioni di peacekeeping.

La posizione iraniana

Supposizioni non confermate da dichiarazioni ufficiali vorrebbero che il Qatar fosse, in realtà, la longa manus di Tehran nel Corno d’Africa. Il regime degli ayatollah attribuisce, in effetti, da tempo un peso rilevante all’Africa nell’ambito della propria politica estera e mantiene risaputi ottimi rapporti con Doha. Lo stesso Ahmadinejad ha più volte sostenuto che “non ci sono limiti all’espansione dei (nostri) legami con i paesi africani”, come del resto testimoniano i numerosi accordi diplomatici, commerciali e di difesa e le frequenti visite ad alto livello conclusi con diversi Stati del continente nero. Nonostante le differenze settarie (l’Iran è sciita, mentre in gran parte dei paesi africani prevale un Islam sunnita caratterizzato da tratti sincretici con il Cristianesimo e l’Animismo e spesso intriso di mistica sufi), Tehran fa leva proprio sulla fratellanza musulmana ed offre aiuti e petrolio a quei governi ancora deboli e docili di cui spera di ottenere il supporto diplomatico al proprio contestato programma nucleare. La tematica religiosa appare, ad ogni modo, più che altro una copertura al vero obiettivo iraniano di esercitare un’influenza militare in una zona così altamente strategica e di indebolire ulteriormente Israele, i cui rapporti con gli stati africani si stanno progressivamente deteriorando, salvo rare eccezioni, quale quella rappresentata dall’Etiopia.

L’Iran è, effettivamente, uno dei pochi Stati ad avere buone relazioni sia con il Gibuti che con l’Eritrea, mentre i legami con il vicino Sudan rientrano all’interno di una più vasta alleanza regionale filo-iraniana comprendente la Siria, il Qatar, Hezbollah e Hamas. Dopo che il ministro degli esteri Mottaki palesò, nel novembre 2008, alla leadership di Gibuti la propria disponibilità ad aiutare le due parti nella risoluzione della controversia, fu proprio il governo di Asmara a rivolgersi, nel dicembre 2009, a Tehran per assicurarsene l’appoggio. Benché il Gibuti ospiti attualmente una base americana, la Repubblica Islamica è ben conscia dell’esistenza di un terreno fertile per una collaborazione ancora più profonda, una consapevolezza, questa, cementificata dall’aperto sostegno dato da Gibuti alle sue ambizioni nucleari. Dal fronte eritreo si registra, nel contempo, un progressivo allineamento a Tehran:  le ripetute violazioni dei diritti umani commesse da Asmara hanno causato un deciso inasprimento dei rapporti con la gran parte dei paesi africani e occidentali ed il conseguente anelito a rompere l’isolamento diplomatico, ricercando quei partner come il Sudan, la Libia, gli islamisti somali e l’Iran meno sensibili alle tematiche umanitarie e ai moniti della comunità internazionale. L’Iran, da sempre favorevole ad aiutare i governi più diffidenti nei confronti dell’Occidente (nel novembre 2009 il regime di Asmara definì gli USA come propri “nemici storici”), ha, infatti, più volte invitato le proprie imprese ad investire in Eritrea, che pare abbia garantito a Tehran il controllo totale sul porto di Assab nel Mar Rosso.

D’altro canto i legami di Tehran con il Qatar appaiono sempre più stretti, anche in considerazione di comuni radici culturali. Benché intrattenga buone relazioni con gli USA, al cui ombrello demanda ancora la propria sicurezza, Doha ha, infatti, recentemente sostenuto il diritto iraniano all’uso pacifico del nucleare, smarcandosi così nettamente dalla più rigida posizione di Washington e dell’ONU, e mantiene con il regime degli ayatollah rapporti di cooperazione in ambito economico, politico, militare ed energetico. Nel gennaio del 2009 Iran, Qatar e Russia hanno, ad esempio, ufficializzato una gas troika per coordinare l’esportazione del gas, mentre nei prossimi mesi Doha e Tehran dovrebbero siglare un accordo per stabilire la linea di demarcazione della riserva di gas naturale di North Field/South Pars, che i due paesi condividono. Inoltre, l’accordo di cooperazione in materia di difesa del febbraio 2010 manifesta l’importanza strategica che l’Iran attribuisce al Qatar e la rilevanza dell’emirato nel più ampio progetto di Tehran di svolgere un ruolo chiave nel mantenimento della sicurezza e della stabilità nel Golfo Persico e nello stretto di Hormuz. Un rafforzamento dei rapporti tra Iran e Qatar permetterebbe, dunque, da un lato a Tehran di perseguire l’intento di ridurre le tensioni con gli stati del Golfo e, allo stesso tempo, di indebolire una roccaforte statunitense nell’area; dall’altro consentirebbe a Doha di scongiurare eventuali future pretese iraniane sulla propria porzione di riserve di gas, da cui peraltro dipende la prosperità del paese, e di evitare problemi all’interno della numerosa comunità sciita (circa il 30% del totale). Il dubbio, dunque, che il Qatar sia la testa di ponte iraniana nel Corno d’Africa non è certo fuorviante né fantasioso.

Il terrorismo somalo e i legami con lo Yemen

Soprattutto dopo il fallito attentato sul volo Amsterdam – Detroit del Natale 2009 ad opera di un 23enne nigeriano affiliato ad Al–Qaeda addestratosi nello Yemen,  il  Corno d’Africa ed i suoi legami con il gruppo terroristico facente capo a Osama Bin Laden hanno nuovamente attirato la preoccupazione internazionale.  È, infatti, soprattutto in Somalia e in Yemen che pare, ad oggi, essere principalmente localizzato il problema terroristico, tanto che un rapporto del Comitato degli Affari Esteri del Senato americano del gennaio 2010 descrive un inquietante quadro in cui la Somalia rivestirebbe per lo Yemen il ruolo che il Pakistan assume per l’Afghanistan.

La Somalia vive da circa vent’anni in una situazione estremamente drammatica che la rende uno dei paesi più vulnerabili al terrorismo internazionale. Senza un governo centrale credibile, sono i gruppi Al–Shabaab (dall’arabo la gioventù), eredi delle Corti Islamiche[3], a controllare porzioni sempre più vaste del territorio, soprattutto nel sud del paese, compresi i porti di Merka e Kismayo, dove sono particolarmente numerose le attività piratesche, parte dei cui proventi viene utilizzata proprio per finanziare le attività dell’organizzazione. Potendo spesso beneficiare della connivenza dei baroni locali, Al- Shabaab conduce dal 2006 operazioni terroristiche ai danni del governo federale di Mogadiscio (l’ultimo attentato è stato compiuto proprio martedì scorso, 24 agosto) e delle truppe governative appoggiate dai peacekeepers dell’Unione Africana (AMISOM). Proclamatosi allineato con Al–Qaeda dal 2007, Al–Shabaab annovera tra le proprie fila soprattutto giovani perlopiù ventenni, poco istruiti, spesso con trascorsi criminali ed opera frequentemente dei reclutamenti forzati nelle aree più povere del paese, ma può contare anche su centinaia di combattenti volontari provenienti dall’estero (Afghanistan, Pakistan, la regione del Golfo e alcune nazioni occidentali come gli USA e la Gran Bretagna). Il successo dei proselitismi non pare nascere, tuttavia, tanto da una convinta adesione al progetto ideologico di jihad islamico, quanto da un notevole spessore politico e da una chiara agenda “nazionale”, che la accredita come unico movimento sovra-clanico dalla forte impronta nazionalista, nonché dalla profonda crisi umanitaria e sociale in cui versa la popolazione. In molte aree, infatti, Al–Shabaab è l’unica a fornire i basilari servizi sociali e giuridici ma è consapevole che potrebbe perdere consensi in modo celere  e dunque ora adotta anche dei mezzi pragmatici per estendere il proprio potere nel paese. Usando delle strategie politiche per indurre i clan locali alla collaborazione, abile nell’adattarsi alle diverse specificità locali e forte di una propaganda spiccatamente populista, Al–Shabaab riesce, pertanto, a modulare il suo atteggiamento radicale per insinuarsi con successo nei sistemi locali di potere.

La crescita della forza – e dunque della pericolosità – di Al–Shabaab è testimoniata anche dalla recente internazionalizzazione delle azioni terroristiche: è stata, infatti, proprio una cellula somala a rivendicare i due attentati in Uganda del luglio 2010, mentre i leader hanno annunciato di essere pronti ad aiutare i “fratelli” yemeniti. Lo Yemen è, in effetti, la base di addestramento e di reclutamento dei gruppi di Al-Qaeda della Penisola Arabica (AQAP) e il principale luogo di rifugio e di transito per centinaia di giovani somali in fuga dalla guerra, dalla fame e dai reclutamenti forzati di Al-Shabaab. I numerosi campi profughi disseminati nel martoriato territorio yemenita sono, insomma, un fertile terreno di conquista per gli affiliati di Al-Shabaab, che vi si possono infiltrare con facilità, suggellando i legami con i leader di AQAP. Ponte ideale tra l’area afghana e pakistana e il Corno d’Africa, da cui si estendono – attraverso la Somalia – le ramificazioni verso l’intero continente nero, lo Yemen si trova, dunque, in una posizione di notevole rilevanza strategica per i gruppi terroristici. L’obiettivo di AQAP è, infatti, quello di ampliare il proprio controllo su tutta l’area comprendente il Golfo di Aden, il Mar Rosso e, soprattutto, lo stretto di Bab el Mandeb. Quest’ultimo è una fascia di 30 km che separa lo Yemen dal Gibuti e rappresenta il corridoio ideale per stabilire una comunicazione sicura tra i nuclei della penisola arabica e quelli africani e per realizzare, così, una proficua saldatura con Al-Qaeda nel Maghreb Islamico (AQIM), operante ormai anche in Mauritania, Mali e Niger.

L’estrema povertà, la drammatica situazione interna e la grande disponibilità di armi hanno, di fatto, reso lo Yemen l’ultimo santuario di Al-Qaeda, capace di ottenere un grande sostegno dalla popolazione, profondamente ostile ad un governo centrale inadeguato e troppo legato agli USA. AQAP sta, in effetti, traendo beneficio dalla disarmante debolezza di Sanaa, sempre più inetta a controllare un territorio lacerato da lotte intestine. Se, infatti, il sud del paese ospita le principali roccaforti di Al-Qaeda, la zona montuosa settentrionale è occupata dai ribelli sciiti Al-Houthi, che si battono per il riconoscimento di una maggiore autonomia e di un ruolo più incisivo dello sciismo zayadita all’interno della compagine statale. Modellato sull’Hezbollah libanese, Al-Houthi pare riceva ingenti finanziamenti da Tehran, le cui guardie rivoluzionarie (i pasdaran) sono accusate di fornire addestramento ed armi ai ribelli nell’intento di trasformarli in una copia locale del Partito di Dio. Benché l’Iran neghi categoricamente ogni coinvolgimento in merito, riaffermando con forza l’esistenza di “legami fraterni” con Sanaa, sarebbe sostanzialmente impossibile per Al-Houthi operare senza un sostegno esterno, anche perché probabilmente l’Arabia Saudita sta offrendo ospitalità all’esercito yemenita per attaccare i ribelli dal nord.

Conclusioni

Il drammatico quadro delineato fotografa l’esistenza di un complesso intreccio tra povertà estrema, instabilità politica e terrorismo, suscettibile di far precipitare il Corno d’Africa in un baratro senza via d’uscita. Il nefasto connubio di ragioni storiche, politiche ed economiche impone, così, come conditio sine qua non per ogni –difficile- tentativo di stabilizzazione e pacificazione dell’area un impegno costruttivo dell’intera regione e un approccio globale a tutti i conflitti, affinché si affermino i fondamentali principi di buon vicinato, non interferenza e cooperazione regionale.

Se, da un lato, l’aperto sostegno dell’Occidente e degli USA al governo di transizione somalo potrebbe isolarlo ulteriormente e rafforzare la cooperazione tra i gruppi estremisti, il Segretario dell’ONU Ban Ki Moon rileva come Asmara stia compiendo al riguardo apprezzabili passi in avanti. L’Eritrea sta, infatti, lentamente cambiando la propria politica precedente: ha firmato la dichiarazione di Istanbul sulla Somalia, del cui governo non nega più la legittimità, e si sta impegnando in un dialogo costruttivo con i paesi vicini e la comunità internazionale. Il pericolo però che Al-Shabaab riesca ad infiltrarsi anche in Gibuti e a sviluppare un’intensa collaborazione con i vari gruppi di Al-Qaeda rappresenta una minaccia con portata non più solo regionale, ma internazionale e fa temere per la stabilità interna degli Stati più geograficamente prossimi.

* Valentina Francescon è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)


[1] Igad: l’Autorità intergovernativa per lo sviluppo, costituita dai sei stati del Corno d’Africa (Somalia, Eritrea, Etiopia, Kenya, Sudan Uganda e Gibuti), volta al perseguimento dei seguenti obiettivi: 1. sicurezza alimentare e protezione ambientale; 2. prevenzione, gestione e risoluzione dei conflitti;3. affari umanitari e sviluppo infrastrutturale.
[2] Si tratta di ufficiali in servizio permanente messi a disposizione delle Organizzazioni Internazionali per un impiego temporaneo nelle aree di crisi ove è necessario controllare gli accordi stipulati tra le parti contendenti in merito al cessate-il-fuoco, alla salvaguardia delle integrità delle zone di interposizione, all’evacuazione di profughi e/o feriti, al controllo degli armamenti e della situazione generale.
[3] L’Unione delle Corti Islamiche era la coalizione antigovernativa legata al terrorismo islamista internazionale che nel 2006 conquistò gran parte della Somalia, inclusa la capitale Mogadiscio. Fu sconfitta militarmente dai soldati inviati alla fine del 2006 dall’Etiopia in difesa del governo somalo di transizione in procinto di soccombere. L’ala più giovane delle UCI, che continuò a combattere, si è presto riorganizzata nei gruppi armati ora noti con il nome di Al-Shabaab.

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Malvinas, petrolio e la diplomazia del potere

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Nei miei interventi sull’Argentina e sulle ipotesi di conflitto ho sollevato la questione  della difesa delle risorse naturali strategiche come prioritá della politica statale, dinanzi a uno scenario internazionale che, in maniera crescente, punta alla lotta per la loro conquista.

Lascio intravedere l’importanza del riarmo, non nel senso in cui lo conosciamo (o crediamo di conoscerlo, o in cui esso si relaziona alla corsa agli armamenti, o allo scontro, etc.) bensì nel senso di una modernizzazione dell’apparato difensivo, intendendo per esso non solo il braccio armato della politica estera  (le FF.AA.), ma anche l’educazione, la salute, le reti di trasporto e logistiche, i servizi sanitari e la difesa civile, etc., cioè tutti gli elementi che costituiscono nel loro insieme la Difesa nazionale.

A questo punto un comune cittadino potrebbe domandarsi qual è l’importanza degli arcipelaghi dell’Atlantico del sud per cui l’Argentina e la Gran Bretagna si scontrano. La questione è che non si tratta di semplici isole rocciose prive di risorse e d’importanza strategica, al contrario, oltre alle risorse che in seguito citerò, esse vanno necessariamente inserite in un contesto  nel quale il Sudamerica come regione acquisisce, con il passare del tempo, sempre più importanza nel contesto internazionale. Come ho già detto in altri articoli, la sub- regione sudamericana possiede innumerevoli riserve naturali strategiche di enorme importanza per lo sviluppo umano, da ogni punto di vista, a cominciare dalla risorsa più importante per la vita: l’acqua dolce, che è ció che fa di questa regione una regione che nel XXI secolo sarà tra i principali artefici delle questioni mondiali dal momento in cui la scarsità di questa risorsa aggraverà[1].

Questa importanza si nota quando si analizza la politica nordamericana, iraniana e quella di altre potenze in relazione alla nostra regione, dato che è evidente una corsa a esplorare e a guadagnare terreno e sostegno. Cosí mentre gli Stati Uniti mantengono una presenza diretta (militare) in diversi paesi della regione a cominciare dalla Colombia, l’Iran cerca di allearsi con il Venezuela di Chavez e i suoi alleati per mezzo di accordi energetici e commerciali, la Cina fa lo stesso servendosi di accordi tecnologici e Israele anche, come nel caso, tra gli altri, dei recenti accordi con la Colombia per la produzione di tecnologia militare.

Però come si colloca la questione Malvinas in questo contesto? In primo luogo una delle cose più ovvie che possono venire in mente è che questi arcipelaghi, geograficamente parlando, sono parte integrante del cono sud americano. Non è un dato minore né di scarsa importanza allorquando la regione cerca di integrarsi per elaborare politiche comuni dati che queste politiche includono nella loro agenda la questione Malvinas, esattamente com’è avvenuto per l’accordo tra Colombia e Stati Uniti per le basi, che ha indotto la conferenza dell’Unione delle Nazioni Sudamericane (UNASUR) a Bariloche.

Dall’altro lato la questione acquisisce importanza nel momento in cui il mondo vada incontro a conflitti sempre maggiori a causa della scarsità di risorse. Si è parlato molto delle risorse delle Malvinas ma ben poco è stato fatto, anche da parte britannica, fino a questi ultimi giorni durante i quali entrambi i paesi hanno riaperto le ostilità a causa dell’imminente sfruttamento petrolifero nella piattaforma marittima argentina (a nord delle Malvinas) per opera dell’impresa britannica Desire Petroleum, che già conta su un investimento di 135 milioni di dollari e, nel prossimo futuro, per mano delle compagnie Falkland Oil & Gas, Rockhopper e Borders & Southern Petroleum.

Così mentre ci sono elementi che affermano che nelle isole vi siano circa 18.000 milioni di barili di petrolio[2], dall’altro lato è possibile affermare che, a causa della scarsa esplorazione e sfruttamento britannico, per ora l’importanza delle isole  per il Regno Unito risiede unicamente nel rafforzamento  della sovranità sulle isole e sulla regione dell’Atlantico del sud, come accesso e base d’appoggio per future spedizioni antartiche e come fonte di potere diplomatico una volta giunta l’ora di negoziare nell’arena internazionale, dato che sono le vittorie diplomatiche che garantiscono le maggiori possibilità di raggiungere altri obiettivi diplomatici.

Il quotidiano inglese The Guardian aveva pubblicato notizie relative  alla scoperta di importanti giacimenti petroliferi nelle isole e sulle ripercussioni economiche per gli isolani, la cui popolazione non supera i 3.000 abitanti, che già godono di uno tra i redditi pro capite più alti del pianeta, dovuti agli introiti delle attività legate alla pesca[3] .

È importante dire quanto è allarmante la situazione per l’Argentina, tenendo conto dell’importanza del petrolio nel mondo ricordando che il presidente Néstor  Kirchner ha annullato il trattato sulle concessioni nelle esplorazioni di ricerca di questa risorsa nelle isole, che opportunamente avevano firmato Argentina e Gran Bretagna.

Nel caso delle Malvinas la vittoria britannica consiste nel non lasciare spazio all’inizio di trattative diplomatiche e nel mantenere, in questo modo, la sovranitá sulle isole, la ragione che avanzano in loro sostegno é la libera detereminazione degli isolani di appartenere alla corona, con il loro status politico di Territorio di Oltremare, con tutti gli stessi diritti di qualsiasi altro cittadino britannico.

Questi interessi (di mantenimento della sovranitá e del potere) sono dimostrati dal crescente aumento del potere militare britannico nelle Malvinas che, nonostante alcuni puntuali dietrofront nell’invio di navi cresce nel tempo, tanto da inviare alla base di Mount Pleasant, alla fine del 2009, i moderni Eurofighter Typhoon per rimpiazzare i vecchi Panavia Tornado F3, con il solo obiettivo di “intercettare una possibile incursione argentina”[4]. Questo é qualcosa che difficilmente si verificherá. Va sottilineato che questa é la prima volta che questo aereo effettua una missione transoceanica di difesa.


[1] Global Trends  2025.

[2] 3.500 milioni secondo Desire Petroleum PLC.

[3] http://www.infobae.com/mundo/429078-100897-0-Revelan-que-hablar%EDa-una-reserva-millionaria-petr%F3leo-las-Islas-Malvinas

[4] http://www.janes.com/news/defence/jdw/jdw090930_1_n.shtml

* Matías Magnasco è docente del Master in Relazioni internazionali dell’Università Internazionale Tres Fronteras, direttore dell’Osservatorio Guyana e Suriname del Centro Argentino di Studi Internazionali, membro del Centro Aeronautico di Studi Strategici della Forza Aerea argentina. E’ un frequente contributore di Eurasia.

Traduzione dallo spagnolo a cura di Ilaria Poerio

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Un’interpretazione geopolitica dell’affaire Mistral

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Un rapido sguardo sulla situazione attuale

Durante lo show navale tenutosi a San Pietroburgo nel giugno 2009 fu discussa, per la prima volta, la possibilità che la Russia acquistasse un certo numero di navi da guerra francesi. Dopo una serie di contatti informali e notizie frammentarie che si rincorsero per qualche mese, nel settembre 2009 Parigi e Mosca annunciarono pubblicamente la loro volontà di discutere i dettagli del contratto di vendita che avrebbe permesso alla Russia di acquistare un certo numero di portaelicotteri di produzione francese. Sin dal principio entrambe le parti erano consapevoli del fatto che le discussioni avrebbero richiesto qualche anno ed una buona dose di pragmatismo e buona volontà.

Nel corso dei mesi si sono pian piano palesati tutta una serie di nodi, alcuni dei quali sciolti agievolmente altri ancora presenti, che hanno impedito una rapida conclusione dell’affare.

Per tutta una serie di motivi legati alla politica interna ed estera dei due Stati, che prenderemo in esame nei paragrafi seguenti, ci sembra di poter affermare che la questione non sia puramente commerciale ma chiami in causa molti altri fattori, tra cui quelli geopolitici, che potrebbero far deragliare l’accordo. Senza ombra di dubbio, Francia e Russia hanno mostrato capacità di comprensione reciproca, ad esempio, accordandosi in via di principio sul cosidetto schema 2+2: quando fu chiaro che la Russia avrebbe voluto acquistare 4 navi francesi la discussione si focalizzò sulla seconda in quanto la prima sarebbe stata costruita in Francia, la terza e la quarta in Russia sotto licenza mentre sulla seconda si discusse più a lungo. In un primo tempo Mosca affermò di voler costruire anche la terza nei propri cantieri ma accettò poi di lasciare l’onere e l’onore ai cantieri francesi onde evitare di mettere in difficoltà il Presidente francese Sarkozy. Dunque ci fu un’evoluzione, dettata dalla comprensione reciproca, dallo schema 1+3 al 2+2. Al contrario, un punto molto delicato su cui non si è raggiunto ancora un accordo e che potrebbe far naufragare la vendita è quello del trasferimento di tecnologia. Fin dal principio, Mosca ha posto come conditio sine qua non per la conclusione della vendita il fatto di poter acquistare le navi con l’attuale dotazione di sistemi missilistici e di tecnologie di guerra. Come esponenti di spicco delle gerarchie militari e delle elite politiche russe hanno affermato, Mosca non è interessata a comprare una scatola vuota, alla Russia non interessa la nave in sè bensì le sue capacità. Questo, per motivi legati alla sua collocazione internazionale che presto prenderemo in esame, mette in difficolta la Francia che tende ad avere alcune riserve su tale punto.

Sebbene molti, sia in Russia che in Francia, abbiano sostenuto che la firma del contratto è ormai imminente e dovrebbe tenersi allo Euronaval show che si terrà il prossimo ottobre a Parigi i nodi irrisolti, a cominciare dal trasferimento di tecnologia di cui dicevamo poc’anzi, restano tutti – al punto che qualche giorno fa Mosca ha lanciato un bando di gara, che verrà ufficializzato a settembre, aperto a società russe e straniere per l’acquisto di navi da guerra appartenenti alla stessa classe della Mistral francese ed il cui risultato dovrebbe essere pubblicato a fine anno, ponendo così fine alle negoziazioni esclusive con la Francia.

E’ quindi chiaro che la questione del trasferimento di tecnologia ha dei pesantissimi risvolti di carattere politico e geopolitico su cui non si può tacere e che ci prefiggiamo di analizzare nella presente analisi.


Qualche informazione in più sulle capacità della portaelicotteri Mistral

La portaelicotteri Mistral è uno dei fiori all’occhiello dell’ingegneria militare francese. In termini di dimensioni, con le sue 23.700 tonnellate di peso ed i suoi 199 metri di lunghezza, è seconda soltanto alla portaerei Charles De Gaulle.

La prima missione francese in cui fu utilizzata la Mistral risale al 2006, quando fu necessario evacuare gli stranieri presenti in Libano che rischiavano di rimanere coinvolti negli scontri tra Israele e Hezbollah.

La Mistral, prodotta dalla francese Direction des Constructions Navales Services (DCNS), ha la possibilità di trasportare 16 elicotteri, un contingente di 450 uomini (che può arrivare fino a 900 in situazioni di emergenza sebbene per un tempo limitato), 60 veicoli blindati o 13 carri armati e 1200 tonnellate di merce.

Ciò di cui i francesi vanno fieri e che i russi apprezzano profondamente è il fatto che la Mistral è una portaelicotteri che può essere utilizzata per una serie molto ampia di funzioni, tra le quali spiccano il lancio di assalti anfibi, la possibilità di essere impiegata come centro di controllo e comando mobile ed ospedale. Inoltre, grazie a motori di nuova generazione, i consumi sono molto contenuti. Il prezzo per una Mistral oscilla tra i 400 ed i 500 milioni di euro, equipaggiamento militare escluso.

Grazie agli eccellenti livelli di qualità raggiunti non è facile, ed i russi ne sono consapevoli, trovare un sostituto alla Mistral. Solo la ‘Le Dokdo’, costruita dalla divisione navale della sudcoreana Daewoo è in grado di reggere la concorrenza con il modello francese.

La tecnologia in dotazione alla Mistral è di ultima generazione e permette a chi la possiede di dotarsi di un mezzo versatile per la realizzazione di una ampia serie di obiettivi. Come dicevamo, il trasferimento di tecnologia è il tema più caldo, sotto il profilo politico, che i due Paesi sono chiamati a discutere.


La Russia e le pressioni interne

Deve essere chiaro fin dal principio che le trattative sono giunte in una fase alquanto delicata ed una loro conclusione in senso negativo provocherebbe un danno politico ed economico ad entrambi i Paesi. Detto questo, ci sembra corretto affermare che sotto il profilo delle pressioni internazionali la Russia si trovi in una posizione più facile rispetto alla Francia. Sebbene sia membro di diverse organizzazioni internazionali, in alcune delle quali gioca persino il ruolo guida come nel caso della OTSC, nessuno dei suoi alleati ha espresso preoccupazione per il possibile impiego delle Mistral (anche perchè, fanno osservare molti, i membri della suddetta alleanza non hanno sbocchi sul mare e di conseguenza non temono possibili sbarchi anfibi russi). La Francia, al contrario, subisce pressioni ed è costretta a dare spiegazioni a molti alleati all’interno e all’esterno della NATO. Quindi almeno a livello di politica internazionale la Russia non stà incontrando gli stessi ostacoli della Francia ed è libera di portare avanti il proprio ambizioso piano di riforma militare ed ammodernamento degli armamenti in possesso alle proprie forze armate al fine di metterle al passo con le sfide che attendono la Russia nel XXI secolo.

In un certo senso la guerra contro la Georgia dell’agosto 2008 ha fatto da catalizzatore a questa spinta riformista: senza ombra di dubbio, la guerra fu vinta dalla Russia che, contrariamente a ciò che scrivono molti, non fece un uso sproporzionato della forza (perchè se così fosse oggi probabilmente non esisterebbe più una Georgia indipendente). Tuttavia il conflitto mise a nudo tutta una serie di carenze dell’hardware e dell’elettronica russa su cui è necessario intervenire. Per capire quanto importante sia la Mistral per le forze armate russe è sufficiente riportare le parole del comandante della marina russa, ammiraglio Vladimir Vysockij, che nel settembre 2009, ricordando le operazioni di sbarco di truppe russe dal mare sulla costa georgiana, sottolineò come con una Mistral i russi avrebbero potuto raggiungere tale obiettivo in 40 minuti invece delle 26 ore impiegate. Chiaramente tali parole devono essere lette come una critica alle capacità navali russe.

Il presidente russo Medvedev ha stabilito che il 2020 è l’anno in cui questo processo di rapida modernizzazione deve essere portato a termine. Per raggiungere tale obiettivo la Russia ha rinunciato al principio di proteggere il proprio complesso militare-industriale acquistando solo le armi da esso prodotte per orientarsi anche verso i produttori esteri. Non solo. I vertici politici e militari russi non hanno risparmiato critiche al settore: oltre all’esempio sopra citato dell’ammiraglio Vysockij, vale la pena citare il capo di stato maggiore, generale Nikolaj Makarov, che ha più volte criticato i produttori nazionali affermando che essi non sono in grado di capire e di produrre ciò che serve alla Russia.

Mosca sembra molto determinata nel portare a termine il proprio obiettivo ed ha già acquistato all’estero armi altamente teconologiche (come ad esempio i droni israeliani) o è in trattative avanzate (come nel caso dei veicoli blindati per il trasporto truppe prodotti dalla italiana IVECO).

Chiaramente se l’affare Mistral andasse in porto sarebbe il più grande acquisto di armi provenienti da un Paese membro della NATO mai realizzato e potrebbe avere, in questo caso il condizionale è d’obbligo, delle ricadute geopolitiche non indifferenti avvicinando politicamente la Russia al cuore dell’Europa attraverso i suoi stretti legami con Francia, Germania ed Italia, rendendo ancor più stringente la necessità di riformare le istituzioni su cui si regge la sicurezza europea al fine di accogliere la Russia come partner paritario in grado di assumersi le proprie responsabilità.

Sul versante russo, le resistenze più temibili all’accordo (anche se non impossibili da superare) provengono dall’interno, in particolare dai produttori di armi e dai costruttori di navi che riescono, grazie al loro peso economico ed ai contatti politici, ad esercitare forti pressioni. Molte compagnie navali russe, alcune delle quali appartengono alla Compagnia di Costruzioni Navali Unite, l’azienda di stato che avrà il compito di costruire le due navi francesi sotto licenza nel casi in cui l’accordo dovesse andare a buon fine, mettono in dubbio che l’acquisto della portaelicotteri francese sia un buon affare per Mosca e si dicono pronte e capaci a realizzarne una simile. Molte di queste stesse compagnie critiche verso l’accordo si sono rivolte al servizio anti-monopolio russo affinché questa investigasse sul caso Mistral per capire se non fosse stata violata la legislazione antimonopolistica russa.

È probabile che uno dei motivi per cui la Russia ha recentemente deciso di indire un bando di gara aperto a competitori nazionali ed internazionali e di porre fine ai negoziati esclusivi con la Francia sia quello di mettere a tacere queste critiche, senza però perdere di vista la necessità di concludere l’affare con Parigi. Questo perchè a Mosca sono veramente pochi coloro che credono che attualmente i costruttori navali russi ed i produttori di armi in generale possano realizzare qualcosa anche solo lontanamente simile alla Mistral fancese. Anzi, certi grandi fallimenti (come ad esempio le difficoltà di collaudo dei nuovi missili intercontinentali Bulava con relativi fallimenti nei lanci di prova e l’affondamento del sottomarino Nerpa nel 2008 che ha causato la morte di 20 persone dell’equipaggio) hanno aperto gli occhi anche ai più ottimisti. È probabile quindi che il bando di gara sia solo un escamotage per mettere a tacere le critiche provenienti da aziende nazionali con cui è meglio evitare lo scontro frontale. Anche perchè non è intenzione né tanto meno interesse di Mosca mettere in ginocchio e smantellare la propria industria militare; al contrario l’obiettivo è quello di aiutarla a rilanciarsi attraverso l’importazione di tecnologie straniere utili a permettere la riduzione di un gap tecnologico che al momento è abbastanza ampio mentre, allo stesso tempo, si cerca di sostenere i prodotti migliori e tecnologicamente più competitivi.

Se il processo di modernizzazione delle forze armate lanciato dalla Russia dovesse andare a buon fine, Mosca dovrebbe riuscire ad ottenere una serie di benefici militari, economici e geopolitici scaglionati nel tempo. Un buon esempio di quanto appena affermato viene sempre dal possibile acquisto delle 4 Mistral da cui la Russia punta ad ottenere diversi risultati, tra i quali:

1. con la loro entrata in servizio Mosca otterrebbe fin da subito una rinnovata capacità di proiezione geopolitica sui mari e sui rimlands attraverso la distribuzione (questa pare essere al momento l’idea) di una nave a ciascuna Flotta (Baltico, Nord, Pacifico, Mar Nero). Questo permetterebbe di iniziare a colmare alcune delle lacune che affliggono la attempata marina russa;

2. con l’acquisizione della tecnologia (non dimentichiamo che la Russia è interessata alla Mistral non solo o non principalmente per la sua capacità di assalto anfibio, ma per il suo valore come piattaforma di comando con elettronica avanzata per la gestione della battaglia e delle operazioni militari network-centric in mare) da parte dei costruttori russi che si occuperebbero delle 2 Mistral da realizzare sotto licenza la produzione nazionale sarebbe in grado di fare un passo in avanti in termini tecnologici che le permetterebbe di rispondere in modo più efficente alle necessità delle forze armate russe;

3. la Russia, che vuole le Mistral complete dell’equipaggiamento di navigazione e della documentazione tecnica ma che intende equipaggiarla, almeno parzialmente, con armi ed elicotteri russi (nello specifico, gli efficientissimi Ka-52 Alligator) mostra di essere interessata a sostenere, soldi alla mano, l’industria nazionale in grado di produrre eccellenza e, last but not least, posti di lavoro.

Ora, affinchè quanto appena detto sui possibili benefici che l’acquisto della Mistral può apportare si realizzi, è necessario che Mosca riesca a convincere Parigi ad accettare un trasferimento totale di tecnologia. I vertici politici e militari russi sono stati molto chiari: niente trasferimento di tecnologia niente affare!

Al fine di convincere la Francia a cedere su questo punto la Russia sta esercitando tutta una serie di pressioni: molti credono che l’aver messo fine alle discussioni esclusive con Parigi e l’aver indetto un bando di gara sia in realtà una forma di pressione per obbligare la Francia a cedere sul trasferimento di tecnologia. Inoltre, sempre come forma di pressione, la Russia tiene aperte le discussioni con Olanda, Spagna e Corea del Sud per l’acquisto di navi appartenenti alla stessa classe della Mistral. Come precedentemente detto, la Daewoo rappresenta il concorrente più temibile per la Mistral anche se, ed è bene tenerlo a mente, solo con l’acquisto delle Mistral e l’avvicinamento alla Francia la Russia può ottenere i dividendi geopolitici sperati sul continente europeo al fine di archiviare la guerra fredda ed essere considerata un interlocutore credibile e fondamentale per la sicurezza. Chiaramente l’acquisto Mistral non garantirebbe tali risultati in modo automatico ma sarebbe sicuramente un ottimo inizio. Al contrario, acquistando la Dokto le ricadute politiche sarebbero molto meno significative.

Oltre alle pressioni, che se diventano eccessive potrebbero rivelarsi anche controproducenti, la Russia dovrebbe impegnarsi in atti di diplomazia pubblica volti a sgomberare il campo da tutti quei pregiudizi tipici della guerra fredda che ancora oggi la penalizzano e che sono molto diffusi sul continente europeo, in particolare nell’Europa Orientale. Mosca deve proseguire sulla linea utilizzata dal Presidente Medveded volta a presentare l’accordo sulle Mistral come segno di buona volontà e cooperazione nei confronti della Russia poiché tale affermazione, come presto vedremo, ben si combina alla visione del Presidente francese Sarkozy.


La Francia e le pressioni esterne

In un certo senso la Francia si trova ad affrontare una situazione diametralmente opposta a quella dell’interlocutore russo: mentre a livello interno non sembrano esserci troppi ostacoli alla conclusione dell’accordo, sul fronte internazionale Parigi si trova a subire pressioni da parte di certi alleati che non vedono di buon occhio la vendita delle Mistral, soprattutto se equippaggiate con tutta la loro tecnologia. Estonia, Lettonia, Lituania e Georgia sono gli Stati che hanno pubblicamente espresso la propria opposizione al progetto poiché temono che la potenza militare della Mistral venga rivolta, prima o poi, contro di loro. Questi Stati hanno chiesto che l’accordo venga accantonato o, nel caso in cui vada in porto, che non avvenga alcun trasferimento di tecnologia militare e che si fornisca garanzie alla loro sicurezza nazionale, altrimenti si vedranno costretti a prendere misure volte ad autotutelarsi. Dal nostro personale punto di vista ci sembra che le preoccupazioni della Georgia trovino, in virtù delle relazioni altamente conflittuali con la Russia, un certo fondamento mentre è un po’ più difficile comprendere e condividere la posizione dei tre Stati Baltici la cui indipendenza non sembra minimamente in pericolo.

Anche se Estonia, Lituania e Lettonia hanno chiesto che si dibatta la questione in sede NATO per il momento sembra che l’Alleanza non sia disponibile, al punto che il Segretario generale della NATO, Anders Fogh Rasmussen, ha più volte ribadito che la vendita della Mistral è una questione bilaterale tra Francia e Russia e si è detto sicuro del fatto che la Russia, un partner della NATO, non utilizzerà tali armamenti contro altri Paesi. È chiaro che Rasmussen può tenere questa posizione molto accomodante perchè il membro più importante dell’Alleanza, vale a dire gli Stati Uniti d’America, non hanno formulato una politica lineare verso tale questione. Sebbene il segretario di stato Hillary Clinton e quello alla difesa Robert Gates abbiano espresso qualche dubbio in proposito (ma non opposizione) altri, come l’ambasciatore americano a Mosca John Beyrle, si sono detti favorevoli alla conclusione dell’accordo. Lo stesso presidente USA Barack Obama nel marzo scorso aveva affermato che si sarebbe dovuto discutere della questione in sede NATO per capirne gli effetti sulla stabilità europea ma poi, e questo non ci sembra casuale, non se ne fece nulla. È probabile che in questo momento gli USA stiano facendo buon viso a cattivo gioco: chiaramente il fatto che due tra gli Stati europei più importanti discutano di armi e sicurezza scavalcando Washington non è certo cosa gradita, ma il reset delle relazioni USA-Russia impone che si adotti una linea prudente. Inoltre non bisogna dimenticare che gli USA hanno una presenza geopolitica in Europa ben radicata e se dopo l’ipotetica conclusione dell’affare Mistral si vorrà discutere di sicurezza nel vecchio continente nessuno potra esimersi dall’ascoltare il punto di vista e le necessità nordamericane in materia. Per il momento comunque la più grande preoccupazione di Washington non è la vendita delle 4 portaelicotteri francesi alla Russia bensì il comportamento degli alleati orientali: gli USA non possono disinteressarsi totalmente delle loro preoccupazioni poiché potrebbero averne un danno in termini di credibilità e innescare processi politici difficili da controllare che potrebbero richiedere un impegno maggiore di Washington in Europa Orientale, in un momento non facile per la diplomazia americana e soprattutto per le casse statali.

I motivi che spingono la Francia ad appoggiare la vendita delle Mistral alla Russia sono molteplici, qui riportiamo quelle che a noi sembrano essere i più importanti:

1. non è un segreto il fatto che Parigi aspiri a mantenere ed ampliare la propria centralità nella politica europea e cerchi di evitare di essere messa in ombra dal dinamismo di Berlino che da molti anni a questa parte sembra aver incrinato il mito dell’asse franco-tedesco come motore dell’integrazione europea. Vendendo le portaelicotteri Mistral a Mosca la Francia mette sul tavolo una delle sue carti vincenti in grado di mettere in ombra la stessa Germania, vale a dire la produzione di armi d’eccellenza, al fine di evitare che sia solo Berlino a guidare il processo di riappacificazione con la Russia. È in quest’ottica che devono essere lette le parole del presidente Sarzoky quando più volte ha ribadito che non si può chiedere a Mosca la sua collaborazione su temi caldi quali l’Afghanistan ed il programma nucleare iraniano e poi rifiutarle la vendita della Mistral perchè si dubita delle sue intenzioni, se la Russia è un alleato va trattato come tale. Si tratta chiaramente di un messaggio importante che potrebbe avere un effetto boomerang dirompente sulla credibilità francese se l’accordo dovesse fallire perchè Parigi rifiuta il trasferimento di tecnologie come chiesto dall’alleato russo.

2. secondo le statistiche del SIPRI, la Francia è il quarto esportatore mondiale di armi ed è uno dei pochi Paesi al mondo in grado di offrire tutto ciò che serve per garantire la sicurezza nazionale dello Stato acquirente. La vendita di armi è chiaramente un affare molto remunerativo che permette a Parigi di incassare svariati miliardi di euro all’anno. Ora, come ha giustamente fatto notare Jean-Pierre Maulny, direttore aggiunto dell’Institut de relations internationales et stratégiques (Iris), le esportazioni francesi di armi sono cresciute ma il mercato mondiale è cresciuto ancor più velocemente e ciò significa che Parigi stà perdendo terreno! È chiaro dunque che la vendita delle Mistral permetterebbe alla Francia di recuperare;

3. la crisi economica e finanziaria ha colpito duro anche in Francia e, al pari di molti altri Paesi, la ripresa sembra molto più lenta di quanto ci si attendesse. Buona parte della classe politica francese, presidente Sarkozy in testa, vede nella costruzione di 2 delle 4 Mistral oggetto delle trattative un utile stimolo al rilancio della produzione nazionale ed un messaggio di speranza per i lavoratori dei cantieri navali di Saint Nazaire e per le loro famiglie.

Anche dal lato francese, al pari di quello russo, tutti questi importanti risultati verranno conseguiti se e solo se Parigi accetterà un trasferimento di tecnologia connesso alla vendita delle Mistral. La questione è alquanto delicata perchè le pressioni su Parigi sono molte. Si consideri, per esempio, ciò che accadde all’inizio dell’anno: dopo la visita nelle capitali delle tre Repubbliche baltiche del ministro francese per gli affari europei Pierre Lellouche al fine di calmare le preoccupazioni nate attorno all’affaire Mistral, la Lituania emise un comunicato in cui si affermava che il ministro aveva dato garanzie sul fatto che la portaelicotteri francese sarebbe stata venduta alla Russia priva di tecnologia militare, quasi si trattasse di una nave civile.


Conclusioni

Se l’accordo per l’acquisto delle 4 navi Mistral (secondo lo schema 2+2) andasse in porto entrambi i Paesi ne trarrebbero, come abbiamo cercato di mostrare, innegabili vantaggi economici, politici e geopolitici. Le difficoltà chiaramente non mancano e potrebbero far deragliare i negoziati: in particolare, come abbiamo visto, la questione del trasferimento di tecnologia è al centro degli incontri bilaterali. Essa ha un significato eminentemente politico e come tale necessita di una soluzione politica. In particolare ci sembra che la Francia, la quale ha volontariamente scelto di cimentarsi in tale contrattazione con Mosca, debba avere il coraggio, seppur condito da tutta la diplomazia ed il tatto di cui Parigi è capace verso gli altri membri NATO, di dar seguito alle proprie dichiarazioni secondo cui se la Russia è un alleato va trattata come tale e di conseguenza, pensiamo noi, il trasferimento di tecnologia militare cosidetta ‘sensibile’ non dovrebbe costituire un problema.

Poichè in ballo non vi sono solo 4 portaelicotteri ma anche e soprattutto le geometrie che giacciono alla base degli equilibri europei è doveroso che entrambi i Paesi facciano tutto il possibile per facilitare un esito positivo dei negoziati.


* Alessio Bini, dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna), collabora con “Eurasia”

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Oro blu – La contesa del gas tra Cina, Russia ed Europa

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Oro blu – La contesa del gas tra Cina, Russia ed Europa

di Stefano Casertano

prefazione di Massimo Nicolazzi.

Il libro evidenzia il sempre maggiore fabbisogno di gas da parte dei Paesi UE, di cui circa un quarto importato dalla Federazione Russa e che si prevede raddoppiare da oggi al 2025.

Stefano Casertano è docente di economia delle risorse energetiche all’Università di Potsdam-Germania, ed è consulente per ministeri, istituzioni pubbliche ed NGO in Europa, negli Stati Uniti ed in Medio Oriente. Ha conseguito un MBA alla Columbia University di New York e un Ph.D. all’Università di Potsdam, sui rapporti tra economie estrattive e conflitti sociali. Nel 2009 ha pubblicato Sfida all’Ultimo Barile, una storia petrolifera della Guerra Fredda.

Massimo Nicolazzi, tra i maggiori esperti internazionali di petrolio e gas, si occupa di idrocarburi da trent’anni: oggi da Vienna come amministratore delegato di Centrex Europe & Energy Gas, in passato come consulente ed advisor, prima ancora ricoprendo incarichi direttivi in Agip-Eni e successivamente in Lukoil, la più grande compagnia petrolifera russa ed una delle maggiori al mondo.

Pagine 94, Formato 14cm x 20,6cm ISBN 9-788890-465833

Fuoco Edizioni
Via dei Gonzaga 54b
00163 – Roma
Tel. 0666156035, Fax 0666483373
ordini@fuoco-edizioni.it
http://www.fuoco-edizioni.it/

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L’assistenza militare Cinese al Pakistan e le sue implicazioni per l’India

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Fonte: http://www.southasiaanalysis.org/papers40/paper3996.html

24 Agosto 2010

Asif Ali Zardari, presidente del Pakistan ha ammesso che nessuna relazione tra due Stati sovrani è unica e durevole come quella tra il Pakistan e la Cina.

Le relazioni tra il Pakistan e la Cina sono iniziate dal 1950, quando il primo ruppe i rapporti diplomatici con la Repubblica cinese e riconobbe la Repubblica popolare cinese. Con il passare del tempo i rapporti tra i due Paesi si sono rafforzati, avendo l’India come nemico comune. Entrambi i paesi si sostengono a vicenda anche su questioni internazionali. La Cina sostiene il Pakistan sul Kashmir, mentre il Pakistan supporta la Cina sulle questioni del Tibet, di Taiwan e dello Xinjiang.

Hussain Haqqani un alto diplomatico pakistano ha sottolineato che “Per la Cina, il Pakistan è un vantaggioso deterrente secondario verso l’India, mentre per il Pakistan, la Cina è un garante di alto valore per la sicurezza contro l’India“.

La Cina favorisce anche le tensione tra India e Pakistan, lasciando, in questo modo, l’India impegnata nella regione dell’Asia del Sud, non potendo così sfidare la Cina in campo internazionale.
Gli aiuti militari Cinesi al Pakistan

Lisa Curtis della Heritage Foundation, un think tank di Washington, citata su un articolo, affermava che “la politica cinese nei confronti del Pakistan è determinata principalmente dal suo interesse a contrastare la potenza indiana nella regione, e deviava la forza militare e l’attenzione strategica indiana lontano dalla Cina“.

La Cina è il principale fornitore di armi del Pakistan. Anche per il trasferimento di tecnologia e know-how il Pakistan dipende molto dalla Cina. La Cina ha trasferito 36 missili balistici M9, anche se l’ha riconosciuto ufficialmente soltanto nel 1992.

Da allora in poi, i legami della difesa tra le due nazioni si sono sempre più rafforzati, con la Cina che aveva anche fornito al Pakistan aerei JF-17 e F-7, e diversi tipi di armi di piccolo calibro e di munizioni.

Il 70 per cento degli aerei e dei carri armati (MBT) delle forze armate del Pakistan è stato acquistato dalla Cina. La Cina ha fornito più di 400 aerei militari, 1600 MBT e più di 40 navi. La maggior parte dei progetti missilistici pakistani è stata avviata dalla Cina.

La Cina non solo ha modernizzato l’esercito Pakistano, ma anche creato dei progetti comuni col Pakistan. I J-10 e JF-17 sono l’ultima versione cinese degli aeromobili russi SU-27 e MiG-29*. Il caccia JF-17 Thunder è stato sviluppato congiuntamente dai cinesi e dai pakistani presso il Pakistan Aeronautical Complex, di Kamra. Si tratta di un avanzato aereo da combattimento leggero multi-ruolo. Inizialmente, dei missili cinesi sarebbero stati montate sul JF-17 e poi l’aereo sarebbe stati dotato di più sofisticati radar e missili.

Oltre il JF-17, altri progetti comuni importanti includono il K-8 Karakorum, aereo d’addestramento  avanzato, il tank al-Khalid, i missili da crociera Babur, la fregata F-22, sistemi AWACS (Airborne Warning and Control System), ecc. La Cina ha anche costruito il porto oceanico di Gwadar e assistite il Space and Upper Atmosphere Research Commission del Pakistan (SUPARCO) nello sviluppo della tecnologia spaziale. La Heavy Rebuild Factory Factory (HRF) di Taxila è stato costruito con l’assistenza cinese.

La Cina ha aiutato il Pakistan anche nello sviluppo del programma nucleare. Secondo un rapporto dell’agenzia d’intelligence degli Stati Uniti, la Cina aveva trasferito non solo progetti di armi nucleari, ma anche uranio bellico, in modo che al Pakistan fosse possibile costruire due bombe nucleari. La Cina ha costruito due reattori nucleari a Ch’asma, e ha anche voluto costruirvi altri due reattori nucleari, ma la cosa non andò lontano.

La fregata anti-sommergibile 054A, costruita nel cantiere navale Huangpu è stata venduta alla marina del Pakistan.

Il Ministro della Difesa cinese, Liang Guangile, incontrando Noman Bashir, capo di stato maggiore della marina del Pakistan, nel dicembre 2009 a Pechino, ha ribadito che le forze armate cinesi vorrebbero migliorare i loro rapporti amichevoli con le forze della Difesa pakistana. Il Generale Liang ha confermato che la marina pakistana avrebbe ricevuto un totale di otto Fregate F-22P da 3000 tonnellate dalla Cina. Tuttavia, il Pakistan vuole acquistare anche navi da 4.000 tonnellate, da affiancare alle Fregate F-22P. La leadership cinese è disposto a dare le navi da 4.000 tonnellate al Pakistan. Il Pakistan anche acquisito 120 missili da crociera anti-nave a lungo raggio cinesi C-802. La Cina ha dato al Pakistan anche un secondo SAAB 2000 attrezzato col radar ERIEYE e fornirà anche un velivolo da allarme precoce aereo Shaanxi ZDK-03.

La Cina vorrebbe creare delle basi militari all’estero. Almeno una base militare sarebbe stabilita in Pakistan. Una base militare cinese in Pakistan farebbe pressione sull’India e controbilancerebbe l’influenza degli gli Stati Uniti in Pakistan e Afghanistan. Non solo, la base militare cinese in Pakistan faciliterebbe alla Cina la repressione della rivolta degli Uiguri, che chiedono una nazione indipendente nella provincia dello Xinjiang.

La Cina assiste liberamente il Pakistan non solo sui fronti diplomatico, della difesa, della tecnologia e nucleare, ma anche sul fronte economico. Più di 60 imprese e circa 10 mila lavoratori cinesi sono coinvolti in 122 progetti in Pakistan. Gli investimenti cinesi hanno già superato i 7.000 milioni dollari e potrebbe aumentare a 10 miliardi dollari quest’anno.

La visita della delegazione cinese

Il Consigliere di Stato e Ministro della Difesa cinese, Generale Liang Guanglie, ha guidato una delegazione di 17 membro in Pakistan, il 23 maggio 2010, in una visita di due giorni. La delegazione in visita ha incontrato il presidente pakistano, il primo ministro, il ministro della difesa e i generali al vertice militare, compresi il Generale Ashfaq Parvez Kayani, Capo di Stato Maggiore dell’Esercito e il Generale Tariq Majid, presidente del Comitato dei capi di stato maggiore. Sia il Generale Kayani e che il Generale Majid hanno espresso apprezzamento verso la Cina per il suo genuino sostegno al Pakistan.

I ministri della difesa di entrambi i paesi hanno firmato tre accordi, apparentemente per consentire al Pakistan di combattere il terrorismo. Nell’ambito di tali accordi, la cooperazione e la comunicazione strategica tra le forze armate dei due paesi sarebbero state rafforzate. Esercito, Marina e Aeronautica Militare del Pakistan e della Cina parteciperanno a esercitazioni militari congiunte. I ministri hanno anche concordato di condividere l’intelligence per estirpare la minaccia del terrorismo. Il ministro della Difesa cinese ha anche promesso di fornire quattro aerei da addestramento all’aviazione e 60 milioni di yuan (8,78 milioni di dollari) alle forze della difesa pakistane.

Sia il presidente pakistano che il Primo Ministro hanno sottolineato gli stretti amichevoli legami tra la Cina e il Pakistan. Tuttavia, nel corso dei colloqui, il presidente Zardari ha affermato che l’intelligence indiana si trova dietro gli attacchi terroristici in Pakistan.

Il primo ministro pakistano, Yousuf Raza Gilani, ha anche accusato che vi sono ampie prove che un’agenzia d’intelligence indiana assistita le organizzazioni terroristiche in Pakistan attraverso l’Afghanistan. Gilani ha affermato che il Pakistan vuole sradicare il terrorismo dal suo suolo, ma ha bisogno del sostegno della Cina per combattere il terrorismo. Gilani anche lodato le imprese cinesi, e cioè la  China National Electronic Import and Export Corporation (CEIEC) e China North Industries Corporation (Norinco) per aver dato credito alle forze di difesa del Pakistan.

Il Generale Liang ha dichiarato che la Cina vuole rendere il Pakistan autosufficiente e non desidera mantenerlo dipendente dalla Cina. Ha promesso che la Cina avrebbe fornito, in futuro, pezzi di ricambio in più, unità d’assemblaggio, impianti di alaggio e ulteriori progetti di joint venture con Pakistan.

Cosa dopo?

L’India dovrebbe cercare di contrastare il nesso tra il Pakistan e la Cina, mentre i legami militari e nucleari tra i due paesi si stanno rafforzando. La Cina ancora fornisce clandestinamente missili e tecnologia nucleare al Pakistan. Anche se gli Stati Uniti hanno confermato le informazioni su questa diabolica alleanza, sembra che gli statunitensi non vogliano dare credito a queste evidenti prove.

L’India, inoltre, non ha fatto alcuna opposizione attiva a questo rapporto malsano. L’India dovrebbe radunare il sostegno internazionale contro la proliferazione delle attività illecite della Cina. E’ ora che l’India adotti una campagna contro la tangibile proliferazione illegale della Cina.

Non solo, la Cina dovrebbe inoltre comprendere che la pressione dei taliban, che si sta aggravando molto velocemente nel Pakistan nucleare, potrebbe essere un fenomeno pericoloso per il mondo. La Cina deve utilizzare la sua influenza in modo che l’impatto dei taliban e dei terroristi in Pakistan, non sia tale che possano ottenere il controllo dei dispositivi nucleari.
Giornalista-autore e commentatore di politica estera, relazioni internazionali, terrorismo e sicurezza di New Delhi.

*Il JF-17 è l’evoluzione ultima del MIG-21/J-7. NdT

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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I servizi segreti israeliani infiltrati in tutto il governo libanese

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Fonte: Global Research, 25 agosto 2010 – Opinion Maker
http://globalresearch.ca/PrintArticle.php?articleId=20759

WMR ha appreso dalle sue fonti d’intelligence libanese, che il governo libanese sta arrivando a capire che la penetrazione dell’intelligence israeliana di tutti i gruppi politici del paese, è peggiore di quanto inizialmente creduto.

Il Mossad d’Israele, una volta soddisfatta di penetrare le parti cristiana e drusa del paese, ha ora ben completamente infiltrato, ai massimi livelli, i partiti sunniti e sciiti. Recentemente, il Libano ha accusato il generale a riposo Fayez Karam, un alto membro del Movimento Libero Patriottico del generale a riposo Michel Aoun, alleato di Hezbollah, di spionaggio per conto del Mossad.

Tra i partiti politici penetrati dai servizi segreti israeliani, vi è il Movimento per il Futuro del Primo Ministro Saad Hariri, figlio dell’ex primo ministro libanese Rafik Hariri, assassinato da un’autobomba a Beirut nel 2005. Il tribunale speciale delle Nazioni Unite per il Libano (STL), avrebbe previsto di accusare assai presto dell’assassinio, l’Hezbollah libanese. Tuttavia, il leader di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha annunciato di recente che il gruppo ha avuto la prova video dei droni israeliani, che mostra la Israeli Defense Force monitorare Hariri prima del suo assassinio.

Il procuratore capo del STL, Daniel Bellemare del Canada, ha richiesto le prove di Hezbollah. Tuttavia, WMR ha appreso che Bellemare è sospettato dai servizi segreti libanesi di avere stretti contatti con gli agenti precedente sia della CIA che Mossad. WMR ha precedentemente riferito che Bellemare è sospettato di avere consentito e introdotto prove contro Hezbollah sull’assassinio di Hariri, manipolando intercettazioni delle chiamate al cellulare che imputano la “pistola fumante” a Hezbollah. Si teme che Bellemare potrebbe dare le prova di Hezbollah al Mossad, affinché gli israeliani determinino l’origine della fuga dei video classificati.

Il Mossad avrebbe anche preso di mira anche il successore del leader politico sciita libanese Nabih Berri, attuale speaker del parlamento libanese. L’operazione del Mossad è sostenuta attivamente, da dietro le quinte, dall’Arabia Saudita, un paese che sta rapidamente diventando un sempre più segreto “di Pulcinella” alleato d’Israele in Medio Oriente.

Secondo fonti del WMR in Libano, una rete di Israele e degli Stati Uniti, che può contare sul sostegno delle Nazioni Unite, dopo la prevista incriminazione di Hezbollah per l’assassinio di Hariri, è una rete sunnita nella valle della Bekaa, in Libano. Incluso un membro della stessa famiglia di Ziad al-Jarrah, uno dei presunti dirottatori del volo United 93 dell’11 settembre 2001.

L’intelligence libanese ha collegato Ziad al-Jarrah, che opera dalla Valle della Bekaa, a una rete Salafita supportata dai sauditi, che include affiliati di “al-Qaida” che sarebbero utilizzati per inseguire gli sciiti in tutto il Libano, a seguito delle accuse di Bellemare contro Hezbollah. L’intelligence libanese ha scoperto che i membri di questa stessa rete Salafita/al-Qaida, supportata dal Mossad, anche per obiettivo ti principali leader sciiti in Iraq. WMR ha appreso che Ziad al-Jarrah è stato utilizzato dal Mossad, dalla CIA e dall’intelligence saudita come una “Patsy” del complotto 9/11, così come simili “zimbelli” sono utilizzati in Iraq e altrove, per aiutare a mantenere il mito di “al-Qaida” e di Usama bin Ladin vivo.

La stessa rete salafita/al-Qaida in Libano, mentre era ancora in fase embrionale, è stata utilizzata dal Mossad e dalla CIA per spiare i gruppi palestinesi in Libano, negli anni ‘80 e ’90, così come la Siria, durante la sua occupazione del Libano.

La rete di spionaggio israeliana si estende anche alla Siria. Secondo fonti libanesi, l’ex vice presidente siriano Abdel Halim Khaddam, che ha accusato il presidente siriano Bashar al Assad di aver ordinato l’assassinio di Rafik Harir, è tatticamente sostenuto da Israele e Stati Uniti. Khaddam, che dirige dall’esilio il Fronte di Salvezza Nazionale (NSF), sta cercando di rovesciare Assad. La NSF riceve non solo il sostegno dell’intelligence di Israele e degli Stati Uniti, ma anche dai servizi segreti francesi e tedeschi. La NSF ha sedi a Bruxelles, Berlino, Parigi e Washington DC, ed è sospettato di lavorare dietro le quinte con Bellemare per accusare Hezbollah dell’assassinio di Hariri. Tuttavia, i tentativi precedenti di accusare Assad e i generali libanesi filo-siriani dell’attentato, sono falliti a causa della mancanza di una qualsiasi prova credibile.
Wayne Madsen è un giornalista investigativo, autore e redattore di Washington DC. Ha scritto per diversi giornali e blog rinomati.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Relazioni bilateriali Cina – Canada

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I primi tentativi di avvicinamento tra i due Paesi risalgono al 1970. Da allora una incessante attività delle rispettive diplomazie cerca di fortificare e consolidare le relazioni bilaterali, anche se con fasi alterne.

Nel maggio del 1989, Wan Li e Rong Yiren, presidente e vice-presidente dello Standing Committee of the National People’s Congress of China, vanno per la prima volta in Cina. I rappresentanti dei ministeri degli esteri discutono di politica, relazioni internazionali e disarmo.

L’ambasciata canadese in Cina promuove una attivita’ “Canada-China friendly Month” sotto il segno di “Enjoy the future”.

Il primo ministro canadese tiene una conferenza alla televisione.

A seguito degli avvenimenti dell’89, il governo canadese avvia una serie di sanzioni nei confronti della Cina, fra cui, l’interruzione delle relazioni diplomatiche ufficiali tra i ministeri, cessazione dello scambio in ambito militare e la promulazione di una speciale legge sull’immigrazione con l’obiettivo di incoraggiare gli studenti cinesi in Canada a rimanervi. La conseguenza e’il raffreddamento delle relazioni tra i due Paesi. E il volume degli scambi commerciali si riduce del 40% rispetto all’anno precedente.

In 1990 il governo canadese decide di terminare la legge speciale sull’immigrazione e una delegazione diplomatica viene inviata in Cina per partecipare alle celebrazioni del ventennale delle relazioni sino-canadesi.

Nel 1991 i rispettivi ministri degli esteri si incontrano due volte, prima a New York poi a Seul, scambiando punti di vista sui temi internazionali e dimostrando il comune interesse a un riavvicinamento.

Nel 1993 si intensificano le attivita’ diplomatiche. In marzo, Joe Clark, presidente della Queen’s Privy Council for Canada e ministro degli affari intergovernativi, si reca in Cina. In maggio il futuro primo ministro cinese Zhu Rongji ricambia la visita. Le relazioni si possono considerare di nuovo buone.

Nello stesso anno, gli scambi tra i due Paesi raggiungono i 2.5 miliardi di dollari. Sempre piu’ imprenditori si mostrano interessati alla Cina e vengono avviati 740 programmi di investimento per un valore di 750 milioni di dollari.

Negli anni successivi la cooperazione si rafforza, e tenuto conto dell’importanza e numerosita’ della comunita’ cinese in Canada, si  espandono i piani di sviluppo in diversi campi, della cultura, delle arti, della danza e della musica (con diversi gruppi in visita) e dell’educazione (favorendo per esempio gli scambi tra studenti universitari, che nel 1995 sono gia’ piu’ di dieci mila).

Nel 2005 il presidente cinese Hu Jintao visita il Canada e insieme al primo ministro canadese Paul Martin decidono di innalzare le relazione bilaterali tra i due Paesi ad un livello superiore definendole partnership strategica e comunicando l’obiettivo di raddoppiare il volume degli scambi commerciali nei successivi cinque anni.

Con il nuovo governo canadese dal 2006 si e’ avuto un periodo di relativamente meno intense relazioni diplomatiche per non dire di raffreddamento. Nonostante gli scambi economici e culturari siano continuati, la Cina non sembrava piu’ essere tra le priorita’ del nuovo governo in mano ai conservatori.

Ma nel 2009 il primo ministro Stephen Harper compie un viaggio in Cina con lo specifico obiettivo, oltre che di trattare temi di politica internazionale, di consolidare la mutua cooperazione. Alcuni dicono che si rese conto del rischio che “cold politics, warm economics”, formula che avrebbe danneggiato piu’ il Canada che la Cina.

Lo stato dell’arte

Il 2010 segna il quarantesimo anniversario della fondazione delle relazioni bilatrerali Cina-Canada che ormai si sviluppano lungo molteplici direzioni, dal trade all’energia e ambiente, ai temi riguardanti la salute, la governance e le scienze e tecnologie.  Sono attive piu’ di quaranta attivita’ di cooperazione bilaterale.

Gli scambi commerciali tra Cina e Canada hanno raggiunto i 29 miliardi di dollari nel 2009, ma gli obiettivi dei due Paesi, confermati durante gli incontri di fine giugno in Canada, sono molto ambiziosi: ancora una volta raddoppiare il volume di scambi e raggiungere i 60 miliardi entro il 2015.

Il primo ministro Stephen Harper ha ricevuto per la prima volta il presidente cinese Hu Jintao in visita in Canada per il G20 e con lui si e’ intrattenuto per discutere del processo di consolidamento.

Il Canada ha come partner commerciale preferenziale gli Stati Uniti (75% degli sambi), ma la Cina e’ diventata il secondo interlocutore (per la Cina il Canada e’ tra i primi quindici Paesi per l’importanza dei volumi realizzati).

Il trend positivo sembra confermato, infatti nei primi quattro mesi dell’anno gli scambi commerciali hanno raggiunto gia’ i 10 miliardi di dollari, con un incremento del 19% rispetto all’anno precedente.

Ma non si parla solo di benefici economici in senso stretto. La Cina e il Canada hanno siglato un accordo per incrementare gli scambi culturali e la mobilita’ delle persone attraverso il ADS (Approved Destination Status). L’autorizzazione, che il governo cinese aveva concesso gia’ a 134 Paesi, non includeva il Canada. Cio’ ha comportato per diverso tempo che fossero meno di duecento mila all’anno i cinesi in visita in Canada. Concedendo l’accesso a gruppi organizzati di turisti cinesi, l’industria del turismo canadese ne beneficera’ e avra’ la possibilita’ di raggiungere il traguardo dei 100 miliardi di dollari all’ anno di volume d’affari.

Un altro punto di cooperazione che sta realizzandosi compiutamente e’ quella sul fronte energetico, dal petrolio al gas naturale al nucleare. L’industria canadese possiede tecnologie molto avanzate in questi settori e la Cina e’ interessata in particolar modo alle tecniche per  la conservazione dell’energia e per la protezione dell’ambiente. Zhang Xiaoqiang, deputy director del China’s National Development and Reform Commision, ha confermato che il governo cinese ha stanziato gia’6,6 milardi di dollari da investire soprattutto in progetti di sviluppo delle risorse naturali.

Nonostante i piani di sviluppo, i successi economici e le affermazioni di reciproca stima tra i due Paesi e molti punti in comune tra cui la volonta’ di “develop our relations from a strategic and long-term perspective”, come afferma il governatore generale canadese Michaelle Jean, le differenze sono rilevanti. Ed emergono in molte posizioni, e la distanza, affievolitasi sotto il precedente governo canadese dei liberali, rimane comunque notevole sotto molti punti di vista, alcuni accentuati proprio nell’ultimo periodo.

Il governo conservatore canadese si sente molto lontano dalle posizioni politiche cinesi in molti campi. Inoltre c’e’ un tema interno, l’attitudine a voler differenziare l’impronta della propria politica dal precedente governo liberal che si e’mostrato piu’ incline a sviluppare rapporti con la Cina. Con una frase dl forte impatto, l’attuale primo ministro ha affermato che “would not sell out Canadian values for the mighty dollar”, non intende sacrificare i valori canadesi in cambio di scambi commerciali.

Infine c’e’ la questione, non trascurabile almeno per parte cinese, di Lai Changxing che vive in Canada da piu’ di dieci anni, ma su cui pendono vari capi di imputazione fra cui contrabbando e corruzione. Il governo cinese ne chiede l’estradizione e lo ritiene tra i principali ricercati; in Canada, in molti la pensano diversamente.

Pechino – 30 Agosto 2010

Per rivolgere commenti all’autore o contattarlo: manu@emasen.com

*Emanuele C. Francia, manager e consulente, ha seguito per diverso tempo le operazioni cross-border per numerose imprese italiane in Europa e Stati Uniti. Da alcuni anni vive a Pechino ed e’ co-fondatore e partner di Emasen Consulting,  una societa’ di consulenza specializzata nei processi di  internazionalizzazione e supporto alle imprese italiane. Scrive su alcune riviste scientifiche di geopolitica, economia e managemnt e collabora con universita’ sia in Italia che in Cina nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento.

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Kirghizistan: nostalgia per l’Unione Sovietica

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Il 14 agosto ha avuto luogo a Bishkek un evento, a prima vista esclusivamente interno al paese. Nel Teatro nazionale dell’Opera e della Danza, si è svolto il primo congresso del partito dell’Unione SSR (USSR). L’acronimo del nuovo partito kirghizo si richiama esplicitamente alla defunta Unione Sovietica (SSR stanno per: Svoboda – Libertà; . Spravedlivost – Giustizia; Rodina – Patria.

Il Congresso dell’ ”Unione Libertà Giustizia Patria” ha ospitato circa 800 delegati provenienti dalle 48 circoscrizioni delle 9 regioni del Kirghizistan.

In un breve periodo di tempo, il Kirghizistan ha vissuto già una seconda rivoluzione, accompagnata da scontri interetnici nelle regioni Osh e Jala-Abad e rivolte in varie parti del paese.

Ora il governo ad interim, succeduto al sollevamento contro di Bakiev, ha indetto le elezioni per il rinnovo del parlamento della repubblica per il 10 ottobre. Queste elezioni sono cruciali per la popolazione. La questione principale è: quali forze entreranno nel parlamento e quali costituiranno il nuovo governo? Dal nuovo rapporto di forze dipenderanno le sorti del paese per quanto concerne l’integrità territoriale dell’ex repubblica sovietica.

Il partito USSR è stato costituito in vista della prossima ricorrenza. Il prossimo anno, infatti, saranno 20 anni dalla caduta dell’Unione Sovietica. Questo collegamento è stato sottolineato dai partecipanti al congresso.  La nostalgia per il “futuro assicurato”, la pace interetnica, la giustizia sociale hanno spinto i militanti di diversi gruppi etnici del paese a costituire un partito distinto. In meno di un mese, il numero degli aderenti al nuovo partito si è decuplicato. Molti partiti politici hanno dichiarato la loro disponibilità ad entrare nella nuova organizzazione. Oltre il 60% dei candidati dall’Unione SSR sono rappresentanti delle diaspore nazionali.

Unire il popolo kirghizo e i rappresentati delle diaspore nazionali in una unica forza differenzia il partito USSR dalle altre 12 organizzazioni politiche registrate dal Comitato centrale elettorale (CEC)

Come ha osservato Andrew Poroskun, vice capo del partito: “20 anni sono un periodo lungo che ci permette di valutare quello che abbiamo ottenuto e cosa abbiamo perso.

Ciò che è grande è visibile da lontano. In pratica, tute le parole d’ordine per le quali il popolo sovietico era sceso in piazza ed aveva protestato contro i Sovietici non vengono attuate. Le forze democratiche, che distrussero lo stato sovietico, facevano dichiarazioni, per esempio, sul “proprietario efficiente” che avrebbe dovuto privatizzare le imprese statali. Questo slogano è stato il più grande inganno. Le imprese sono state privatizzate, ma ciò è stato un bene o un male per la vita del popolo? I profitti ricavati da queste privatizzazioni sono stati utilizzati per le necessità sociali, per i bisogni dei lavoratori e delle famiglie? Tutti noi conosciamo le risposte a queste domande. La transizione dal socialismo al capitalismo selvaggio ha forse elevato il livello culturale dei giovani? Ha creato nuova occupazione, ha migliorato il livello di vita degli anziani e delle fasce più vulnerabili? Forse la medicina è diventata perfetta e più accessibile? Possiamo elencare all’infinito questi falsi slogan”.

La maggior parte dei partecipanti del congresso ha sostenuto che il crollo dell’Unione Sovietica era un inganno e un tradimento dei popoli che vivono in URSS.

E le conseguenze di questo tradimento si fanno ancora sentire.

Le conseguenze delle rivoluzioni colorate in Kirghizistan, Ucraina e Georgia sono evidenti a tutti.

I dirigenti democratici di questi paesi hanno preso il potere attraverso la manipolazione delle persone insoddisfatte della realtà post-sovietica. Ironicamente, lo strumento principale della politica dei democratici è diventata il nazionalismo.

La loro regola ha mostrato che il nazionalismo non giova al popolo. Deprivando dei diritti le varie comunità e discriminandole, il potere non rende le giovani generazioni più educate, non incrementa il livello sociale del popolo, non assicura una vita sicura. Il risultato principale dei regimi di colore è costituito dalla minaccia per l’integrità di quei paesi in cui la rivoluzione colorata ha avuto luogo. Il presidente arancione Yushchenko ha definitivamente scisso la società  nell’ Ucraina occidentale e orientale. La Georgia ha perso l’Abkhazia e l’Ossezia del Sud – una grossa fetta del suo territorio, proprio a causa della follia nazionalista di Saakashvili. In Kirghizistan, il governo Bakiev ha esacerbato le aspirazioni separatiste tra alcune diaspore nazionali.

Siamo tutti testimoni del fatto che il nazionalismo come base per la politica non è diretto né al rafforzamento dello Stato, né al miglioramento della qualità della vita delle nazioni titolari, ma piuttosto alla distruzione di ciò che è rimasto dopo il crollo sovietico, il crollo degli Stati indipendenti emersi in luogo delle repubbliche sovietiche. Fortunatamente, tra i tre paesi che hanno sperimentato la rivoluzione colorata, Saakashvili è stato l’unico che è riuscito a realizzare pienamente lo scenario della disintegrazione della Georgia.

Molti dei membri del Congresso hanno sperimentato tutte le delizie del regime colorato Bakiev. Al fine di far salire i loro affari, molti furono gettati in prigione: il capo del Partito URSS, Ishenbai Kadyrbekov, ex presidente del parlamento, è stato anche sottoposto a persecuzioni politiche ed è stato messo in prigione.

Molti si sono iscritti al partito USSR, perché non vogliono vedere il crollo del loro paese. Arif Alaferdov (rappresentante della comunità Azerbaigian nel consiglio politico del partito), ha dichiarato: “Vedo che questo partito è l’unico in Kirghizistan che intende attuare la politica internazionale, non a parole ma nei fatti.”

Ishenbai Kadyrbekov, presidente del consiglio politico del partito dell’Unione SSR, ha sottolineato più volte che il Kirghizistan è orgoglioso delle sue diversità – etniche, linguistiche, culturali: “La nostra sfida è quella di prendere tutto ciò che era meglio nell’URSS e rendere il nostro paese forte e prospero. Solo lavorando insieme al fine di rafforzare e sviluppare il Kirghizistan, siamo in grado di superare le minacce che la nostra società deve affrontare “.

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Le implicazioni geopolitiche di un possibile conflitto tra Israele e Libano

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Anche se il periodo più caldo dell’anno volge al termine, al confine tra Israele e Libano il clima continua a surriscaldarsi. La sparatoria dello scorso tre agosto per il taglio di un albero da parte dell’esercito sionista è il naturale epilogo di mesi di tensioni. Prima la richiesta israeliana alle forze francesi di Unifil di penetrare nelle case di miliziani libanesi per sequestrare loro della armi e poi le indiscrezioni sulla prossima sentenza del Tribunale Speciale per il Libano, che starebbe per incolpare membri di Hezbollah, hanno contribuito in modo determinante al montare della tensione sulla Linea Blu, risvegliando attriti mai sopiti che avvalorano l’ipotesi di un possibile conflitto tra i due vicini il prossimo autunno.

I fatti

A scatenare l’ira di Hezbollah nei confronti del governo di Tel Aviv è stata, lo scorso mese, la richiesta alle forze francesi di penetrare all’interno delle case dei miliziani libanesi per sequestrargli armi e munizioni. Una richiesta spedita direttamente a Parigi che il ministro della Difesa francese non ha esitato ad accogliere, ordinando di dar seguito alla richiesta israeliana. Un atto increscioso, che ha costretto lo stesso ministro alle scuse ufficiali su pressione del Presidente Nicolas Sarkozy. La vicenda è stata percepita da Hezbollah come un’ingerenza negli affari interni del Libano. Il Segretario Generale di Hezbollah, Hassan Nasrallah, ha duramente attaccato Israele per quanto accaduto ed in particolar modo ha accusato Tel Aviv di usare ogni tipo di mezzo per screditare il suo partito, come il Tribunale Speciale per il Libano ad esempio. Affermando che dietro il progetto del tribunale c’è Israele, Nasrallah ha voluto chiaramente intendere che l’accusa che lo stesso starebbe per formulare nei confronti di un membro del partito di Dio sarebbe una montatura.

Tra accuse e controaccuse serpeggia anche la volontà di provocazione. Gli incidenti dello scorso tre agosto, ne sono una dimostrazione. Le forze israeliane hanno abbattuto un albero al confine che ostacolava la visuale. L’esercito libanese ha reagito con razzi e colpi di arma da fuoco, convinto che l’albero fosse posto nella parte libanese del confine. Le Forze di Difesa Israeliane hanno risposto al fuoco uccidendo un giornalista e tre soldati libanesi. Lo scontro è stato il più grave dal 2006, da quando cioè è terminata la guerra in Libano.

La situazione al confine

A complicare la vicenda è la molteplicità di attori che direttamente o indirettamente vi prendono parte destabilizzando la fragile tregua tra i due stati confinanti.

Ad immediato contatto, sulla Linea Blu le Forze di Difesa Israeliane e le Forze Armate Libanesi si trovano l’una di fronte all’altra spesso dando vita a qualche scaramuccia. Secondo fonti governative israeliane, sarebbero circa seicento dall’inizio del 2010 le schermaglie che hanno coinvolto i soldati di entrambe le fazioni risoltesi senza particolari danni collaterali.

Dispiegate sul territorio libanese prossime al confine con Israele sono anche le truppe della forza di interposizione delle Nazioni Unite, Unifil, con il compito di evitare contatti tra i due contendenti. Tuttavia, il ruolo di Unifil nel sedare gli ultimi scontri è stato marginale.

È però a livello politico che si fronteggiano diversi attori con interesse ad ampliare il controllo sulla zona di confine. Hezbollah, ad esempio, è interessata ad acquisire il controllo della zona meridionale del Libano. Un eventuale conflitto che vedesse sconfitto l’esercito libanese da parte di quello israeliano, porterebbe Hezbollah a porre sotto la propria tutela la parte meridionale della terra dei cedri. Inoltre, Hezbollah è una formazione sciita in ottimi rapporti con l’Iran di Ahmadinejad il quale ha offerto il proprio sostegno ai fratelli libanesi vessati dagli israeliani. Anche l’Iran, infatti, è interessato ad acquisire maggiore influenza sulla zona per scalzare Israele dal ruolo di potenza militare ed avere mano libera per imporsi come stato guida della regione.

Invece, sembra venir meno il pieno sostegno degli Stati Uniti ad una nuova campagna israeliana contro il Libano. Un rapporto del Saba Center (Brooking Institutions), pubblicato qualche mese fa, sconsiglia fortemente agli Stati Uniti di sostenere qualsivoglia azione israeliana contro Beirut. Un secondo rapporto, pubblicato nello stesso periodo del precedente, del Council on Foreign Relations, si spinge oltre consigliando alla Casa Bianca di esercitare il maggior grado possibile di pressione per evitare che la Linea Blu ed il Libano si trasformino nuovamente nel teatro di scontri armati. Pertanto, la situazione al confine tra il Libano ed Israele è la risultante di un insieme di fattori suscettibili di generare conseguenze geopolitiche rilevanti.

Il conflitto tra Israele e Libano nel quadro geopolitico del Vicino Oriente

L’animosità mostrata dai due eserciti il 3 agosto dimostra come siano già pronti per affrontare un nuovo conflitto. L’eventualità non è da sottovalutare, considerando le premesse. Per questo, è opportuno interrogarsi su quali conseguenze possa avere la ripresa delle ostilità per il sistema di equilibri vicino-orientali.

Il Vicino Oriente sta subendo lenti ma continui mutamenti. Ancora impercettibili, tali trasformazioni sono sicuramente variabili rilevanti nell’analisi degli scenari geopolitici. La più significativa è sicuramente la perdita di terreno degli Stati Uniti. Se anche Washington mantiene dalla propria parte la bilancia della potenza molti attori non sono più prostrati ai piedi della talassocrazia statunitense ed iniziano a sviluppare una propria politica di alleanze. È sicuramente il caso della Turchia. Alleata di ferro di Washington durante la guerra fredda, dal 2002 Ankara sembra essersi distaccata dalla sponda atlantica per perseguire una politica più regionale che coinvolga i suoi vicini. I rapporti con l’Iran sono notevolmente migliorati, tanto che la Turchia (con il Brasile) ha respinto la quarta tornata di sanzioni verso Teheran sul programma nucleare. Turchia e Iran stanno anche implementando le proprie relazioni energetiche. È di qualche settimana fa l’accordo per la costruzione di una condotta di 660 Km che dovrebbe portare il gas iraniano sino in Turchia. Un bel problema per Washington, che cerca di limitare in tutti i modi il raggiungimento dell’autosufficienza iraniana per mantenere sotto controllo il principale nemico. Infatti, scopo prettamente geopolitico della guerra in Iraq è stato quello di incastrare l’Iran in due stati, Afghanistan ed Iraq, direttamente controllati dagli Usa per limitarne la minaccia.

I rapporti tra Turchia ed Iran trovano sicuramente un base di appoggio nella comune fede musulmana. Elemento che potrebbe anche aumentare il sostegno dell’Iran alla formazione di Hezbollah se attaccata da Israele e portare la Turchia ad un più deciso distacco da Tel Aviv dopo la vicenda della Freedom Flottilla. Considerando, quindi, il ruolo di Iran e Turchia, un attacco israeliano al Libano sarebbe indubbiamente controproducente. Se aggiungiamo anche la salda alleanza della Siria con l’Iran, è chiaro che Israele si verrebbe a trovare in una posizione molto difficile.

Il Vicino Oriente però è anche terreno fertile per le mire russe. Nonostante Mosca abbia perso diverse occasioni per imporre il proprio ombrello sull’area, il voto favorevole alle sanzioni contro l’Iran dimostra come i legami tra Iran e Turchia non sono ben visti dal Cremlino. Indubbiamente, l’elemento energetico pesa. Mosca mira ad essere la principale potenza energetica eurasiatica e l’Iran potrebbe minare questo primato dell’esportazione di gas avendo grandi riserve a disposizione. Ciononostante, Mosca ha deciso di tener fede all’impegno di avviare la costruzione della centrale nucleare di Bushehr entro agosto, come prevedevano gli accordi tra i due stati. Segno che la Russia necessita del supporto iraniano per raggiungere un ambizioso obiettivo: sostituire gli Stati Uniti come potenza egemone nel Vicino Oriente evitando un asse Ankara-Teheran che possa minare la sua egemonia energetica.

Anche per l’Iran ottenere il supporto di Mosca è fondamentale. Le recenti dichiarazioni di Mahmud Ahmadinejad (in risposta a Medvedev, secondo cui l’Iran detiene il know-how per costruire l’arma atomica), che accusano Mosca di fare il gioco degli Stati Uniti nel Vicino Oriente, suonano come un “rimprovero” per riportare la Russia dal proprio lato della barricata.

Come si è detto, la politica estera degli attori principali del Vicino Oriente (Russia, Turchia, Iran) tende a diminuire l’influenza statunitense nell’area, vale a dire che mira ad una modifica degli equilibri esistenti oggi favorevoli agli Stati Uniti, agendo su diversi piani. Il più immediato è la costruzione di solide alleanze per ridurre la possibilità di manovra degli Usa e quindi di Israele, vera testa di ponte per gli atlantici nel Vicino Oriente. Se Israele decidesse, come alcune indiscrezioni vorrebbero, di attaccare il Libano ciò potrebbe accelerare il processo descritto in precedenza diminuendo drasticamente il soft power statunitense.

Conclusioni

La schermaglia che ha visto coinvolti i soldati libanesi ed israeliani per il taglio di un albero è una delle tante scintille che potrebbero scatenare l’incendio. Lo scenario di un ennesimo conflitto sarebbe molto preoccupante per il futuro di Israele che si esporrebbe in un contesto geopolitico non proprio favorevole, dopo l’abbandono della Turchia. Inoltre, se la Casa Bianca deciderà di seguire i consigli del Council on Foreign Relations e del Saba Center Israele non avrà altra scelta che abbandonare l’ipotesi di un attacco armato. Anche se il suo potenziale di deterrenza militare rimane il più elevato del Vicino Oriente, il rischio di trovarsi in una morsa di stati ostili, compresa la Turchia, l’Iran e forse anche la Russia, potrebbe indebolire, diplomaticamente parlando, Israele anche per quanto riguarda un’altra spinosa questione, cioè quella dei negoziati per la pace con il popolo palestinese. Sarebbe conveniente per Israele farsi garante di una tregua duratura con il Libano.

* Carmine Finelli è dottore in Scienze politiche e delle relazioni internazionali (Università degli Studi del Molise)

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Le verità sulla Bosnia che non si possono raccontare: “Al mercato di Markale”

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Si infittiscono ormai da qualche tempo gli interventi di quanti sono lieti di avallare le tesi “ufficiali”, per cui la guerra di Bosnia fu la follia di “psicopatici nazionalisti” (Radovan Karadzic, il poeta pazzo in primis, e si sa che tra poeti ed acquarellisti la differenza è poca …), oggi finalmente a giudizio grazie alla caparbietà di pochi magistrati coraggiosi (vedi Carla Del Ponte, che ha pure scoperto gli orrori della “casa gialla” in Kosovo, “Oh my God!”).

Luglio, in particolare, è stato il mese adatto per le rievocazioni, grazie alla singolare coincidenza tra l’anniversario del massacro di Srebrenica (11 luglio 1995) e l’arresto di Karadzic (21 luglio 2008).

Dopo Richard Gere (il “divo di Stato” anti-cinese), quindi, anche Angelina Jolie si appresta a girare il suo film a Sarajevo, concludendo un’interessante triade che comprende anche il recente “capolavoro” dal titolo “I mercenari” (pieno di “divi di Stato”, Stallone-Rambo, Willis-salvailmondo …), pellicola in cui l’ex finanziatore dell’IRA, Mickey Rourke, ricorda il passato di quando tutti insieme (appassionatamente) andavano a combattere i “serbi cattivi” …

Tra questi articoli rievocativi, spicca quello del 1 luglio 2010 di Azra Nuhefendic, “Al mercato di Markale” (strage del 28 agosto 1995), in cui si cerca di smentire quanto attestato dai fatti (ma che le cronache, anche successive, si guardarono bene dal riportare), e cioè che le due terribili stragi al mercato di Sarajevo (decisive per orientare l’opinione pubblica internazionale e, di conseguenza, per giustificare i bombardamenti della NATO contro i serbi che stavano vincendo la guerra) non furono opera dei serbo-bosniaci.

L’articolo cita il colonnello russo, Andrei Demurenko, esperto in balistica e capo del personale Unprofor a Sarajevo, estensore di un rapporto che provava l’ impossibilità di colpire Markale con i mortai dalle posizioni serbe (guarda caso la CNN sapeva dell’evento e si trovava lì prima del massacro, ma non era stata “avvisata” dai serbi).

Esistono anche degli schizzi tecnici che questo colonnello russo aveva fatto e che vennero inquadrati, al momento della ricostruzione degli avvenimenti, dalla televisione serba.

Dopo pochi giorni Demurenko fu però rimandato a casa e la relazione venne nascosta (se la tenne per due settimane Kofi Annan nel suo cassetto privato) il tempo sufficiente per accusare falsamente i serbi e decidere quali ulteriori provvedimenti adottare contro di loro.

Il colonnello russo non può certo negare un documento da lui stesso prodotto e non dubito l’abbia mai fatto, come sostiene Nuhefendic, perché si trattava di un professionista che non accettava di raccontare bugie, al contrario di molti ufficiali della NATO, spesso sbugiardati.

Lo stesso analista militare britannico, Paul Bever, che pure raccontò di 4 ordigni di mortaio da 120 millimetri lanciati dai serbi e che caddero vicino alla zona del mercato senza provocare vittime, ammise l’1 ottobre 1995 che la deflagrazione fu cinicamente provocata dai musulmani per influenzare i negoziati di pace.

Probabilmente c’erano cinque pacchi di esplosivo sotto le bancarelle, attivati a distanza, mentre la CNN registrava in diretta.

Il “Sunday Times” parlò allora di una quinta granata da mortaio devastante (e non proveniente dalle postazioni serbe), che però difficilmente avrebbe potuto provocare una strage di tali proporzioni.

Invece tutto il mercato fu colpito da più esplosioni che provenivano da vari punti sotto le bancarelle, al punto che lo stesso Bever scrisse che si doveva dubitare anche della precedente strage di Markale (67 morti il 5 febbraio 1994), come testimoniato peraltro dal delegato speciale per la Bosnia delle Nazioni Unite, Jasushi Akashi, poi costretto alle dimissioni.

Ma ritornando a Demurenko: è normale che il colonnello russo non avesse con sé la sua relazione, che è stata un documento di servizio e confidenziale.

Questa andrebbe cercata nei cassetti delle Nazioni Unite o in quelli di qualche ufficiale dei Servizi segreti di Mosca dell’epoca Eltsin, noti per essere a libro paga del miglior offerente (e poi parzialmente “ripuliti” da Putin).

Chiunque segua le varie sedute del Tribunale dell’Aja per i crimini nella ex-Jugoslavia, può constatarne “l’efficienza”: avvocati che spesso nemmeno possono incontrare i loro assistiti, imputati che muoiono misteriosamente (Milosevic in primis), traduttori scadenti che capziosamente rischiano di tradurre un “non esiste” invece di “io non ce l’ho” …

Si può addirittura dubitare della domanda del giudice: “Ce l’ha lei la relazione?”, perché i magistrati sanno benissimo di che tipo di documenti si tratta e che tenerne delle copie in possesso privato è punibile con la legge.

Consigliamo, quindi, a Nuhefendic di occuparsi di altre vicende riguardanti la Bosnia.

Ad esempio della bancarotta finanziaria del governo di Sarajevo, i cui ministri sono spesso impegnati a tenere festini o ad acquistare lussuosi yacht per le loro “dorate” vacanze.

O della sorte dei serbi di Hadzici, paesino vicino a Sarajevo, 5.000 abitanti e 150 malati di tumore all’anno per le conseguenze dei bombardamenti atlantisti all’uranio impoverito.


* Stefano Vernole, redattore di “Eurasia”, è co-autore de La lotta per il Kosovo (Edizioni all’Insegna del Veltro, Parma 2007) ed autore di La questione serba e la crisi del Kosovo (Noctua, Molfetta 2008)


Note

  1. Azra Nuhefendic’, “Al mercato di Markale”, 1 luglio 2010, “Osservatorio Balcani e Caucaso”.
  2. Per un breve riassunto dei “miti bosniaci” rimando al mio articolo: http://www.eurasia-rivista.org/cogit_content/articoli/EkEZlypFpyaDyDNwTq.shtml



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Giornata mondiale di Qods. Comuncato stampa dell’Ambasciata dell’Iran

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Nel nome di Dio

COMUNICATO STAMPA DELL’AMBASCIATA DELLA REPUBBLICA ISLAMICA DELL’IRAN A ROMA IN OCCASIONE DELLA GIORNATA MONDIALE DI QODS (GERUSALEMME)

Qods (Gerusalemme) è un luogo particolarmente sacro ai mussulmani nel mondo e ai fedeli di numerose religioni; è la terra dei Profeti e dei Santi del Signore e nella storia luminosa della comunità islamica è un’istituzione unica e coesa. L’ultimo Venerdì del Santo mese del Ramadan l’Imam Khomeini, fondatore della Repubblica islamica dell’Iran, dedicò questo giorno alla fine dell’occupazione della Palestina e alla liberazione del suo popolo dall’oppressione del regime sionista di Israele.

A questo proposito e alla luce delle ultime evoluzioni nella questione palestinese, l’Ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran ritiene di dover richiamare l’attenzione su alcuni punti.

– La Repubblica islamica dell’Iran considera i crimini sionisti contro la flotta di navi pacifiste di Gaza in contrasto con i principi e le regole internazionali, tra cui l’articolo 1982 della Convenzione sui mari e li equipara ad un atto di pirateria marittima.

– Essa chiede una condanna e una pena per coloro che hanno violato le norme della Quarta Convenzione di Ginevra, sulla base dell’art. 146 della Convenzione stessa.

– L’attacco impietoso delle forze del regime sionista alla flotta di Gaza e le violenze contro i suoi occupanti conferma il fatto che non esiste limite alla crudeltà del regime sionista nei confronti dei palestinesi, regime che si pone contro finanche libere persone, partigiane di quanti vengono oppressi a prescindere dalla religione, nazionalità o credo di appartenenza.

– L’invio di aiuti umanitari nelle regioni occupate era consentito dalle Convenzioni internazionali e il regime occupante non aveva alcun diritto di impedire questa azione umanitaria. Pertanto l’aggressione del regime sionista, i crimini contro l’umanità e la violazione dei diritti umani meritano un processo e una sanzione.

– L’oppresso popolo palestinese ha ben compreso che solo attraverso l’unione, la coesione nazionale e la resistenza contro gli aggressori e gli occupanti, potrà giungere alla liberazione dei territori occupati, a quella di Qods e alla rivendicazione dei propri diritti.

– Si evidenzia come il tollerare o l’ignorare i crimini del regime sionista, così come le promesse di sostegno di alcune potenze egemoniche, alimentano una sempre maggior impudenza di questo regime illegittimo nel continuare a perpetrare i propri crimini.

– La Repubblica islamica dell’Iran dichiara il proprio costante appoggio alla resistenza islamica e popolare dei palestinesi ed è promotrice degli interessi e diritti legittimi della comunità mussulmana e dei deboli e oppressi nel mondo.

– La Repubblica islamica dell’Iran, per una soluzione della questione palestinese, nuovamente sottolinea l’opportunità di indire un libero referendum, con la partecipazione di tutti gli abitanti del territorio palestinse, mussulmani, cristiani e ebrei, invitandoli a scegliere il tipo di governo desiderato; esiste una via che conduce ad una soluzione regionale, democratica e giuridica della questione palestinese.

– Siamo persuasi che queste consultazioni di piazza siano un modo per valutare la sincerità di quanti rivendicano democrazia e diritti umani.

– Si auspica che con il sostegno diffuso della popolazione libera mussulmana nel mondo e con l’impegno costante e coeso di tutte le nazioni, i media, i liberi e illuminati uomini di pensiero, si interrompano i crimini sionisti e si addivenga ad un processo e ad una pena per i responsabili, ponendo così fine alle sofferenze e alle persecuzioni dell’oppressa e indifesa Palestina.

Ambasciata della Repubblica islamica dell’Iran – Roma

3 Settembre 2010

23 Ramadan 1431

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Lo sfondamento della Cina in Asia centrale

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Con la fine dell’Unione Sovietica è emerso nell’area centrasiatica un nuovo spazio geopolitico indipendente, la cui importanza strategica ed economica è risultata ab ovo accresciuta dalla presenza di abbondanti riserve energetiche e naturali. In una fase di mutamento globale tendente verso un ordine multipolare, l’Asia centrale funge da scacchiere cruciale sul quale si giocano le sorti del pianeta e questo in virtù sia delle ricchezze energetiche del sottosuolo dello Heartland sia grazie alla sua posizione geopolitica.

L’emersione dell’Asia centrale nello scenario internazionale ha condotto gli osservatori a parlare, oltre che di novello “Grande gioco”, anche di “Grande scacchiera” – conformemente alla definizione di Zbigniew Brzezinski –, o di allusione all’area in qualità di luogo nel quale possa avere genesi lo “scontro delle civiltà” (Samuel P. Huntington); vi è persino chi ha inquadrato l’Asia centrale alla stregua di un lebensraum cinese (Zhongguo Dingwei), vista la rilevanza strategica che le risorse locali rivestono per l’espansiva economia dagli occhi a mandorla.

Il Grande gioco per conquistare l’influenza su quest’area determinante – il cui controllo, nella visione mackinderiana, implicherebbe il dominio del blocco afro-eurasiatico (il “mondo antico”) e quindi del mondo – si è arricchito grazie al ritorno sulla scena della Russia e all’ascesa perentoria della Cina, senza contare gli interessi ascendenti di altre potenze regionali o mondiali come Turchia, India e Iran.

La longa manus di Pechino nella macroarea è frutto di una paziente tessitura delle relazioni con le repubbliche ex sovietiche atta, in primo luogo, a nutrire la fame energetica di un Paese dalla crescita economica poderosa. La potenza estremo orientale opera sfruttando le ingenti liquidità possedute, attraverso investimenti diretti per l’acquisto di giacimenti centro-asiatici, acquisizione di quote di società locali operanti nel settore degli idrocarburi, contratti di fornitura a lungo termine, costruzione di infrastrutture volte all’estrazione e al trasporto di gas, petrolio e carbone. La strategia di diversificazione adottata si rivela necessaria al fine di limitare la sua vulnerabilità energetica, riducendo l’impatto di eventuali crisi politiche che potrebbero coinvolgere uno o più Paesi fornitori.

Del resto i Paesi ai quali Pechino attinge risorse sono membri (ad eccezione del Turkmenistan) dell’Organizzazione di Shanghai per la Cooperazione (SCO). Lo stesso Turkmenistan, malgrado debba teoricamente assurgere a fonte-cardine di approvvigionamento per il progetto euro-atlantico del gasdotto Nabucco, nel 2009 si era giovato di 3 miliardi di dollari in prestito dalla Cina per avviare lo sfruttamento del giacimento gasifero Sud-Yolotan – uno dei più estesi al mondo – le cui riserve si aggirerebbero tra i 4mila e i 14mila miliardi di m³ di gas (1).

Garantendo un considerevole tasso di crescita alla sua economia dinnanzi al collasso dei mercati occidentali, la Cina è diventata una vera e propria calamita in grado di attrarre gran parte dell’Asia. Così appare ancor più allettante fare affari con i cinesi ed accettare i loro lauti investimenti, e ciò è particolarmente vero per i paesi produttori di idrocarburi che hanno dovuto fare i conti con il decremento della domanda da parte dei Paesi europei. Si è così aperto uno spiraglio nel quale la Cina si è inserita con prontezza.

Geopoliticamente parlando, nella zona si alternano una serie di alleanze e intese strategiche che sovente si sovrappongono, dal CSTO (Collective Security Treaty Organisation) al già menzionato SCO (Shanghai Cooperation Organization), sino all’odierna presidenza del Kazakistan all’interno dell’Osce (Organization for Security and Cooperation in Europe).

Secondo Dmitri Trenin, esperto del Carnegie Institute di Mosca, “la SCO per la Cina è sinonimo di Asia centrale: attraverso la SCO, Pechino può prendere parte alle discussioni e alla risoluzione dei problemi di sicurezza e di sviluppo in Asia centrale in modo legittimo rispetto ai paesi della regione, senza per questo rischiare l’antagonismo di Mosca”.

Peraltro nel giugno 2009 il presidente Hu Jintao, in una riunione della Shanghai Cooperation Organization a Ekaterinburg, in Russia, aveva promesso un fondo di 10 milioni di dollari quale futuro programma di assistenza per Kazakhstan, Tagikistan, Uzbekistan e Kirghizistan. La Repubblica Popolare, avallando la sua posizione di partner strategico, sta anche cercando di edificare dodici nuove autostrade in maniera tale da rendere le economie dei suddetti Paesi dipendenti da una rete stradale moderna collegata al Xinjiang (2).

Da un punto di vista meramente strategico, alimentandosi dai limitrofi Paesi del cuore eurasiatico Pechino riuscirebbe a ridurre la propria dipendenza dagli approvvigionamenti via mare che dall’Africa e dal Golfo devono attraversare tutto l’Oceano Indiano e passare dalla delicata strettoia di Singapore: quest’ultima, in caso di crisi con una potenza talassica, sarebbe agevolmente strozzata con conseguenze esiziali per la Cina.

Nondimeno, il passatoio cinese d’accesso alle repubbliche centrasiatiche presenta altrettante vulnerabilità giacché l’area in questione (la regione dello Xinjiang) è nota per la sua latente instabilità. Lo Xinjiang diviene un’area cuscinetto attraverso i cui confini Pechino impianta stabilmente un cospicuo numero di lavoratori migranti nei Paesi attigui, seguendo il modello già sperimentato in Africa che punta all’inserimento nel tessuto sociale ed economico servendosi anche degli investimenti diretti.

Lo Xinjiang costituisce dunque per la Cina un’area ulteriormente strategica per l’attuazione della propria politica estera e di soft power nell’Asia centrale, ma anche un fertile bacino per l’approvvigionamento di intelligence e di esperti sulla mutevole situazione degli equilibri regionali nell’area (3).

Forte di un processo economico espansivo da sostenere, la Repubblica Popolare guarda da sempre con apprensione tutti i Paesi confinanti che dimostrino una recondita instabilità interna nonché la propensione verso conflitti etnici, i quali fornirebbero l’ispirazione per la minoranza turcofona degli uighuri presenti in maggioranza nello Xinjiang.

Kirghizistan

Attenendosi alle diffidenze cinesi nutrite nei confronti dei “vicini instabili”, il Kirghizistan reduce dalla fine della “rivoluzione dei tulipani” rientra indubbiamente nel novero degli Stati destanti una certa preoccupazione.  A tal proposito vale la pena rimarcare come, a seguito degli scontri interetnici tra kirghisi e uzbeki nella città di Osh, la Cina – e l’Uzbekistan – abbia sigillato le proprie frontiere onde evitare l’afflusso di almeno 200mila rifugiati uzbeki entro i propri confini.

Allo stato attuale, probabilmente, è la Cina la potenza più interessata al futuro politico del Kirghizistan, considerato che la linea di demarcazione di 850 km tra i due Paesi corre lungo la sensibile provincia dello Xinjiang, senza contare i circa 30mila cittadini cinesi presenti sul suolo kirghiso e i quasi 100mila kirhisi stanziati nello Xinjiang.

Sebbene consideri il Kirghizistan come fonte di materie prime e di energia a basso costo, è ragionevole credere che Pechino non intenda accennare ad entrare a pieno titolo in un’area da sempre entro la sfera d’influenza politica del vicino russo. Biškek, pur avendo già entro i propri confini una minoranza cinese han, deve altresì considerare la presenza di una consistente enclave russa, stabilitasi nel 1936, a seguito della politica sovietica di insediamento di russi nelle aree periferiche della confederazione. Nel contempo, il Dipartimento di Stato americano osserva con relativa preoccupazione il crescente ruolo geopolitico della Cina in relazione ai problemi di sovranità del Mar Cinese meridionale piuttosto che alle mire espansioniste di Pechino verso l’Asia centrale.

Turkmenistan, Kazakhstan e Uzbekistan

Il Turkmenistan possiede rilevanti riserve di gas naturale tali da proiettarlo al quarto posto tra i detentori mondiali (4), ragion per cui Pechino ha incrementato gli scambi con Aşgabat di 40 volte negli ultimi 10 anni. A tal riguardo, l’opera su tutti meritevole di menzione è il colossale metanodotto lungo 2580 km solo in Asia centrale con una capacità iniziale di 30 Mcm/anno teso a connettere i campi gasiferi dell’Amu Darya (Turkmenistan) con la Cina occidentale. Il gasdotto, i cui lavori sono finanziati pressoché integralmente da Pechino, ha preso avvio nel 2007 e dovrebbe entrare in funzione nel 2011.

Attualmente sono 35 le imprese con capitale cinese a lavorare sul suolo turkmeno, volgendo lo sguardo soprattutto nei settori dell’oro nero e del gas, non disdegnando tuttavia altri settori dell’economia locale quali telecomunicazioni, trasporti, agricoltura, industrie tessile, chimica e alimentare, salute e costruzioni (5).

In Kazakhstan, le esternazioni del presidente Nazarbayev lasciano trasparire la volontà di ammettere investitori stranieri che collaborino con il suo programma di industrializzazione, e non meramente interessati a sfruttare le ricchezze minerarie di Astana. Lo stesso metanodotto di 1833 km – che collega i giacimenti di gas turkmeni, uzbeki e kazaki alla regione cinese del Xinjiang – potrebbe essere integrato dal gas uzbeko nella città Gazli (regione di Bukhara), dove passa la conduttura principale che trasporta le preziose riserve dal Turkmenistan alla Cina.

Un oleodotto di mille km collega dal 2006 la città di Ataru in Kazakistan alla provincia cinese dello Xinjiang. In futuro si estenderà per tremila km attraverso la Cina. Vieppiù Pechino starebbe progettando la costruzione in Iran di un oleodotto di 400 km che si dovrebbe collegare a quello Kazakistan-Cina (6). I rapporti sino-kazaki si peculiarizzano per la crescente affidabilità che ciascun attore attribuisce al partner, a partire dal 1997, quando i due Paesi decisero di costruire un oleodotto di 3mila km.

Nel 2005, la CNPC ha pagato circa 4 miliardi di dollari per una quota del 33% della PetroKazakhstan. L’anno seguente, la Cina ha acquistato le attività del petrolio kazako, per un valore di circa 2 miliardi di dollari, nei giacimenti di petrolio e di gas di Karazhanbas (che ha riserve accertate di oltre 340 milioni di barili), ha deciso di acquistare 30 Mmc di gas in Turkmenistan (poi aumentato a 40Mmc), e ha impegnato 210 milioni di dollari per l’esplorazione di petrolio e gas in Uzbekistan, nel corso dei prossimi cinque anni.
Nel 2008, il Kazakistan e la Cina hanno stabilito lo sviluppo congiunto delle riserve di petrolio e gas nella cornice continentale del Mar Caspio, mentre la società cinese Guangdong Nuclear Power Co e l’impresa nucleare dello stato kazako, Kazatomprom, hanno deciso di accrescere sensibilmente la produzione di uranio nelle loro
joint venture.
Nell’aprile 2009, Pechino ha stipulato l’accordo per l’energia più grande di tutti i tempi, sobbarcandosi il pagamento di 10 miliardi di dollari al Kazakistan in un inedito “petrolio contro prestito”, e ha anche firmato un accordo con la compagnia statale KazMunaiGas per acquistare congiuntamente la compagnia petrolifera MangistauMunaiGas, per 3,3 miliardi di dollari (7).

Dal modus operandi di Pechino ben si comprende, pertanto, come siano limitate le possibilità di cooperazione Cina-Usa sulle risorse energetiche dell’Asia centrale, essendovi un sostanziale conflitto di interessi in termini geopolitici, e differendo ancorché riguardo alle metodologie di proiezione strategica nell’Heartland: soft power cinese di tipo economico/energetico contro ingerenza – non di rado manu militari – statunitense.

Conclusioni

L’importanza attuale dell’Asia centrale non è solo economica, ovverosia fondata sulle ricchezze naturali della regione, oggi valorizzate con colossali investimenti cinesi, ma anche europei. La regione è rilevante financo come via di transito, grazie al ripristino della vecchia “Via della seta” mediante corridoi multimodali che, attraverso il Mar Nero e il Caucaso, collegheranno l’Europa con la costa del Pacifico e aggirando a sud la Federazione Russa e la Transiberiana (8).

Nel “cuore della terra” si svolge pertanto un nuovo Grande gioco di influenza fra Cina, Russia, Stati Uniti e Unione Europea, benché quest’ultima vi sia entrata solo recentemente con l’accordo del gas turkmeno per il Nabucco, e malgrado negli anni passati fosse attiva la sola Germania, sia in campo economico che in quello delle forniture militari. Mentre attori meno appariscenti, ma non trascurabili, sono anche l’India, interessata ad accedere alle risorse energetiche e condizionare il Pakistan da nord, l’Iran, che mira a penetrare in un’area su cui l’Impero persiano esercitò un’importante presenza e nella quale vivono i tagiki di etnia persiana e gli azeri – che sono il 24% della popolazione iraniana e di cui Tehran teme il nazionalismo – e infine la Turchia, la quale può vantare le rivendicazioni panturaniche delle popolazioni della regione.

La diversificazione delle esportazioni, come opzione strategica delle ex repubbliche sovietiche, si è resa necessaria per i Paesi dell’Asia centrale, a seguito della crisi finanziaria, mentre la domanda europea di gas naturale nella regione è diminuita. In altre parole la cooperazione tra la Cina e l’Asia centrale riposa sulla base di una convergenza di interessi reciproci: l’enorme potere d’acquisto cinese in valuta estera, nonché la sua posizione geografica, sono alquanto vantaggiosi per i Paesi centrasiatici esportatori di materie prime. A detta degli analisti dagli occhi a mandorla, la cooperazione cinese in materia di energia incoraggerà per di più lo sviluppo delle industrie della regione non strettamente connesse con le riserve, come la chimica, l’agricoltura e le infrastrutture.

In ultima analisi, la partnership economica regionale consente a Pechino di rendere l’Asia centrale un mercato di sbocco per l’economia delle sue province interne, puntellare la strategia di diversificazione delle fonti energetiche e garantire la sicurezza dei confini, avvalendosi del proprio soft power per ottenere la progressiva estromissione dell’influenza statunitense nella zona. Rebus sic stantibus, tanto per avvalersi di una arguta intuizione dell’ex ambasciatore indiano Bhadrakumar, “la Cina ha modificato le condizioni di ingaggio occidentale in Asia centrale”.


1) Fonte: MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

2) Cfr. F. William Engdahl, La Chine et l’avenir géopolitique du Kirghizistan; in “Réseau Voltaire” del 16/06/2010

3) Cfr. Alessandro Arduino, Il trampolino di lancio del Xinjiang; in “Affari Internazionali” del 23/08/2010

4) Fonte: www.cia.gov

5) Cfr. MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

6) Silvia Tosi, Le risorse energetiche e le economie centroasiatiche, Milano, ISPI Working Paper No. 21, settembre 2007

7) Cfr. MK Bhadrakumar, China resets terms of engagement in Central Asia; in “Asia Times Online” del 29/12/2009

8 ) Cfr. C. Jean, Il nuovo Grande gioco in Asia centrale; in “Limes online” del 07/07/2009

*Alessio Stilo è dottore in Scienze politiche (Università di Messina)

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Le Filippine tra nuova politica e vecchi problemi

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Il 10 maggio scorso si sono tenute nelle Filippine le elezioni (presidenziali, parlamentari e amministrative) e sono stati eletti in tutto 18.000 rappresentanti locali e nazionali. Nuovo Presidente del Paese è diventato Benigno Aquino III (xx) (leader del Liberal Party, LP), eletto con il 40% dei voti. Alle urne si è recato l’85% della popolazione, su un totale di 50 milioni di abitanti. Aquino Jr succede a Gloria Macapagal Arroyo ed è stato nominato quindicesimo Presidente delle Filippine.

Per la prima volta nel Paese si è votato con un sistema di conteggio elettronico che ha creato qualche problema tecnico ma ha notevolmente ridotto i tempi per lo scrutinio (1).

Gli sfidanti del neo eletto Presidente erano: Joseph Estrada, già Presidente delle Filippine dal 1998 al 2001, anno in cui fu costretto a dimettersi a cause di accuse di corruzione che, essendo fondate, gli hanno fatto passare un periodo di detenzione in carcere; l’altro sfidante era Manny Villar, quinto uomo più ricco del Paese secondo la rivista “Forbes” (2); e il Presidente uscente Gloria Macapagal Arroyo, quattordicesimo Presidente del Paese e primo vicepresidente donna del Paese durante la presidenza di Estrada.

La Commissione elettorale ha annullato il voto in cinque municipalità perché, a causa di ripetute manifestazioni violente, la popolazione non ha potuto votare con libertà. I morti sono stati una decina tra i sostenitori dei vari candidati e la polizia; questa violenza nel periodo elettorale viene considerata “normale” nel Paese perché tutti i candidati alle elezioni presidenziali hanno l’abitudine, oltre a presentarsi al pubblico, di assoldare un esercito privato pronto a tutto pur di ottenere voti. A questi eserciti privati vanno aggiunti i ribelli.

Oltre trentuno milioni di euro sono stati spesi in manifesti elettorali e pubblicità alla televisione e alla radio locali tra novembre dell’anno scorso e gennaio di quest’anno dai candidati alle elezioni presidenziali, utilizzando anche fondi pubblici. I funzionari governativi si appropriano dei fondi destinati ai servizi pubblici e li utilizzano per soddisfare i propri interessi. Per gli analisti questo è un esempio della corruzione che da sempre affligge il Paese e che costa ogni anno oltre tre miliardi di euro.

La corruzione è la principale causa della povertà cronica vissuta dalla popolazione. Proprio la corruzione è anche uno dei tanti problemi che affliggono il Paese e che il neo Presidente intende risolvere. Nel suo primo discorso ufficiale sullo stato del Paese, tenutosi il 30 giugno scorso al momento del giuramento del neo Presidente davanti al giudice della Corte Suprema, Aquino ha addossato le colpe della crisi sull’amministrazione Arroyo e ha assicurato il cambiamento radicale del Paese. La signora Arroyo è stata accusata di aver creato, tra il 2009 e i primi mesi del 2010, un buco finanziario superiore ai tre miliardi di euro. Di conseguenza il nuovo Presidente ha annunciato il varo di una speciale commissione contro la corruzione e una campagna per fermare i crimini sommari.

Gli altri problemi riguardano la riforma agraria, le tensioni tra la maggioranza cristiana del Paese e la minoranza musulmana e il problema delle milizie private.

Il neo eletto Presidente ha ribadito il suo impegno nella lotta alla corruzione. La corruzione è diffusa non solo nel settore pubblico e nelle grandi aziende ma anche a livello locale e costa alle Filippine vari milioni di moneta locale. Nel Paese la corruzione si è rapidamente diffusa per l’egoismo di chi opera nelle principali aziende del settore pubblico e privato, da cui dipendono la produzione e la maggior parte della forza lavoro delle Filippine.

Per Aquino il futuro si preannuncia tutto in salita; infatti lo aspettano gli enormi problemi che affliggono l’unica nazione cattolica in Asia. Nel Sud del Paese, l’insurrezione di alcune tribù musulmane, in altre parti rurali del Paese i ribelli comunisti che continuano ad intralciare l’azione di governo, e infine, il numero sempre crescente di filippini che cercano all’estero migliori condizioni di vita per sfuggire alla corruzione e alla conseguente povertà che affliggono la maggior parte della popolazione.

La disparità sociale ed economica tra nord e centro, a maggioranza cristiana, e il sud, a minoranza musulmana, spiegano gran parte delle tensioni presenti nel Paese. La popolazione musulmana vive nelle zone più povere dell’arcipelago e accusa il governo di non aver favorito la loro integrazione. L’ex presidente Arroyo è stata accusata dai soldati di finanziare i guerriglieri secessionisti del sud per garantirsi il supporto duraturo degli Stati Uniti (..).

Aquino, nelle recenti elezioni, ha conseguito la vittoria in molte zone di Mindanao, la Regione Autonoma Musulmana. Le elezioni a Mindanao sono state libere e trasparenti.

La Chiesa filippina è molto influente nel Paese; all’indomani della suo nomina, ad Aquino è stato chiesto di realizzare la riforma agraria (3), rispettare il Documento sulla salute sessuale e riproduttiva, estirpare il nepotismo e la corruzione della pubblica amministrazione e garantire la sicurezza alimentare nel Paese. La Chiesa filippina ha indicato una serie di priorità: i Vescovi hanno redatto e diffuso un documento in tredici punti, che hanno sottoposto all’attenzione dell’opinione pubblica. Il testo parte dal constatare che la precedente amministrazione Arroyo ha fallito nell’affrontare alcune delicate questioni sociali, auspicando che il nuovo Presidente si impegni a risolverle.

L’andamento della politica interna imposta dal nuovo Presidente potrebbe avere ripercussioni anche a riguardo della politica estera del Paese. La collocazione geografica delle Filippine è molto importante, soprattutto per quanto riguarda i rapporti con il potente vicino, la Cina.

Le Filippine hanno siglato con la Cina un accordo di cooperazione riguardante il turismo, l’energia, la pesca, il commercio e gli investimenti. Una delle priorità di questo accordo è quella di voler trasformare il mare della Cina del Sud da area di conflitto a zona di cooperazione, nel contesto delle relazioni bilaterali e multilaterali; per questo i due Paesi hanno firmato un accordo sulla pre-esplorazione marina per la ricerca del petrolio e sulla regolamentazione per la pesca nella zona, dicendosi pronti a metter fine alla disputa sulle isole Spratly (4).

(1) Il neo Presidente è il figlio di due personaggi importanti per la storia repubblicana delle Filippine; infatti il padre era l’eroe della resistenza alla dittatura di Ferdinand Marcos, Benigno Aquino, che il 21 agosto del 1983 venne assassinato all’aeroporto di Manila di ritorno da un periodo di esilio politico. La madre era Corazon Aquino, prima donna a diventare Presidente di un Paese asiatico. Era stata Presidente dal 1986 al 1992 e la sua politica aveva portato alla caduta della dittatura di Ferdinand Marcos. Nelle Filippine era considerata, ed è considerata anche dopo la sua morte, l’eroina della democrazia per il suo ruolo centrale nella rivoluzione del “People Power” del 1986.

(2) I problemi tecnologici legati al voto digitale hanno costretto a prolungare l’orario delle votazioni di un’ora per andare incontro alle persone che aspettavano in fila fuori dai seggi. La commissione elettorale si è comunque detta soddisfatta di questo primo voto digitale. In passato ci volevano settimane per completare lo spoglio delle schede e conoscere il nome del vincitore.

(3) Rivista statunitense di economia e finanza

(4) La riforma agraria è prevista dal Comprehensive Agrarian Reform Program (CARP), che prevede la redistribuzione delle terre dai latifondisti ai cittadini

(5)http://www.eurasia-rivista.org/4362/l%e2%80%99espansione-cinese-nel-mar-cinese-meridionale-il-caso-delle-isole-spratly

(6) Le truppe statunitensi assistono l’esercito governativo

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Il cambio della guardia al vertice dello stato ucraino

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Nelle elezioni presidenziali ucraine, tenutesi il 7 febbraio 2010, Victor Yanukovich, leader del Partito delle Regioni, ha trionfato sul suo principale avversario, Julia Timoshenko, uno dei simboli, insieme al presidente uscente Victor Juscenko, della cosiddetta Rivoluzione Arancione del 2004.

A prima vista Yanukovich sembrerebbe il perfetto interlocutore del presidente russo Dmitry Medvedev. Oltre ad essere il portatore delle istanze di quella larga fetta di popolazione lingusticamente e culturalmente legata alla vicina Federazione russa (circa il 30% della popolazione totale), Yanukovich, a differenza del suo predecessore, non ha mai sostenuto l’ingresso dell’Ucraina nella Nato e nel 2008 propose anche di concedere l’indipendenza ad Abkhatia ed Ossetia del Sud.

Nonostante questo il nuovo presidente ucraino è lontano dall’essere un pupazzo nelle mani dei russi.

Il trattato di Kharkiv: svolta nelle relazioni russo-ucraine

Il punto di svolta nelle relazioni russo-ucraine è rappresentato dagli Accordi di Kharkiv (21 aprile 2010) che prolungano  la presenza russa nella base navale di Sebastopoli fino al 2042 con una possibile estensione al 2047 in cambio di una riduzione del prezzo del gas e di un canone di affitto di 1,8 miliardi di dollari.

Il trattato di Kharkiv ha conseguenze geopolitiche importanti. Assicura alla Russia la base di Sebastopoli che è la principale infrastruttura della flotta del Mar Nero (le navi che misero il blocco alle coste georgiane salparono da qui) evitando lo shock di doverla abbandonare nel 2017. La questione di Sebastopoli non è solo militare, ma coinvolge i sentimenti più profondi del popolo russo che percepisce la Crimea come una parte staccata della Russia (il 58% degli abitanti della Crimea sono russi).

I risultati per l’Ucraina sono modesti, ottiene uno sconto sul prezzo del gas che non è altro che il riallineamento ai prezzi di mercato (anzi è più alto di quello praticato ad altri clienti di Gazprom), senza che questo risolva i problemi strutturali ucraini.

Dopo questo trattato, è ripresa la cooperazione militare tra i due paesi. A maggio 2010, durante un vertice a Kiev, sono state firmate tre dichiarazioni congiunte sul Trattato di Sicurezza Europeo, sul conflitto nella Transdnistria e sulla sicurezza nel Mar Nero. I rapporti commerciali, che erano peggiorati nell’ultimo anno della presidenza Juscenko,  si vanno normalizzando.

La politica energetica.

L’elezione del nuovo presidente ucraino comporta un cambiamento nel dialogo tra Russia e Ucraina sul problema energetico.

L’Ucraina dipende fortemente dal gas russo (importa l’80% del gas naturale dalla Russia). Anche se la leadership ucraina può essere criticata per non aver riformato il mercato dell’energia, è indubbio che la Russia ha utilizzato il monopolio di Gazprom (la più grande compagnia energetica russa monopolista in tutta l’Europa Orientale) per esercitare pressioni politiche sull’Ucraina. D’altra parte, la dipendenza russa dalle pipeline ucraine ha permesso a Kiev di avere una contro leva minacciando il blocco del passaggio del gas verso l’Europa. Juscenko e il suo primo ministro Timoshenko avevano due alternative: accettare prezzi bassissimi a discapito della loro indipendenza o accettare prezzi più alti salvaguardando la loro autonomia da Mosca. Il prezzo che l’Ucraina ha dovuto pagare alla Russia per il gas è andato drammaticamente crescendo negli ultimi anni (più di 305$ per 1000 m cubi nel primo quadrimestre del 2010). Tuttavia, almeno fino al 2007-2008 questi enormi costi venivano assorbiti da un’economia in crescita.

Oggi, la situazione che si trova ad affrontare Yanukovich è completamente diversa. Per superare la crisi economica dovrà trovare il modo di abbassare il prezzo del gas proveniente dalla Russia e dall’Asia Centrale. Comunque, ogni accordo con Gazprom dovrà prevedere un incentivo significativo per i russi per i quali gli accordi attuali (rinegoziati dopo la guerra del gas del gennaio 2009, subito rientrata perché la Russia non voleva perdere credibilità in Europa, e in parte violati da entrambe le parti) sono estremamente vantaggiosi. Yanukovich può offrire alla Russia la partecipazione al rinnovamento del sistema di trasporto ucraino del gas (GTS) a fianco di Naftogaz (la compagnia energetica ucraina) e di altre compagnie europee. I vertici di Gazprom, però, hanno già fatto sapere che non sono interessati all’operazione e che preferirebbero piuttosto avere quote di Naftogaz a basso prezzo. Yanukovich avrà non poche difficoltà a conciliare l’esigenza di breve termine di uscire dalla crisi economica con quella di lungo termine di aumentare la sua sicurezza energetica e di ridurre la sua dipendenza dalle forniture russe.

Qual è il piano ucraino?

Innanzitutto si vuole aumentare la produzione interna di gas. Inoltre, la produzione di energia da fonti rinnovabili potrebbe permettere all’Ucraina di risparmiare 18.5bcm di gas naturale all’anno, riducendo il consumo in Ucraina entro la fine del 2010 del 13.5%. L’altro obiettivo è quello di migliorare l’efficienza energetica delle industrie. In ultimo, si sta valutando l’ipotesi di costruire un impianto di rigassificazione (LNG), sempre allo scopo di rendersi più indipendenti dalla Russia.

Da parte della Russia, la sua cooperazione con l’Ucraina nel settore del gas sarà costruita in accordo con i principi della nuova strategia energetica fino al 2030. Fra gli obiettivi di questa strategia c’è quello di ridurre il rischio di far transitare l’energia russa verso i mercati di esportazione, cosa che riguarda principalmente le relazioni tra Russia e Ucraina. Per raggiungere questo obiettivo la Russia da una parte sta cercando di ottenere a livello internazionale che vengano recepiti dei nuovi principi circa i diritti di transito dei flussi energetici (coerentemente si è ritirata dall’Energy Charter) e dall’altra non ha mai smesso di  cercare un sistema per usare il GTS, cercando di ottenere una “immunità” per i suoi transiti o riuscendo ad acquisire la proprietà di Naftogaz. D’altra parte, in base alla legge ucraina nè il GTS è privatizzabile nè Naftogaz può fallire. Si sta anche sviluppando una politica di vie alternative, in particolare con la costruzione del North Stream (gasdotto nel Baltico) che permetterebbe alla Russia di bypassare il territorio ucraino e di collegarsi direttamente alla Germania.

L’Ucraina, la NATO e l’UE

L’Ucraina è molto importante per la Russia dal punto di vista geopolitico e il suo eventuale ingresso nella Nato e nell’UE sancirebbe il definitivo arretramento della Russia e porrebbe fine ai suoi tentativi di ricreare uno spazio di influenza all’interno dell’area dell’ex URSS. L’ipotesi dell’ingresso dell’Ucraina nella Nato, già poco attraente per la popolazione (solo un 25% la vedeva con favore), con l’elezione di  Yanukovich è definitivamente tramontata. Da un parte il nuovo presidente da sempre avversario di questa ipotesi, dall’altra la crisi economica e l’ondeggiante politica statunitense verso lo spazio ex-sovietico, già evidente durante  la guerra in Georgia, quando era stato chiaro che non si potesse contare su un intervento Usa o della Nato, confermata dalla linea di Obama (sospensione dell’installazione del sistema antimissile in Polonia e nella Repubblica Ceca), hanno portato il Parlamento ucraino il 3 giugno 2010 a votare una legge che stabilisce che l’Ucraina è un paese non allineato. Con ciò si esclude  l’adesione alla Nato, ma anche l’adesione ventilata alla Collective Security Treaty Organisation (CSTO, l’organizzazione che riunisce Armenia, Bielorussia, Kazakhstan, Kyrgyzstan, Russia  e Tajikistan in una alleanza militare). Questa soluzione è soddisfacente per la Russia perchè allontana il pericolo di avere la Nato in Ucraina e la non adesione alla CSTO è un piccolo prezzo da pagare.

Questa legge d’altra parte non impedisce l’adesione all’UE, che rimane un obiettivo prioritario per il governo ucraino. Infatti prosegue, seppur rallentata, la collaborazione con Bruxelles con progetti quali il recente “partenariato orientale”,  che può portare accordi di libero scambio, aiuti finanziari, maggiore sicurezza energetica e abolizione del visto per i viaggi nell’UE per Armenia, Azerbaigian, Bielorussia, Georgia, Moldavia e Ucraina. Per l’Europa, il partenariato significherebbe maggiore sicurezza e stabilità lungo i suoi confini orientali. La Russia, invece, interpreta questa iniziativa come un tentativo di marginalizzare la sua influenza in un’area che lei ritiene di sua competenza. Pur essendo questa una iniziativa di “civilian power”, la Russia teme che questa porti alla disintegrazione dello spazio post sovietico e per questa ragione sta utilizzando tutti gli strumenti in suo possesso per influenzare i partecipanti al partenariato orientale (dagli investimenti, alle rimesse degli immigrati). Il nuovo governo ucraino pertanto, pur mantenendo aperto il dialogo con l’UE, non potrà non tener conto delle esigenze russe.

Un ulteriore segnale che l’Ucraina vuole proseguire il suo cammino verso l’UE è la firma,  il  18 giugno 2010, dei due accordi per il rilascio agevolato dei visti e per la riammissione degli immigrati clandestini. Gli accordi entreranno in vigore dopo che entrambe le parti avranno completato le procedure interne di ratifica, possibilmente entro la fine dell’anno.

Conclusioni

Oggi la priorità del presidente e  del suo entourage è prima di tutto quella di assicurare la ripresa economica del paese, pur con tutte le difficoltà di una economia in mano agli oligarchi, e di  rafforzare la sua stabilità politica. Yanukovich oggi è filo-ucraino, prima e più che filo-russo.

L’altro effetto che sta emergendo in Ucraina è un tentativo di “putinizzare” lo Stato svuotando le riforme democratiche della rivoluzione arancione, come ad esempio le riforme introdotte per le elezioni comunali dell’ottobre del 2010. D’altra parte l’attenzione della popolazione è rivolta alla crisi economica e non alle problematiche democratiche o alle questioni di politica estera.

L’Ucraina resta al centro del tentativo russo di ricreare uno spazio di influenza in quella che fu l’ex URSS e dei timori che ancora pervadono gli ex stati satelliti, in primis la Polonia. Importanti ai fini dei prossimi passi del presidente Yanukovich saranno le elezioni comunali. Non dobbiamo dimenticare che il suo partito governa in coalizione e di fronte ad una sconfitta potrebbero esserci altre sorprese, a cui del resto questo paese ci ha abituato. Entro la fine dell’anno sarà più chiara la direzione che l’Ucraina prenderà.

*Luana Masciotra, laureata in Scienze Politiche (indirizzo politico-internazionale), ha conseguito un Master in Geopolitica presso la SIOI – Società Italiana per l’Organizzazione Internazionale

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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George Soros: Mago imperiale e agente doppio

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Fonte: Covert Action Quarterly
Sì ho una politica estera: il mio obiettivo è divenire la coscienza del Mondo.”(1)
Non si tratta per nulla di un caso di narcisismo acuto della personalità; ecco, infatti, come George Soros applica oggi il potere dell’egemonia degli USA nel mondo.
Le istituzioni di Soros e le sue macchinazioni finanziarie sono in parte responsabili della distruzione del socialismo in Europa dell’Est e nell’ex URSS. Ha gettato la sua attenzione anche sulla Cina. Ha preso anche parte a tutte le operazioni che sono sboccate nello smantellamento della Jugoslavia. Mentre si da arie da filantropo, il ruolo del miliardario George Soros consiste nel rinserrare la presa ideologica della globalizzazione e del Nuovo ordine mondiale assicurando la promozione del proprio profitto finanziario. Le operazioni commerciali e “filantropiche” di Soros sono clandestine, contraddittorie e coattive. E, per ciò che riguarda la sue attività economiche, egli stesso ammette che non ha coscienza, in quanto capitalista è assolutamente amorale.

Maestro della nuova arte della corruzione che inganna sistematicamente il mondo, con accesso agli uomini di stato che lo ascoltano. È stato vicino a Henry Kissinger, Vaclav Havel e al generale polacco Wojciech Jaruzelski.(2) Sostiene il dalai lama, il cui istituto si trova a Presidio, San Francisco, che ospita, tra l’altro, la fondazione diretta dall’amico di Soros, l’ex dirigente sovietico Mikhail Gorbachev.(3)

Soros é una figura di punta del Consiglio delle Relazioni Estere, del Forum Economico Mondiale e di Human Rights Watch (HRW). Nel 1994, dopo un incontro con il suo guru filosofico, Sir Karl Popper, Soros ordinava alle sue società di mettersi a investire nelle comunicazioni in Europa centrale e dell’Est.

L’amministrazione federale della radiotelevisione della Repubblica ceca ha accettato la sua offerta di riprendere e finanziare gli archivi di Radio Free Europe. Soros ha trasferito i suoi archivi a Praga e ha speso più di 15 milioni di dollari per i loro spettacoli.(4) Congiuntamente con gli USA, una fondazione Soros dirige oggi Radio Free Europe/Radio Liberty, che ha esteso le sue ramificazioni al Caucaso e in Asia.(5)
Soros è il fondatore e il finanziatore dell’Open Society Institute. Ha creato e sostenuto l’International Crisis Gruop (ICG) che, tra l’altro, è attivo nei Balcani dallo smantellamento della Jugoslavia. Soros lavora apertamente con l’Istituto Americano per la Pace – un organo ufficialmente riconosciuto dalla CIA.

Quando le forze ostili alla globalizzazione protestavano sulle strade attorno il Waldorf-Astoria, a New York, nel febbraio 2002, George Soros era all’interno e teneva un discorso davanti il Forum economico mondiale. Quando la polizia pigiava i manifestanti nelle gabbie metalliche a Park Avenue, Soros vantava le virtù d’una “società aperta“, unendosi così a Zbigniew Brzezinski, Samuel Huntington, Francis Fukuyama e altri.
Chi è questo tipo?

George Soros è nato in Ungheria nel 1930 da genitori ebrei così lontani dalle loro radici che passarono, una volta, le vacanze nella Germania nazista.(6) Soros visse sotto il regime nazista ma, al momento del trionfo dei comunisti, andò in Inghilterra nel 1947. Lì, alla London School of Economics, subì l’influenza del filosofo Karl Popper, un adulato ideologo anticomunista il cui insegnamento costituì la base delle tendenze politiche di Soros. È difficile trovare un discorso, un’opera o un articolo di Soros che non obbedisca all’influenza di Popper.

Nel 1965, Popper inventò lo slogan della “Società aperta“, che si ritroverà più avanti nella Open Society Fund and Institute di Soros. I discepoli di Popper ripetono le sue parole come dei veri credenti. La filosofia di Popper incarna perfettamente l’individualismo occidentale. Soros lasciò l’Inghilterra nel 1956 e trovò lavoro a Wall Street dove, negli anni ’60, inventò i “fondi di copertura“: “I fondi di copertura soddisfacevano gli individui assai ricchi (…) I fondi in gran parte segreti, servivano abitualmente a fare degli affari in luoghi lontani (…) producevano dei profitti astronomicamente superiori. L’ammontare degli ‘impegni’ si mutavano spesso in profezie che si autorealizzavano: ‘le voci circolavano a proposito d’una situazione di acquisto che, grazie agli enormi fondi di copertura, incitavano altri investitori a sbrigarsi a fare lo stesso, cosa che a sua volta aumentava le azioni degli operatori di copertura.“(7)

Soros creò il Quantum Fund nel 1969 e iniziò a manipolare le monete. Negli anni ’70, le sue attività finanziarie scivolavano verso “l’alternanza tra le situazioni a lungo e a corto termine (…) Soros iniziò a guadagnare sulla crescita dei trusts d’investimento nell’immobiliare e sui loro successivi fallimenti. Durante i suoi venti anni di gestione, la Quantum offrì dei profitti clamorosi del 34,5% in media all’anno. Soros è particolarmente noto (e temuto) per le sue speculazioni sulle monete. (…) Nel 1997, si vide assegnare una distinzione rara facendosi chiamare scellerato da un capo di stato, Mahathir Mohamad, della Malaysia, per avere partecipato a un raid particolarmente vantaggioso contro la moneta del paese.”(8)

È attraverso tali “giochetti” finanziari clandestini che Soros divenne multimiliardario. Le sue società controllano l’immobiliare in Argentina, Brasile e in Messico, la banca in Venezuela e appaiono in molte delle più vantaggiose transazioni monetarie, facendo nascere la credenza generale che i suoi amici più potenti l’abbiano aiutato nelle sue avventure finanziarie, e ciò per delle ragioni tanto politiche che economiche.(9)
George Soros è stato accusato di aver fatto naufragare l’economia tailandese nel 1997.(10) Un attivista tailandese dichiarò: “consideriamo George Soros come une sorta di Dracula. Succhia il sangue del popolo.”(11) I cinesi lo chiamano “il coccodrillo” per i suoi sforzi economici e ideologici in Cina, che non erano mai sufficienti, e perché le sue speculazioni finanziarie hanno generato milioni di dollari di profitto quando mise le zampe sulle economie tailandese e Malese.(12)

In un giorno, Soros guadagnò un miliardo di dollari speculando (una parola che detesta) sulla sterlina inglese. Accusato di prendere “denaro dai contribuenti ogni volta che speculava contro la sterlina“, aveva risposto: “Quando voi speculate sul mercato finanziario, non badate alle preoccupazioni morali cui si deve confrontare un uomo d’affari ordinario. (…) Non mi preoccupo di questioni morali nel mercato finanziario.”(13)
Soros é schizzofrenicamente instabile quando si tratta di arricchirsi personalmente in modo illimitato e prova un perpetuo desiderio d’essere ben considerato dagli altri: “I commercianti di monete seduti nei loro uffici comprano e vendono divise dei paesi del terzo mondo in grande quantità. L’effetto delle fluttuazioni dei corsi sulle persone che vivono in questi paesi non favorisce il loro spirito. Non si dovrebbe farlo più: hanno un lavoro da fare. Se ci fermiamo a riflettere, noi dobbiamo porci la questione di sapere se i commercianti di divise (…) debbano controllare la vita di milioni di persone.”(14)
È George Soros che ha salvato la pelle di George W. Bush quando la gestione della sua società di prospezioni petrolifere era sul punto di risolversi in un fallimento. Soros era il proprietario della Harken Energy Corporation e lui aveva comprato lo stock delle azioni in ribasso poco prima della fine della società. Il futuro presidente venne liquidato con quasi un milione di dollari. Soros dichiarò che aveva agito in quel modo per avere “influenza politica“.(15) Soros é ugualmente un partner della tristemente celebre Carlyle Group. Ufficialmente fondata nel 1987, la “più importante società privata per azioni del mondo“, che gestisce più di 12 miliardi di dollari, é diretta da “un vero pugno mondano di ex dirigenti repubblicani“, dall’ex membro della CIA, Frank Carlucci, fino al capo della CIA ed ex presidente George Bush padre. Il Carlyle Group trae la maggior parte delle sue entrate dalle esportazioni di armi.
La spia filantropa

Nel 1980, Soros comincia a utilizzare i suoi milioni per combattere il socialismo in Europa dell’Est. Finanzia degli individui suscettibili di cooperare con lui. Il suo primo successo, l’ottiene in Ungheria. Attacca il sistema educativo e culturale ungherese, smantellando il sistema statale socialista di tutto il paese. Si apre un canale direttamente all’interno del governo ungherese. In seguito, Soros si volse alla Polonia, contribuendo all’operazione Solidarnosc, finanziata dalla CIA e, lo stesso anno, estende le sue attività in Cina. L’URSS venne dopo.

Non era un caso se la CIA ha condotto delle operazioni in tutti da questi paesi. Il suo obiettivo era ugualmente la stessa di quella dell’Open Society Fund: smantellare il socialismo. In Africa del Sud, la CIA addestrava dei dissidenti anticomunisti. In Ungheria, in Polonia e in URSS, tramite un intervento non dissimulato condotto a partire dalla Fondazione Nazionale per la Democrazia (NED), l’AFL-CIO, l’USAID e altri istituti, la CIA sosteneva e organizzava gli anticomunisti, gli stessi tipi d’individui reclutati dalla Open Society Fund di Soros. La CIA li chiamava i suoi “assi nella manica“. Come dice Soros: “in ogni paese ho identificato un gruppo di persone – certe sono delle personalità di primo piano, altri sono meno noti- che sostengono la mia fede…“(16)
L’Open Society di Soros organizzava delle conferenze con degli anticomunisti cechi, serbi, romeni, ungheresi, croati, bosniaci, kossovari.(17) la sua influenza crescente fece sospettare che operasse in quanto parte del sistema spionistico USA. Nel 1989, il Washington Post riportava le accuse fatte già nel 1987 da ufficiali del governo cinese, che pretendevano che il Fondo Soros per la Riforma e l’Apertura della Cina avesse delle connessioni con la CIA.(18)
Il turno della Russia

Dopo il 1990, i fondi di Soros mirano al sistema educativo russo e fornivano dei manuali in tutta la nazione.(19) In effetti, Soros si serve della propaganda dell’OSI per indottrinare la gioventù russa. Le fondazioni di Soros sono state accusate d’avere orchestrato una strategia mirante a assicurarsi il controllo del sistema finanziario russo, dei piani di privatizzazione e del processo degli investimenti esteri nel paese. I Russi reagirono con rabbia alle ingerenze di Soros nelle legislazioni. Le critiche di Soros e altre fondazioni USA hanno affermato che l’obiettivo di queste manovre era di “impedire che la Russia divenisse uno stato con un potenziale che rivaleggiasse con la sola superpotenza mondiale“.(20) I Russi sospettarono che Soros e la CIA siano interconnessi. Il magnate Boris Berezovsky, disse: “Ho subito rivolto lo sguardo appena ho appreso che da qualche anno, George Soros è un agente della CIA. “(21) L’opinione di Berezovsky era che Soros, come anche l’Occidente, “temessero che il capitalismo russo divenisse troppo potente“.
Se l’establishment economico e politico degli USA teme la concorrenza economica della Russia, quale migliore maniera di controllarla che dominare i media, l’educazione, i centri di ricerca e i settori scientifici della Russia? Dopo aver speso 250 milioni di dollari per “la trasformazione dell’educazione delle scienze umane e dell’economia a livello delle scuole superiori e delle università“, Soros inietta 100 milioni di dollari, dopo un anno, per la creazione della Fondazione scientifica internazionale.(22) I Servizi federali russi di controspionaggio (FSK) accusano le fondazioni di Soros in Russia di “spionaggio“. Segnalano che Soros non opera da solo; fa parte di un rullo compressore che ricorre, tra l’altro, a dei finanziamenti dalla Ford e dalla Heritage Foundations, dalle università di Harvard, Duke e Columbia, e all’assistenza del Pentagono e dei suoi servizi di informazione USA.(23) Il FSK s’indigna del fatto che Soros abbia messo le mani su circa 50.000 scienziati russi e presume che Soros abbia coltivato soprattutto i suoi interessi, assicurandosi il controllo di migliaia di scoperte scientifiche e nuove tecnologie russe e appropriandosi cosi dei segreti di stato e dei segreti commerciali.(24)
Nel 1995, i Russi erano assai arrabbiati in seguito all’ingerenza dell’agente del Dipartimento di stato, Fred Cuny, nel conflitto ceceno. Cuny si serviva dell’aiuto ai rifugiati come copertura, ma la storia delle sue attività nelle zone di conflitti internazionali interessanti gli USA, cui venivano a aggiungersi le operazioni d’investigazione della FBI e della CIA, rendevano manifeste le sue connessioni con il governo USA. All’epoca della sua scomparsa, Cuny lavorava sotto contratto con una fondazione di Soros.(25) non è molto noto, negli USA, che la violenza in Cecenia, una provincia situata al centro della Russia, é generalmente vista come il risultato di una campagna di destabilizzazione politica che Washington vede di buon occhio e che orchestra, probabilmente. Questo modo di presentare la situazione é sufficientemente chiara agli occhi dello scrittore Tom Clancy, al punto che si è sentito libero di fare una affermazione di fatto nel suo best-seller: La somma di tutte le paure. I Russi hanno accusato Cuny di essere un agente della CIA e d’essere uno dei responsabili di una operazione di spionaggio destinata a sostenere l’insurrezione cecena.(26) L’Open Society Institute di Soros é sempre attiva in Cecenia, come lo sono ugualmente altre organizzazioni sponsorizzate dallo stesso Soros.
La Russia é stata il teatro di almeno un tentativo comune di fare avanzare il bilancio di Soros, tentativo orchestrato con l’aiuto diplomatico dell’amministrazione Clinton. Nel 1999, la segretaria di stato Madeleine Albright aveva bloccato una garanzia di prestito di 500 milioni di dollari per l’Export-Import Bank degli USA alla società russa Tyumen Oil, pretendendo che ciò si opponesse agli interessi nazionali USA. La Tyumen voleva comprare delle attrezzature petrolifere di fabbricazione statunitense, così come dei servizi, presso la società Halliburton di Dick Cheney e dell’ABB Lummus Global di Bloomfield, New Jersey.(27) George Soros era investitore in una società che la Tyumen aveva tentato di comprare. Tanto Soros che BP Amoco avevano esercitato delle pressioni alfine d’impedire tale transazione, e l’Albright gli rese questo servizio.(28)
Il discorso di un antisocialista di sinistra

L’Open Society Institute di Soros infila le dita in ogni ambito. Il suo consiglio di amministrazione è un vero “Who’s Who” della guerra fredda e dei pontefici del nuovo ordine mondiale. Paul Goble é direttore delle comunicazioni: “è stato il principale commentatore politico di Radio Free Europe“. Herbert Okun ha servito nel dipartimento di stato di Nixon come consigliere dell’intelligence con Henry Kissinger. Kati Marton è la consorte di Richard Holbrooke, l’ex ambasciatore all’ONU e inviato in Jugoslavia dell’amministrazione Clinton. Marton ha esercitato pressioni in favore della stazione radio B-92, finanziata da Soros, e ha ugualmente assai operato in favore di un progetto della Fondazione nazionale per la democrazia (NED, un’altra antenna ufficiale della CIA) che ha collaborato al rovesciamento del governo jugoslavo.

Quando Soros fondò l’Open Society Fund, cercò il grande bonzo liberale Aryeh Neier per dirigerla. All’epoca, Neier dirigeva Helsinki Watch, una pretesa organizzazione dei diritti dell’uomo di tendenza nettamente anticomunista. Nel 1993, l’Open Society Fund divenne l’Open Society Institute.

Helsinki Watch divenne Human Rights Watch nel 1975. All’epoca, Soros faceva parte della sua commissione consultiva, sia per il comitato delle Americhe che per quelle dell’Europa dell’Est e dell’Asia centrale, e la sua nebulosa Open Society Fund/Soros/OSI è indicata come raccoglitrice di fondi.(29) Soros ha delle relazioni strette con Human Rights Watch (HRW) e Neier scrive articoli per la rivista The Nation senza menzionare in alcun modo che figura sui libri paga di Soros.(30)

Soros é dunque strettamente legato a HRW, benché faccia del suo meglio per nasconderlo.(31) Dichiara che si accontenta di raccogliere fondi, di mettere i programmi a punto e di lasciare le cose andare da sole. Ma le azioni di HRW non si discostano in alcun modo dalla filosofia del suo raccoglitore di fondi. HRW e OSI sono assai vicini. Le loro visioni non divergono. Naturalmente, altre fondazioni finanziano ugualmente queste due istituzioni, ma non impedisce che l’influenza di Soros domini la loro ideologia.
Le attività di George Soros s’inscrivono nello schema di costruzione sviluppato nel 1983, così come è annunciato da Allen Weinstein, fondatore della Fondazione nazionale per la democrazia (NED). Wainstein dichiara: “Una grande parte di ciò che noi facciamo oggi era realizzato in segreto dalla CIA 25 anni fa. “(32) Soros opera esattamente nei limiti del complesso spionistico. Differisce poco dai trafficanti di droga della CIA nel Laos, negli anni ’60, o dei mujahidin che trafficavano nell’oppio conducendo delle operazioni per conto della CIA contro l’Afghanistan socialista degli anni ’80. Canalizza semplicemente (e raccoglie) molto più denaro di queste marionette, e una parte ben più importante dei suoi affari si fanno nei gironi migliori. La sua libertà d’azione, nella misura in cui possa goderne, risiede in un controllo fattivo dei profitti, che gli servono a legittimare le strategie della politica estera USA.

La maggioranza degli statunitensi che, oggi, si considerano politicamente di centrosinistra, sono senza alcun dubbio pessimisti a proposito della speranza di assistere un giorno a una trasformazione socialista della società. Di conseguenza, il modello di “decentralizzazione” alla Soros, o l’approccio “frammentato” dell'”utilitarismo negativo, il tentativo di ridurre al minimo la quantità di miseria“, che costituiva la filosofia di Popper, tutto ciò gli va bene, più o meno.(33) Soros ha finanziato uno studio di HRW che è stato usato per sostenere l’addomesticamento della legislazione in materia di droga negli stati della California e dell’Arizona.(34) Soros é favorevole a una legislazione sulle droghe – una maniera di ridurre provvisoriamente la coscienza della propria miseria. Soros é un corruttore che sostiene il concetto dell’uguaglianza delle opportunità. A una scala più elevata sul piano socio-economico, si trovano i social-democratici che accettano d’essere finanziati da Soros e che credono alle libertà civiche nel contesto stesso del capitalismo.(35) Per queste persone, le conseguenze nefaste delle attività commerciali di Soros (che impoveriscono le persone nel mondo) sono edulcorate dalle sue attività filantropiche. Allo stesso modo, gli intellettuali liberali di sinistra, tanto all’estero che negli USA, sono stati sedotti dalla filosofia dell'”Open Society“, senza parlare dell’attrattiva che rappresentano le sue donazioni.

La Nuova Sinistra USA era un movimento social-democratico. Era risolutamente antisovietica e quando l’Europa dell’Est e l’Unione Sovietica si sono dissolte, pochi nella Nuova Sinistra si sono opposti alla distruzione dei sistemi socialisti. La Nuova Sinistra non ha né detto nulla né protestato quando centinaia di milioni di abitanti dell’Europa dell’Est e dell’Europa centrale hanno perso il loro diritto al lavoro, all’alloggio e alla protezione della legge, all’educazione gratuita nelle scuole superiore, alla gratuità delle cure e dell’acculturazione. La maggioranza ha minimizzato gli avvertimenti che indicavano che la CIA e certe ONG – come la Fondazione Nazionale per la Democrazia o l’Open Society Fund – avevano attivamente partecipato alla distruzione del socialismo. Queste persone avevano l’impressione che la determinazione occidentale a voler distruggere l’URSS dal 1917 era una cosa assai lontana dalla caduta dell’URSS. Per queste persone, il socialismo è scomparso di sua volontà, per le sue lacune e sconfitte.
Quanto alle rivoluzioni, come quella del Mozambico, dell’Angola, del Nicaragua o del Salvador, annichilite dalle forze operanti per procura o ritardate dalle “elezioni” assai dimostrative, i pragmatisti della Nuova sinistra non hanno fatto altro che volgere lo sguardo da un’altra parte. Talvolta, la stessa Nuova Sinistra sembrava ignorare deliberatamente le macchinazioni post-sovietiche della politica estera USA.
Bogdan Denitch, che nutriva delle aspirazioni politiche in Croazia, è stato attivo presso l’Open Society Institute e ha ricevuto dei fondi dalla stessa OSI.(36) Denitch era favorevole all’epurazione etnica dei Serbi in Croazia, ai bombardamenti della Nato della Bosnia e della Jugoslavia e anche a una invasione terrestre della Jugoslavia.(37) Denitch è stato uno dei fondatori e il presidente dei Socialisti democratici degli USA, un gruppo preponderante della sinistra liberale negli Stati Uniti. È stato anche presidente, per molto tempo, della prestigiosa Conferenza degli Universitari socialisti, grazie alla quale poteva facilmente manipolare le simpatie di molti e farli propendere al sostegno dell’espansione della Nato.(38) Altri obiettivi in sostegno di Soros comprendono Refuse and Resist, the American Civil Liberties Union e tutta una panoplia di altre cause liberali.(39) Soros acquisiva un altro trofeo impegnandosi inverosimilmente nella Nuova Scuola di Ricerche Sociali di New York, che era stata per molto tempo l’accademia principale degli intellettuali di sinistra. Oggi, sponsorizza il Programma per l’Europa dell’est e l’Europa centrale.(40)
Molte persone di sinistra, ispirate dalla rivoluzione nicaraguense, hanno accettato con tristezza l’elezione di Violetta Chamorro e la sconfitta dei sandinisti nel 1990. La quasi totalità della rete di sostegno in Nicaragua ha cessato la sue attività in seguito. Forse la Nuova Sinistra avrebbe potuto trarre qualche insegnamento dalla stella ascendente di Michel Kozak. L’uomo era un veterano delle campagne di Washington mirante a installare dei dirigenti simpatici in Nicaragua, in Panama e ad Haiti, e a minare Cuba – dove dirigeva la sezione di interessi USA all’Habana.

Dopo aver organizzato la vittoria di Chamorro in Nicaragua, Kozak proseguì il suo cammino per divenire ambasciatore degli USA in Bielorussia, collaborando all‘Internet Access and Training Program (IATP), sponsorizzato da Soros e che operava nella “fabbricazione di futuri dirigenti” in Bielorussia.(41) Nello stesso tempo, tale programma era imposto in Armenia, Azerbaidjan, Georgia, Kazakhstan, Kirghizistan, Turkmenistan e Uzbekistan. L’IATP opera assieme al sostegno del dipartimento di stato USA. A credito della Bielorussia, bisogna aggiungere che espulse Kozak e la sua cricca dell’Open Society di Soros e del dipartimento di stato USA. Il governo di Aleksandr Lukashenko scoprì che, quattro anni prima di installarsi a Minsk, Kozak organizzava forniture di decine di milioni di dollari destinati a alimentare l’opposizione bielorussa. Kozak lavorava all’unificazione della coalizione dell’opposizione, creava dei siti web, dei giornali e dei poli di opinione e supervisionava un movimento di resistenza studentesca simile a Otpor in Jugoslavia. Kozak fece anche venire dei dirigenti di Otpor per formare dei dissidenti in Bielorussia.(42) Proprio alla vigilia dell’11 settembre 2001, gli USA rilanciavano una campagna di demonizzazione contro il presidente Aleksandr Lukashenko. Tale campagna è stata messa da parte, per concentrarsi sulla “guerra contro il terrorismo“.
Con l’intromissione dell’OSI e dell’HRW, Soros era uno dei principali sponsor della stazione radio B-92 di Belgrado. Fondò Otpor, l’organizzazione che riceveva  “valigie di denaro” alfine di sostenere il golpe del 5 ottobre 2000 che rovesciava il governo jugoslavo.(43) Poco dopo, Human Rights Watch aiutava a legittimare il rapimento e la mediatizzazione del processo di Slobodan Milosevic all’Aja, senza preoccuparsi dei suoi diritti.(44) Louise Arbour, che ha operato come giudice nel tribunale illegale, siede attualmente nel consiglio del Gruppo Internazionale di Crisi (ICG) di Soros.(45) La gang dell’Open Society e di Human Rights Watch ha lavorato in Macedonia, dicendo che ciò faceva parte della sua “missione civilizzatrice“.(46) Bisogna dunque attendere, un giorno, la “salvezza” per questa repubblica, affinché si ottenga così la disintegrazione dell’ex Jugoslavia.

I Mandati del potere

Infatti, Soros ha dichiarato che considerava la sua filantropia come morale e i suoi affari di gestione del denaro come amorali.(47) Pertanto, i responsabili delle ONG finanziate da Soros hanno una agenda chiara e permanente. Una delle istituzioni più influenti di Soros è il Gruppo Internazionale di Crisi, fondato nel 1986. Il GIC é diretto da individui provenienti dal centro stesso del potere politico e dal mondo delle imprese. Il suo consiglio d’amministrazione conta, tra l’altro, nei suoi ranghi Zbigniew Brzezinski, Morton Abramowitz, ex segretario di stato aggiunto degli USA; Wesley Clark, ex capo supremo degli alleati della Nato per l’Europa; Richard Allen, ex consigliere nazionale alla sicurezza degli USA. Vale la pena di citare Allen: l’uomo ha abbandonato il Consiglio Nazionale della Sicurezza sotto Nixon perché era disgustato dalle tendenze liberali di Henry Kissinger; è sempre lui che ha reclutato Oliver North per il Consiglio nazionale della sicurezza sotto Reagan, e che negoziò lo scambio missili-ostaggi nello scandalo Contras-Irangate. Per questi individui, “contenere i conflitti” equivale a assicurare il controllo statunitense sui popoli e le risorse del mondo intero.
Negli anni ’80 e ’90, sotto l’egida della dottrina reaganiana, le operazioni segrete o aperte degli USA si compivano in Africa, in America latina, Caraibi e in Asia. Soros era apertamente attivo nella maggior parte di questi luoghi, corrompendo eventuali rivoluzionari in potenza, e sponsorizzando uomini politici, intellettuali e ogni altra persona suscettibile di arrivare al potere quando l’agitazione rivoluzionaria sarebbe decaduta. Secondo James Petras: “Alla fine degli anni ’80, i settori più perspicaci delle classi neo-liberali al potere comprendono che i loro obiettivi politici polarizzano la società e suscitano un ampio scontento sociale. I politici neo-liberali si sono messi a finanziare e a promuovere una strategia parallela ‘a partire dalla base’, la promozione di organizzazioni in qualche modo ‘tirate dalla base’, dall’ideologia ‘anti-statalista’ e mirate a intervenire tra le classi potenzialmente conflittuali, alfine di creare un ‘tampone sociale’. Tali organizzazioni dipendevano finanziariamente dalle risorse neo-liberali e erano direttamente impegnate nella concorrenza con i movimenti socio-politici per la fedeltà dei dirigenti locali e delle comunità militanti. Negli anni ’90, queste organizzazioni, descritte come ‘non governative’, si contano a migliaia e ricevono circa 4 miliardi di dollari in tutto il mondo.”(48)
In Underwriting Democracy (Garantire la democrazia), Soros si vanta “dell’americanizzazione dell’Europa dell’Est“. Secondo i suoi propri desideri, grazie ai suoi programmi d’educazione, ha cominciato a mettere su un inquadramento dei giovani dirigenti “sorosiani“. Questi giovani addestrati dalla Fondazione Soros sono preparati ad adempiere alle funzioni di ciò che si chiamano, comunemente, “agenti d’influenza“. Grazie alla loro conoscenza pratica delle lingue e al loro inserimento nelle burocrazie nascenti dei paesi sotto tiro, tali reclute sono individuate per facilitare, sul piano filosofico, l’accesso alle società multinazionali occidentali.

Il diplomatico di carriera Herbert Okun, che siede in compagnia di George Soros nel Comitato europeo di Human Rights Watch, intrattiene strette relazioni con tutta una serie d’istituti legati al dipartimento di stato, che va dall’USAID alla Commissione Trilaterale finanziata da Rockefeller. Dal 1990 al 1997, Okun è stato direttore esecutivo di una organizzazione chiamata Corpo dei Benevolenti dei Servizi Finanziari, che faceva parte dell’USAID, “alfine di aiutare a stabilire dei sistemi finanziari dei mercati liberi nei paesi ex-comunisti“.(49) George Soros é in completo accordo con i capitalisti occupati a prendere il controllo dell’economia mondiale.
La redditività del Non-Profit

Soros pretende che non fa filantropia nei paesi dove pratica il commercio di valute.(50) Ma Soros ha spesso ottenuto vantaggi dalle sue relazioni per realizzare degli investimenti chiave. Armati di uno studio dell’ICC e beneficiante del sostegno di Bernard Kouchner, capo dell’UNMIK (Amministrazione temporanea delle Nazioni Unite in Kosovo), Soros ha tentato di appropriarsi del complesso minerario più vantaggioso dei Balcani.
Nel settembre 2000, nella sua fretta di impadronirsi delle miniere di Trepca prima delle elezioni in Jugoslavia, Kouchner dichiarava che l’inquinamento provocato dal complesso minerario faceva innalzare i tassi di piombo nell’ambiente.(51) E’ incredibile sentire una cosa simile, quando si sa che l’uomo applaudì, quando i bombardamenti della Nato, nel 1999, hanno riversato l’uranio impoverito sul paese e hanno liberato più di 100.000 tonnellate di prodotti cancerogeni in aria, nell’acqua e nella terra.(52) Ma Kouchner ha finito con l’essere guadagnato alla causa e le miniere sono state chiuse per “ragioni di salute“. Soros ha investito 150 milioni di dollari in uno sforzo per ottenere il controllo dell’oro, l’argento, il piombo, lo zinco e il cadmio di Trepca, che conferiscono a questa proprietà un valore di 5 miliardi di dollari.(53)
Al momento in cui la Bulgaria cadeva nel caos del “libero mercato“, Soros si accaniva a recuperare ciò che poteva dalle macerie, come la Reuters ha riportato all’inizio del 2001: “La Banca europea di Ricostruzione e lo Sviluppo (BERD) ha investito 3 milioni di dollari presso RILA [una società bulgara specializzato nelle tecnologie di punta], la prima società a beneficiare di un nuovo credito di 30 milioni di dollari fissati con la BERD per sostenere le aziende di high-tech in Europa centrale e dell’Est. (…) Tre altri milioni di dollari venivano dai fondi statunitensi d’investimenti privati Argus Capital Partners, sponsorizzati dalla Prudential Insurance Company of America e operante in Europa centrale e dell’Est. (…) Soros, che aveva investito 3 milioni di dollari presso RILA e un altro milione nel 2001 (…) rimaneva il detentore maggioritario.”(54)
Risolvere i Problemi

Le sue pretese alla filantropia conferiscono a Soros il potere di modellare l’opinione pubblica internazionale, quando un conflitto sociale solleva la questione di sapere chi sono le vittime e chi sono i colpevoli. In altre ONG, Human Rights Watch, i portavoce di Soros riguardo i diritti dell’uomo, evitano o ignorano la maggior parte delle lotte di classe operaie organizzate e indipendenti.

In Colombia, i dirigenti operai sono assai frequentemente assassinati dai paramilitari operanti di concerto con il governo sponsorizzato dagli USA. A causa del fatto che questi sindacati s’oppongono all’economia neo-liberale, HRW conserva a proposito di questi assassini un relativo silenzio. In aprile, José Vivanco, di HRW, ha testimoniato in favore del Plan Colombia davanti al Senato USA(55): “I Colombiani restano privi dei diritti dell’uomo e della democrazia. Hanno bisogno d’aiuto. Human Rights Watch non vede l’inconveniente che nel fornire tale aiuto siano gli USA.”(56)
HRW mette le azioni dei combattenti della guerriglia colombiana, che lottano per liberarsi dall’oppressione del terrore di stato, della povertà e dello sfruttamento, sullo stesso piano della repressione delle forze armate finanziate dagli USA e quelle degli squadroni della morte paramilitari, le AUC (Forze colombiane unite d’autodifesa). HRW ha riconosciuto il governo di Pastrana e i suoi militari, il cui ruolo era di proteggere i diritti della proprietà e di mantenere lo statu quo economico e politico. Secondo HRW, il 50% dei morti civili sono opera degli squadroni della morte tollerati dal governo.(57). La percentuale esatta, in effetti, è dell’80%.(58)

HRW ha convalidato le elezioni nel loro insieme e l’avvento al potere del governo Uribe, nel 2002. Uribe è un perfetto erede dei dittatori latino-americani che gli USA hanno sostenuto in passato, benché sia stato “eletto“. HRW non ha commentato il fatto che la maggioranza degli abitanti ha boicottato le elezioni.(59)

Nei Caraibi, Cuba è un altro oppositore al neo-liberalismo a essere demonizzato da Human Rights Watch. Nel vicino stato di Haiti, le attività finanziate da Soros hanno operato in modo di andare contro le aspirazioni popolari, che hanno fatto seguito alla fine della dittatura dei Duvalier, e hanno destabilizzato il primo dirigente haitiano democraticamente eletto, Jean-Bertrand Aristide. Ken Roth, di HRW, ha utilmente abbandonato Aristide alle accuse USA di essere “antidemocratico“. Per propagandare le sue idee sulla “democrazia“, le fondazioni di Soros hanno tentato a Haiti delle operazioni complementari, assieme a quelle “inconvenienti” per gli USA, come la promozione dell’USAID di persone associate al FRAPH, i famosi squadroni della morte sponsorizzati dalla CIA e che hanno terrorizzato il paese dopo la caduta di “Baby Doc” Duvalier.(60)
Sul sito di HRW, il direttore Roth ha criticato gli USA per non essersi opposti alla Cina con più veemenza. Le attività di Roth comprendono la creazione del Tibetan Freedom Concert, un progetto itinerante di propaganda che ha effettuato una tournée negli USA con musicisti famosi del rock, spingendo i giovani a sostenere il Tibet contro la Cina.(61) Il Tibet è un progetto prediletto della CIA da molti anni.(62)

Recentemente, Roth ha reclamato con insistenza l’opposizione al controllo della Cina sulla sua provincia ricca, in petrolio, del Xinjiang. Con l’approccio colonialista del “dividere per conquistare“, Roth tentò di convincere certi membri della minoranza religiosa degli uiguri, nello Xinjiang, che l’intervento degli USA e della Nato in Kosovo costituiva una premessa e modello per loro stessi. Già nell’agosto 2002, il governo USA aveva sostenuto altri simili tentativi.
Le intenzioni USA, a proposito di queste regioni, sono apparse chiaramente quando un articolo del New York Times sulla provincia di Xinjiang, in Cina occidentale, descriveva gli uiguri come una “maggioranza musulmana vivente nervosamente sotto il dominio cinese“. “Sono ben al corrente dei bombardamenti sulla Jugoslavia della Nato, l’anno scorso, e certi li appoggiano per avere liberato i musulmani del Kosovo; immaginano di potersi liberare nello stesso modo qui“.(63) Il New York Times Magazine, da parte sua, notava che “recenti scoperte di petrolio hanno reso il Xinjiang particolarmente attraente agli occhi del commercio internazionale” e, allo stesso tempo, comparava le condizioni della popolazione indigena a quella del Tibet.(64)
Gli errori di calcolo

Quando le organizzazioni sorosiane fanno i conti, sembrano perdere ogni nozione di verità. Human Rights Watch affermava che 500 persone, e non 2.000, erano state uccise dai bombardieri della Nato durante la guerra in Jugoslavia, nel 1999.(65) Pretendono che 350 persone solamente, e non 4.000, erano morte negli attacchi USA in Afghanistan.(66) Quando gli USA bombardarono Panama nel 1989, HRW affermò nel suo rapporto che “l’arresto di Manuel Noriega (…) e l’installazione del governo democraticamente eletto del presidente Guillermo Endara portava grandi speranze in Panama(…)”. Il rapporto ometteva di menzionare il numero delle vittime.

Human Rights Watch ha preparato il terreno per l’attacco della Nato contro la Bosnia, nel 1993, con false accuse di “genocidio” e stupri di massa.(67) Tale tattica consisteva nel suscitare una isteria politica, necessaria affinché gli USA potessero condurre una loro politica nei Balcani. È stata riusata nel 1999 quando HRW operò come truppa d’assalto nell’indottrinamento per l’attacco Nato alla Jugoslavia. Tutto il bla-bla di Soros a proposito del regno della legge è stata dimenticata in un colpo. Gli USA e la Nato hanno imposto le proprie leggi e le istituzioni di Soros le hanno sostenute.

Il fatto di trafficare nelle cifre, alfine di generare una reazione, è stata una componente importante della campagna del Consiglio delle Relazioni Estere (CFR) dopo l’11 settembre 2001. Questa volta si trattava di 2.801 persone uccise nel World Trade Center. Il CFR si riunì il 6 novembre 2001 alfine di pianificare una “grande campagna diplomatica pubblica“. Il CFR creò una “Cellula di crisi indipendente sulla risposta degli USA al terrorismo“. Soros si univa a Richard C. Holbrooke, Newton L. Gingrich, John M. Shalikashvili (ex presidente dei capi di stato maggiore riuniti) e altri individui influenti, in una campagna mirante a fare delle WTC strumenti della politica estera USA. Il rapporto del CFR si metteva in opera per facilitare una guerra contro il terrorismo. Si possono ritrovare le impronte di George Soros dappertutto, in questa campagna: “bisogna che gli alti funzionari USA spingano amichevolmente gli Arabi amici e altri governi musulmani, non solo a condannare pubblicamente gli attentati dell’11 settembre, ma ugualmente di sostenere le ragioni e gli obiettivi della campagna antiterrorista USA. Noi dobbiamo convincere i popoli del Medio oriente e dell’Asia del Sud, della legittimità della nostra causa, se i loro governi restano silenziosi. Dobbiamo aiutarli a evitare i ritorni di fiamma che possono emanare tali dichiarazioni, ma dobbiamo convincerli d’esprimersi con voce viva. (…) Incoraggiate i musulmani bosniaci, albanesi e turchi a rivolgersi verso un pubblico estero per far rilevare il ruolo degli USA nel salvataggio dei musulmani di Bosnia e del Kosovo nel 1995-1999, affinché i nostri legami con i musulmani nel mondo intero siano più stretti e di lunga durata. Impegnate gli intellettuali e i giornalisti del paese a prendere la parola e a puntualizzare il proprio punto di vista. Informate regolarmente la stampa regionale in tempo reale per incoraggiare delle risposte rapide. (…) Insistete sulla necessità di fare riferimento alle vittime (e citate queste ultime per nome alfine di meglio personalizzarle) ogni volta che discutiamo dei nostri motivi e dei nostri obiettivi.”(68)
In Breve, le deficienze sorosiane nei calcoli servono a vantare e a difendere la politica estera USA.

Soros è assai infastidito dal declino del sistema capitalista mondiale e vuole fare qualche cosa a tale proposito, e ora. Recentemente, ha dichiarato: “posso già discernere i preparativi della crisi finale. (…) Dei movimenti politici indigeni sono suscettibili di ritenersi capaci di espropriare le società multinazionali e di riprendere possesso delle ricchezze ‘nazionali’.”(69)
Soros suggerisce seriamente al mondo un piano per sostenere l’ONU. Propone che le “democrazie del mondo dovrebbero prendere le redini e costituire una rete mondiale di alleanze che potrebbero lavorare con o senza l’ONU“.

Se l’uomo era psicotico, si potrebbe pensare che fosse in crisi, in quel momento preciso. Ma il fatto è che l’affermazione di Soros: “L’ONU è costituzionalmente incapace di compiere le promesse contenute nel preambolo della loro Carta” riflette il pensiero delle istituzioni reazionarie del tipo American Enterprise Institute.(70) Benché le menti conservatrici facciano riferimento alla rete di Soros come se fosse di sinistra, sulla questione dell’affiliazione degli USA all’ONU, Soros é esattamente sulla stessa lunghezza d’onda di gente come John R. Bolton, sottosegretario di stato per il Controllo delle Armi e gli Affari per la Sicurezza internazionale, così come, “molti repubblicani del Congresso, credevano che non si dovesse accordare alcun credito al sistema dell’ONU“.(71) La destra condusse una campagna decennale contro l’ONU. Oggi, é Soros che l’orchestra. Su diversi siti web di Soros, si possono leggere delle critiche all’ONU che affermano che sia troppo ricca, che non desidera condividere le sue informazioni, o che è così indebolita che non può fa girare il mondo nel modo appropriato, appropriato almeno secondo George Soros.
Gli stessi articolisti di The Nation, con la reputazione di saperla assai lunga, sono stati influenzati dalle idee di Soros. William Greider, per esempio, ha recentemente scoperto alcune pertinenze nella critica di Soros sull’ONU, affermando che non dovrebbe “accogliere dittatori da paccottiglia e totalitari ne trattarli da eguali“.(72) Questo tipo di razzismo eurocentrico costituisce il nucleo dell’orgoglio smisurato di Soros. Quando afferma che gli USA possono e dovranno dirigere il mondo, è un sostenitore del fascismo mondiale. Da troppo tempo, i “progressisti” occidentali hanno dato carta bianca a Soros. È probabile che Greider e gli altri trovino che l’allusione al fascismo sia eccessivo, ingiustificato e anche insultante.

Ma ascoltate, piuttosto, con orecchio attento, ciò che lo stesso Soros dice: “Nell’antica Roma, solo i Romani votavano. Sotto il capitalismo mondiale moderno, solo gli statunitensi votano. I Brasiliani, no. “(73)

NOTE
1. Dan Seligman, “Life and Times of a Messianic Billionaire“, commentaires, avril 2002.
2. Lee Penn, “1999, A Year of Growth for the United Religions Initiative. ”
3. Seligman.
4. “Sir Karl Popper in Prague, Summary of Relevant Facts Without Comment“.
5. Radio Free Europe/Radio Liberty, Transcaucasia/Central Asia.
6. George Soros, Soros on Soros, Staying Ahead of the Curve (New York: John Wiley, 1995), p.26.
7. “Hedge Funds Get Trimmed“, Wall Street Journal, 1 maggio 2000.
8. Theodore Spencer, “Investors of the Century“, Fortune, dicembre 1999.
9. Jim Freer, “Most International Trader George Soros“, Latin Tradecom, ottobre 1998.
10. Busaba Sivasomboon, “Soros Speech in Thailand Canceled“, information AP, 28 gennaio 2001.
11. Sivasomboon.
12. George Soros, The Asia Society Hong Kong Center Speech.
13. Soros on Soros, op.cit..
14. George Soros, Open Society: Reforming Global Capitalism (New York: Public Affairs, 2000).
15. David Corn, “Bush and the Billionaire, How Insider Capitalism Benefited W“, The Nation, 17 luglio 2002.
16. Soros on Soros, pp.122-25.
17. Agence France-Presse, 8 ottobre 1993.
18. Marianne Yen, “Fund’s Representatives Arrested in China“, Washington Post, 8 agosto 1989, p.A4.
19. Los Angeles Times, 24 novembre 1994, p.ASS.
20. Chrystia Freeland, “Moscow Suspicion Grows: Kremlin Factions Are at Odds Over Policy“, Financial Times (Londra), 10 gennaio 1995.
21. Interfax Russian News, 6 novembre 1999.
22. Irma Dezhina, “U.S. Non-profit Foundations in Russia, Impact on Research and Education“.
23. “FSK Suspects Financing of Espionage on Russia’s Territory“, information AP, 18 gennaio 1995.
24. David Hoffman, “Proliferation of Parties Gives Russia a Fractured Democratic System“, Washington Post, 1 ottobre 1995, p.A27; Margaret Shapiro, “Russian Agency Said to Accuse Americans of Spying“, Washington Post, 14 gennaio 1995, p.A17.
25. Allan Turner, “Looking For Trouble“, Houston Chronicle, 28 maggio 1995, p.E1; Kim Masters, “Where Is Fred Cuny“, Washington Post, 19 giugno 1995, p.D1; Patrick Anderson, “The Disaster Expert Who Met His Match“, Washington Post, 6 settembre 1999, p.C9; Scott Anderson, “What Happened to Fred Cuny?” New York Times Magazine, 25 febbraio 1996, p.44.
26. Scott Anderson, “The Man Who Tried to Save the World: the Dangerous Life and Disappearance of Fred Cuny“, Philanthropy Roundtable, mars/avril 2002.
27. “U.S.Blocks $500M Aid Deal for Russians“, Wall Street Journal, 22 dicembre 1999.
28. Bob Djurdjevic, “Letters to the Editor“, Wall Street Journal, 22 dicembre 1999.
29. Open Society Institute.
30. Connie Bruck, “The World According to Soros“, New Yorker, 23 gennaio 1995.
31. Olga M. Lazin, “The Rise of the U.S. Decentralized Model for Philanthropy, George Soros’ Open Society and National Foundations in Europe“.
32. David Ignatius, “Innocence Abroad: The New World of Spyless Coups“, Washington Post, 22 settembre 1991, p.C1.
33. Patrick McCartney, “Study Suggests Drug Laws Resemble Notorious Passbook Laws“.
34. McCartney.
35. Sean Gervasi, “Western Intervention in the USSR“, CovertAction Information Bulletin, n° 39, inverno 1991-92.
36. “The Cenasia Discussion List“.
37. Bogdan Denitch, “The Case Against Inaction“, The Nation, 26 aprile 1999.
38. “Biographies, 2002 Socialist Scholars Conference“.
39. “Grants“.
40. “East and Central Europe Program“.
41. Oxana Popovitch, “IREX Belarus Opens a New IATP Site in Molodechno“.
42. lan Traynor, “Belarussian Foils Dictator-buster… For Now“, Guardian, 14 settembre 2001.
43. Steven Erlanger, “Kostunica Says Some Backers ‘Unconsciously Work for American Imperial Goals’“, New York Times, 20 settembre 2000; e “Bringing Down a Dictator, Serbia Calling“, PBS.
44. Milosevic in the Hague, Focus on Human Rights, “In-Depth Report Documents Milosevic Crimes“, aprile 2001.
45. “About ICG“, mai 2002.
46. Macedonia Crimes Against Civilians: Abuses by Macedonian Forces in Lluboten, 10-12 agosto 2001.
47. Andrew Leonard. ” The Man Who Bought the World“, 28 febbraio 2002, Salon.com.
48. James Petras, “Imperialism and NGOs in Latin America“, Monthly Review, vol. 49, n° 7, dicembre 1997.
49. International Security Studies, “Herbert Okun“.
50. Leonard.
51. Edward W. Miller, “Brigandage“, Coastal Post Monthly, Mann County, CA, settembre 2000.
52. Mirjan Nadrljanski, “Eco-Disaster in Pancevo: Consequences on the Health of the Population“, 19 luglio 1999.
53. “Soros Fund Launches $150 MIn U.S.Backed Balkans Investment“, Bloomberg Business News, 26 luglio 2000; Chris Hedges, ” Below It All in Kosovo “, New York Times, 8 luglio 1998, p.A4.
54. Galina Sabeva, “Soros’ Sofia IT Firm Gets $9 Million Equity Investment“, Reuters, 23 gennaio 2001.
55. Sul Plan Colombia: Manuel Salgado Tamayo, “The Geostrategy of Plan Colombia“, Covert Action Quarterly, n° 71, inverno 2001.
56. “Colombia: Human Rights Watch Testifies Before the Senate“, Human Rights Watch Backgrounder, 24 aprile 2002.
57. “Colombia: Bush/Pastrana Meeting, HRW World Report 2001, Human Rights News” (New York, 6 novembre 2001).
58. Fairness and Accuracy in Reporting, Action Alert, “New York limes Covering for Colombian Death Squads“, 9 febbraio 2001.
59. Doug Stokes, “Colombia Primer Q&A on the Conflict and U.S. Role“, 16 aprile 2002. Znet.
60. Interpress Service, 18 gennaio 1995. Vedasi anche Jane Regan, AIDing
U.S. “Interests In Haiti“, CovertAction Quarterly, n° 51, inverno 1994-95; e Noam Chomsky, ” Haiti, The Uncivil Society “, CovertAction Quarterly, n° 57, estate 1996.
61. Sam Tucker, Human Rights Watch.
62. John Kenneth Knaus, Orphans of the Cold War (New York, BBS Public Affairs 1999), p.236.
63. Elisabeth Rosenthal, “Defiant Chinese Muslims Keep Their Own Time“, New York Times, 19 novembre 2000, p.3.
64. Jonathan Reynolds (pseudonym), “The Clandestine Chef“, New York Times Magazine, 3 dicembre 2000.
65. “Lessons of War“, Le Monde Diplomatique, marzo 2000; Peter Phillips, “Untold Stories of U.S./NATO’s War and Media Complacency“.
66. Marc W. Herold, “A Dossier on Civilian Victims of United States’ Aerial Bombing of Afghanistan: A Comprehensive Accounting“.
67. “Rape as a crime against humanity“.
68. “Improving the Public Diplomacy Campaign in the War Against Terrorism“, Independent Task Force on America’s Response to Terrorism, Council on Foreign Relations, 6 novembre 2001.
69. William Greider, “Curious George Talks the Market“, The Nation, 15 febbraio 1999.
70. “Oppose John Bolton’s Nomination as State Department’s Arms Control Leader“, Council for a Livable World , 11 aprile 2001.
71. Ibid.
72. Greider.
73. “The Dictatorship of Financial Capital“, Federation of Social and Educational Assistance (FASE), Brazil, 2002.

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Il nuovo piano tariffario tra la Bielorussia, il Kazakistan e la Russia

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Un passo all’indietro, in avanti, verso oriente oppure occidente?

Il vecchio schema sovietico di un’unica tariffa doganale all’interno dello spazio territoriale dell’URSS, a vent’anni dalla sua caduta, sembra essere ritornato ad avere effetto nell’ultimo progetto di integrazione economica tra  Russia, Bielorussia e Kazakistan. Dopo un periodo caratterizzato da una serie di singoli accordi bilaterali, legati a specifiche produzioni e determinati nel tempo, questo nuovo accordo rappresenta un reale risultato per l’attuazione di una zona economica comune nell’area euroasiatica. Il progetto, perciò, racchiude dentro di sè grandi aspettative per il futuro, ma anche una serie di punti interrogativi rispetto agli effetti a lungo termine.

Il nuovo regime tariffario

Il 1 luglio 2010 i leader di Bielorussia, Russia e Kazakistan hanno sottoscritto ad Astana, la capitale del Kazakistan, i documenti per la formazione di un’unione doganale tra i propri Paesi. Questa firma costituisce l’accordo finale, successivo al primo patto economico stretto nel novembre 2009 ed all’entrata in vigore di una tariffa doganale comune, introdotta lo scorso 1 gennaio 2010.

Le nuove tariffe doganali, però, non sono state applicate a tutte le merci. Nell’ottica della crisi economica internazionale, la difesa della produzione nazionale resta una forte priorità per tutti gli Stati che non sono disposti a rinunciarci in nome di un’apertura generale del mercato. Le esportazioni di gas o di petrolio, infatti, non saranno toccate dalle nuove misure, mentre saranno coinvolte le produzioni ad alta tecnologia ed i cosidetti “scambi di materia grigia”, cioè i singoli individui.

La Russia, ad esempio, conserverà i suoi interessi nelle esportazioni energetiche, ma dalla diminuizione delle imposte doganali in Kazakistan riuscirà ad attrarre nuovi acquirenti per la vendità delle proprie automobili.

Maggiori vantaggi, in particolare, si prospettano dal 1 luglio 2011, quando sarà eliminato il controllo alle frontiere russo-kazake, come è già avvenuto per quelle russo-bielorusse.

Oltre ad un miglioramento degli scambi economici tra i Paesi partner, per comprendere l’importanza di questo percorso bisogna inserirlo nel quadro della Comunita Economica Eurasiatica che dall’anno 2000 persegue come obiettivo una maggiore integrazione economica tra gli Stati.

Un accordo  triangolare: primo esperimento verso la costituzione di una zona economica unica tra i membri dell’Eurasec.

Bielorussia, Russia e Kazakistan hanno firmato il proprio accordo in occasione del decimo anniversario dalla nascita della Comunità Economica Eurasiatica. La Comunità è sorta nel 2000, proponendosi come obiettivo la creazione di frontiere doganali, l’elaborazione di un’unica politica economica estera, tariffe e prezzi comuni tra i Paesi membri. Gli aderenti sono: Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Russia e Tadgikistan. Mentre i Paesi osservatori sono: Moldavia, Ucraina, Armenia e la Banca per lo sviluppo europeo. L’intenzione di Russia, Bielorussia e Kazakistan, infatti, è di aprire agli altri membri ufficiali la partecipazione all’unione doganale per dare vita, nel rispetto degli scopi dell’Eurasec, ad un’unica zona economica di libero commercio e con una sola moneta.

Rispetto alla formazione di una valuta universale tra i Paesi membri, in particolare, i leader politici hanno valutato ed immaginato diverse possibilità.

Il presidente del Kazakistan, Nursultan Nazarbaev ha proposto di creare una comune valuta “no-casch”, dal nome evraz (dalla parola russa “Eurasia”). Evraz dovrebbe avere le funzioni dell’antecedente “rublo trasferibile” sovietico che serviva negli scambi per bilanciare i conti nazionali, ma non poteva essere convertito in valuta straniera. Il presidente Medvedev, invece, vede nel rublo stesso la variante ottimale, in quanto l’unica capace di competere con l’euro ed il dollaro.

Il riferimento alla moneta europea non è solo una possibilità, giacchè questa stessa unione doganale nella programmazione del suo percorso in avanti vede l’Unione Europea come un modello.

Immaginare una ripresa in scala eurasiastica del modello di Maastricht, secondo cui un primo nucleo di Paesi ha dato vita ad una “euro zona”, offrendo in una seconda fase la possibilità ad altri di entrare, forse è esagerato. In quest’alleanza tra Stati, infatti, non c’è alcuna volontà di condividere delle competenze politiche.

Rispetto ai riferimenti europei esiste, invece, una certa preoccupazione per un maggiore intervento dell’UE in alcuni Paesi ex sovietici attraverso il  programma ENPI. Questo programma europeo è caratterizzato da una serie di politiche di vicinato e la formazione di una partnership estera tra l’Unione Europea e l’Armenia, l’Adzeirbaijan, la Bielorussia, la Moldavia e la Georgia, oltre ad i Paesi del Nord Africa che si affacciano sul Mediterraneo.

Il programma ENPI, in particolare, ha destato una serie di preoccupazioni in Russia giacchè prevede, tra i cosiddetti “scopi eventuali”: la formazione di un’area di integrazione economica, una spazio non soggetto ai controlli VISA e la cooperazione nel campo della produzione energetica.

La paura dell’attuazione di questi obiettivi ha rappresentato per la Russia una base motivazionale adeguata per dare una forma più stabile e definita a tale piano doganale. Rispetto ai tanti accordi commerciali precedenti, infatti, si percepisce la ferma volontà russa di rivendicare uno storico diritto di priorità nella gestione delle relazioni economiche internazionali dell’area. Al raggiungimento dell’efficacia e validità di questo diritto, in particolare contribuirebbe l’eventuale entrata di altri Paesi membri dell’Eurasec, primo fra tutti, il Kirghizistan, Stato i cui sconvolgimenti politici interni hanno destato il sorgere di nuove mire geopolitiche.

Il Kirghizistan: nuovo scenario di incontro e scontro internazionale.

A cinque anni dalla rivoluzione dei tulipani, che aveva portato al potere il filo-americano Bakiyev, ancora una volta in Kirghizistan lo scoppio di una rivolta popolare ha influito nell’assegnazione della guida del Paese ad un leader del fronte di opposizione, vale a dire la signora Otunbaeva.

L’attenzione internazionale rivolta ai disordini politici interni di questo Paese è direttamente collegata alla sua posizione geografica, alle risorse minerarie ed alla presenza di basi militari.

Il Kirghizistan confina a settentrione con il Kazakistan, membro appunto della suddetta unione doganale, ed ad est con la Cina. Per gli altri confini, invece, è abbracciata dall’Uzbekistan e dal Tadjikistan, con cui si incontra nella valle di Ferghana che copre tutti e tre i Paesi.

Sotto il territorio kirghizo c’è una ricchezza molto preziosa: petrolio, oro, uranio ed antinomio. Le miniere di oro, in particolare, sono gestite dall’agenzia nazionale Kyrgyzaltyn in associazione con alcune società straniere, tra cui la più importante è la canadese Centerra Gold.

Oltre alla presenza economica esterna c’è quella militare: sia gli Stati Uniti sia la Russia hanno una propria base. Quella statunitense è di supporto alla guerra contro il terrorismo condotta in Afganistan, quindi fa parte della strategia di controllo dell’Eurasia. Quella russa è legata agli interessi geopolitici nella zona, in particolare, risulta essere una sede necessaria per controllare i legami tra Cina e Kirghizistan.

La Cina ed il Kirghizistan sono entrambi componenenti dell’Organizzazione del Trattato di Cooperazione di Shanghai, alla quale appartiene anche la Russia, ma soprattutto la potenza cinese è dipendente dal Kirghizistan per il rifornimento di petrolio. Lo scorso anno, inoltre, sotto la presidenza di Bakijev, la Cina ha annunciato una serie di investimenti nel campo dei trasporti in Kirghizistan, in modo da velocizzare i rapporti economici e commerciali tra i due Paesi. Queste misure, in particolare, sono state predisposte durante l’incontro dell’ottobre 2009 tra il premier cinese Wen Jiabao ed il premier kirghizo Igor Ancier V. Chudinov, momento storico perchè non accadeva da sedici anni che un primo ministro del Kirghizistan visitasse la Cina.

L’arrivo al potere del fronte popolare, cioè di un gruppo politico diverso rispetto a quello che aveva gestito precedentemente le relazioni con la Cina, può essere considerato, certamente, un elemento di vantaggio per la Russia e gli Stati Uniti, tanto da sospettare che entrambe avrebbero avuto interessi nel pilotare la rivolta.

Gli Stati Uniti, protagonisti della salita al potere di Bukayev, non hanno accolto positivamente la recente intensificazione delle relazioni con la Cina. La conoscenza pregressa della Otunbaeva, già ambasciatore kirghiso negli Stati Uniti, ha influito nell’assunzione di una posizione di neutralità davanti alle rivolte nel rispetto dell’esperienza “tulipana” precedente, ma senza disdegnare completamente la notizia del suo arrivo. Il presidente Medvedev, invece, ha inviato una serie di aiuti umanitari dando tutta la disponibilità a collaborare, quando sarebbero state create forme di governo stabile. Una collaborazione che si inserisce nella volontà generale di essere presente in quell’area territoriale e che si collega ad una nuova ripresa dei rapporti tra Russia ed Uzbekistan.

Per questo, lo scorso luglio 2010, l’annuncio della Otunbaeva di essere disponibile, qualora ci siano le giuste condizioni di equilibrio nel proprio Paese, ad entrare nell’unione doganale, costituisce un segnale di decisivo avvicinamento russo. Gli interessi geopolitici, però, non sono gli unici della Russia. A quelli si aggiungono alcuni di natura economica. L’adesione del Kirghizistan all’unione doganale, essendo già membro del WTO, potrebbe rappresentare una spinta in avanti per l’accesso degli altri membri alla tanto ambita organizzazione mondiale del commercio.

Conclusioni

L’Unione Doganale costituisce un’interessante estensione degli interessi economici della Russia nell’ex area sovietica, ma non deve essere considerata come un progetto di rafforzamento economico a sé stante.

L’esperimento è una soluzione temporanea, l’obiettivo di entrare nel WTO continua ad essere presente. Se l’Uzbekistan e l’Ucraina sono già Paesi osservatori nella suddetta organizzazione, la Russia, Bielorussia e Kazakistan hanno davanti a sé un percorso molto più difficile prima di arrivare alla meta finale soprattutto facendo richiesta di accesso come unione doganale. Una richiesta di questo tipo e non più come singoli Stati, secondo il regolamento del WTO è esclusa. L’articolo 12 del suddetto regolamento prevede che oltre ai singoli Stati possono fare richiesta di accesso “territori doganali separati aventi piena autonomia nella gestione delle relazioni commerciali esterne”. Caratteristica che non appartiene a quest’entità, in cui ciascun Stato è autonomo rispetto agli altri nelle politiche di commercio, di gestione del diritto di proprietà intellettuale, nei servizi, nella salute e la sicurezza. Un’eventuale attesa per l’avvio di un processo eccezionale di inosservanza dell’articolo 12 e di apertura a tale unione, comporterebbe altri anni di attesa dopo i tanti già scontati.

La Russia, invece, troppo concentrata a risolvere le violazioni che le impediscono l’accesso, non tiene conto di tale articolo. Ad esempio secondo Milovzorov Andrei, giornalista di una rivista russa, la Russia ogni anno destina un sovvenzionamento di 9 miliardi di euro agli agricoltori, contro una media generale dei Paesi del Wto di 3 miliardi. Visto che il contributo di tale natura elargito dagli altri membri doganali è alquanto minore, la Russia si è illusa che un eventuale calcolo come unione e non come singolo le garantirebbe l’entrata velocemente.

Il progetto di unione, a quanto sembra piucchè concedere uno sconto, ritarderebbe l’entrata visto che la procedura di accoglimento di tre soggetti insieme è molto più piena di ostacoli che singolarmente. La Russia, inoltre, non ne avrebbe così bisogno, visto che il presidente americano Barack Obama, ha già annunciato il suo impegno affinché entro il 30 settembre 2010 siano risolte tutte le questioni ritardanti l’accesso russo, trascurando appunto il criterio agricolo.

Il progetto di unione doganale è un’idea positiva per gli interessi economici della Russia nell’area euroasiatica, ma Medvedev dovrà stare attento che non si trasformi in un ulteriore ritardo simile al conflitto con la Georgia che, durante l’agosto 2008, bloccò il processo di integrazione russo nel WTO.

*Luciana Marielle Ranieri, dott.ssa in Relazioni Internazionali (Università degli Studi di Napoli “L’Orientale”).

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Francia e Australia: verso un nuovo equilibrio del Pacifico

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E’ entrato in vigore lo scorso 25 agosto un accordo bilaterale fra Francia e Australia in materia di cooperazione militare e di difesa. Tale intesa permetterà ai due Stati di rivedere le proprie prospettive geopolitiche ed è destinato, evidentemente, ad incidere sui rapporti di forza fra i Paesi presenti nell’area del Pacifico. Questa, infatti, si presenta oggi come uno spazio in cui gli equilibri di potenza sono ancora in fase di definizione a causa della presenza e degli interessi degli Stati Uniti, delle crescenti influenze da parte degli Stati asiatici – Cina in primis, ma anche Giappone e Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale, che aspirano ad assumere un ruolo determinante – e a causa delle strategie di una media potenza come l’Australia, la quale sul piano internazionale è legata alle più importanti realtà politico-economiche ed è impegnata sui principali scenari di crisi mondiali, e, al tempo stesso, è orientata a perseguire i propri interessi all’interno del Pacifico grazie all’inserimento in strutture di integrazione regionale e in quelle di cooperazione strategica e militare volte allo sviluppo economico e alla sicurezza nel Pacifico. In questo contesto multipolarizzato anche la Francia – ultimo interlocutore europeo in uno spazio extra-europeo grazie alla presenza dei suoi Dipartimenti e Collettività d’Oltremare (Polinesia Francese, Nuova Caledonia, Wallis e Futuna) – intende svolgere un ruolo di primo piano, affermandosi come potenza regionale capace di affiancarsi e concorrere, come nelle sue più grandi aspirazioni, con le altre potenze mondiali.

L’accordo di cooperazione militare

Le relazioni fra Francia e Australia nella regione del Pacifico – strette ma controverse fino alla metà degli anni Novanta a causa, prima, delle rivendicazioni del movimento indipendentista del “Front de Libération Nationale Kanak at Socialiste” (FLNKS) in Nuova Caledonia e, successivamente, a causa dei programmi di sperimentazione nucleare francese negli atolli di Moruroa e Fangataufa (conclusisi nel 1996) – hanno certamente avuto un salto di qualità grazie al nuovo accordo. L’“Agreement between Australia and France regarding Defence Cooperation and Status of Forces”, valido per un periodo iniziale di vent’anni, rappresenta, infatti, il quadro legale dei programmi di cooperazione in materia di sicurezza già da tempo in atto nel Pacifico – in primo luogo il FRANZ (un accordo del 1992 tra Francia, Australia e Nuova Zelanda) nel settore della cooperazione umanitaria e della sorveglianza marittima – e che ora si estendono ad una varietà di settori: oltre allo status delle forze francesi presenti nei territori australiani e viceversa, l’accordo riguarda anche la condotta delle operazioni e delle esercitazioni militari, i piani di supporto logistico – in particolare il “Mutual Logistic Support Arrangement” (MLSA), che consentirà all’Australia di usufruire delle basi francesi posizionate in Nuova Caledonia e alla Francia di accedere alle basi australiane –, attività volte a migliorare l’interazione fra le rispettive culture militari, la cooperazione nel settore tecnico e scientifico e lo scambio di informazioni militari e mappe geospaziali, in primo luogo quelle tracciate dall’“Organizzazione di Difesa per le Immagini Geospaziali” (DIGO) riguardanti Vanuatu, le Isole Salomone, Timor-Est e altre isole dell’Oceano Pacifico. Inoltre, l’intesa apre la via per uno scambio di materiale e mezzi militari: l’Australia è infatti il secondo acquirente nel mondo degli armamenti francesi e l’“Organizzazione Australiana di Difesa Materiale” (DMO) e la “Délégation Général Pour L’Armement”, sulla base dell’accordo, stanno sviluppando delle forti relazioni finalizzate all’introduzione nell’esercito e nella flotta australiane di elicotteri, aerei e torpediniere. Infine, l’accordo permetterà alle forze di polizia presenti nelle isole Vanuatu, Tonga e Papua Nuova Guinea di collaborare con la Francia e l’“Australian and New Zealand Army Corps” (ANZAC) e all’Australia e alla Nuova Zelanda di partecipare alle esercitazioni militari delle forze francesi operanti in Nuova Caledonia (“Les Forces armées en Nouvelle-Calédonie”, FANC).

Infatti, l’accordo comporterà il rafforzamento militare da parte della Francia di Nuova Caledonia, la quale diventerà la base principale per la cooperazione fra Parigi e Canberra e, soprattutto, come vedremo, il cuore della strategia francese nel Pacifico.

La prospettiva australiana

Nell’ottica dell’Australia, l’accordo di cooperazione con la Francia costituisce un importante tassello nei rapporti regionali e internazionali che i governi di Canberra hanno allacciato negli ultimi decenni: non solo il dialogo instaurato con i Paesi dell’“Asia-Pacific Economic Cooperation” (APEC) e la sempre più stretta collaborazione con i paesi dell’ASEAN con i quali partecipa all’“East Asia Summit” (EAS), ma anche il consolidamento dei tradizionali rapporti con le democrazie occidentali e, soprattutto, con gli Stati Uniti. Questi, iniziati con la formazione dell’ANZUS (il patto di difesa fra Australia, Nuova Zelanda e USA), sono stati rinforzati sul piano internazionale grazie alla partecipazione militare in Iraq e in Afghanistan e all’impegno congiunto nella lotta al terrorismo e, sul piano regionale, grazie all’inserimento dell’Australia nell’“United States Pacific Command” (USPACOM), la struttura preposta alla salvaguardia della sicurezza e della stabilità nell’area del Pacifico, e in futuro nella “Trans-Pacific Partnership” (TPP).

L’accordo di cooperazione difensivo con la Francia, dunque, mette Canberra in grado di intensificare la lotta alla pirateria, alla proliferazione nucleare e delle armi di distruzione di massa e al terrorismo – lotta intrapresa dopo l’attentato all’ambasciata australiana a Jakarta –, sia in grado di inserirsi nei meccanismi di intelligence occidentali e di rafforzare il proprio apparato militare anche in vista del proprio impegno sugli scenari di crisi mondiali. Questo potenziamento militare, non di meno, permetterà all’Australia di porsi, sul piano internazionale, come uno dei principali interlocutori politici e, sul piano regionale, come un solido alleato – ma, probabilmente, non come un leader –  per fronteggiare innanzitutto il progressivo espansionismo militare della Cina nel Mar Cinese meridionale e nel Pacifico e per garantire in tal modo la sicurezza e la stabilità del Pacifico. Quest’area, infatti, resta una prerogativa degli Stati Uniti, in cui cerca di inserirsi la Francia grazie al suo potenziale militare.

La prospettiva francese

L’accordo è stato stipulato in un momento di importante rinnovamento delle forze armate francesi e di avvio di una nuovo corso di politica estera dopo le ultime elezioni presidenziali. Nel 2008, sulla scia delle nuove linee direttive impresse da Sarkozy, fu, infatti, pubblicato il “Libro Bianco sulla Difesa Francese” (“Le Livre blanc de défense et sécurité nationale”) con lo scopo di ridefinire le priorità della rete militare francese, anche all’interno dei Paesi del Pacifico – sia le cosiddette “forze sovrane”, presenti nei Dipartimenti d’Oltremare, sia le “forze di presenza”, posizionate nei Paesi alleati nella regione del Pacifico e di importanza strategica –, riducendo il numero degli apparati difensivi e razionalizzando le basi militari.

Eppure Nuova Caledonia è stata relativamente toccata da questi tagli, sia dal punto di vista delle capacità operative, sia dal punto di vista del numero delle truppe, poiché saranno mantenuti e rafforzati i punti strategici già esistenti: la base militare di Nandai, il quartier generale di Pointe Artillerie, la caserma Gally-Passebosc a Noumea, la base navale di Pointe Chaleix, la base aerea di Tontouta.

In effetti, da questo rafforzamento militare reso possibile anche dall’accordo con l’Australia, la Francia spera di raggiungere alcuni obiettivi importanti e che sono perfettamente in linea con le strategie attuate dalla presidenza Sarkozy.

Con la pubblicazione del Libro Bianco di Difesa e, soprattutto, con il reintegro nella NATO, Parigi è sembrata solo apparentemente allontanarsi dalla politica di indipendenza e autonomia e dal sogno di “Grandeur” e di potenza globale che l’aveva caratterizzata fino alla presidenza di Chirac, riavvicinandosi agli Stati Uniti. Eppure, proprio il potenziamento militare nei Dipartimenti d’Oltremare sottolinea quanto la politica estera francese sia più in continuità che in rottura con il passato. La strategia in atto nel Pacifico è il sintomo, infatti, della volontà di ricollocarsi significativamente sullo scenario internazionale, di poter concorrere – data l’imponenza del suo apparato militare – con le altre potenze mondiali e di voler ricostruire nell’ultimo territorio in cui mantiene propri possedimenti un nuovo “colonialismo”, che non risponde più al colonialismo degli Stati occidentali del primo Novecento, ma che significa riuscire a tessere un nuovo quadro politico-economico, grazie alla presenza militare, al fine di diventare l’attore principale ed indispensabile per garantire lo sviluppo, la sicurezza e la stabilità di un’area altamente strategica.

La sicurezza del Pacifico sarebbe determinata nell’ottica della Francia, infatti, dalla sua capacità di mantenere il controllo e l’influenza sulla miriade di isole che costellano l’Oceano e, non di meno, dalla capacità di dialogare con ASEAN, Giappone, Australia, Cina e, soprattutto, Stati Uniti come partner alla pari. Proprio il rientro nella NATO offrirà alla Francia la possibilità di influenzarne le politiche grazie all’apporto in termini finanziari e di truppe e la possibilità di porsi come interlocutore fondamentale per gli USA, sia evidentemente nel Pacifico – area che rappresenta per gli USA uno spazio di interessi vitali e di equilibri internazionali –, sia indirettamente anche in Europa. Infatti, questa strategia farebbe anche in modo che la Francia sia il primo Stato europeo ad essere influente a livello regionale e in futuro anche globale, finanche più della Gran Bretagna, che mantiene sotto una rinnovata veste il Commonwealth, e della Germania. In questo senso, infine, la Francia avrebbe la possibilità di rilanciare e sviluppare finalmente quell’agognata Politica Estera di Sicurezza e Difesa (PESD) europea sotto il segno indiscusso di Parigi capace non di contrastare, ma di bilanciare gli Stati Uniti e di affermarsi anche sugli scenari internazionali più delicati.

La  politica di avvicinamento e bilanciamento degli USA, l’obiettivo di realizzare un’Unione Europea sotto la guida della Francia e, soprattutto, la meno immediata e più sottile strategia di leadership nel Pacifico, rispondono dunque allo stesso obiettivo della Francia di rilanciarsi a livello globale. Ma proprio questo ambizioso progetto nell’area del Pacifico riuscirà ad essere concretizzato? E quali sono le condizioni che potranno realizzare quest’equilibrio?

Il futuro quadro del Pacifico

La situazione di Nuova Caledonia si presenta certamente come lo scenario più difficile da ipotizzare. Gli “Accordi di Matignon-Oudinot” (1988) – che ponevano fine agli scontri tra le forze indipendentiste del FLNKS e la polizia francese – e, soprattutto, l’“Accordo di Noumea” avevano permesso la creazione di nuove strutture politiche all’interno dell’isola, avevano conferito al governo di Noumea autonomia politica in diversi settori e avevano dato avvio ad un processo di decolonizzazione che avrebbe condotto ad un referendum per l’indipendenza da tenersi il 2014. Come potrà essere, quindi, giustificata la presenza militare francese in Nuova Caledonia? Probabilmente l’indipendenza potrebbe essere ulteriormente rinviata e il futuro assetto dell’isola, nonché anche la riuscita e l’implementazione dell’accordo di difesa, dipenderà dalla decisione dell’Australia di supportare il dispiegamento militare della Francia nel territorio in questione. Il ruolo che Australia e Nuova Zelanda giocheranno nei prossimi anni sarà vitale per il processo di riappacificazione e di integrazione di Nuova Caledonia nella regione del Pacifico, così come per la definizione degli equilibri.

Bisognerà, infatti, attendere di vedere come l’Australia sfrutterà la sua accresciuta posizione a livello regionale e come gestirà la sua presenza nell’APEC e, soprattutto, le sue relazioni con gli Stati Uniti. Saranno gli USA disponibili a lasciare tanto ampio spazio di manovra alla Francia? D’altra parte, tuttavia, è anche vero che gli USA non vorranno incrinare un rapporto che si sta ricucendo e che è fondamentale per l’apporto di contingente alla NATO.

Infine, il successo della Francia dipenderà anche dall’andamento delle sue relazioni con la Cina, dalle strategie – anche militari – che Pechino attuerà nel Pacifico e dai rapporti che Pechino stesso intrattiene con i Paesi dell’ASEAN e con gli Stati Uniti. Non di meno, una Francia più forte in Europa e nella politica estera europea permetterebbe, in questo senso, a Parigi di diventare un attore importante nei rapporti bilaterali e multilaterali sia su scala regionale che globale.

In conclusione si può ritenere che la Francia ha i mezzi – costruiti negli anni di via autonoma al sistema bipolare – per affrontare un progetto così ambizioso. Ma, molto più realisticamente si può supporre che il Pacifico rimarrà ancora per molto tempo uno spazio multipolarizzato, test per i rapporti di forza bilaterali e multilaterali e scenario per un’esperienza significativa di gestione di mondo globalizzato. Eppure, all’inizio del Novecento il senatore americano Samuel Beveridge affermava che “chi domina il Pacifico domina il mondo”. Quindi è lecito anche immaginare che le dinamiche geopolitiche di questo spazio possano ancora cambiare.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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