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Aumenta la presenza statunitense in America Latina: è il turno del Costa Rica

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Lo scorso 1 luglio il Parlamento del Costa Rica ha rinnovato l’accordo con gli Stati Uniti, come ogni anno ormai dal 2000, per la lotta contro il narcotraffico e per la realizzazione di operazioni militari e azioni umanitarie nella regione, per il periodo compreso tra il 1 luglio e il 31 dicembre 2010. L’accordo, approvato con 31 voti a favore e 8 contrari, è inserito nel capitolo Sicurezza del Trattato di Libero Commercio (TLC) firmato tra gli Stati Uniti e il piccolo Paese centroamericano.

La definizione dell’accordo ha sollevato non poche perplessità soprattutto in considerazione del fatto che, come è stabilito nella Costituzione costaricana, il Paese non possiede un esercito e vieta la presenza di forze armate straniere nel proprio territorio, proclamando la nazione una zona di pace. Di fatto, a seguito dell’entrata in vigore dell’accordo, la sproporzionata e massiccia presenza militare statunitense dispiegata nel Paese centroamericano sembra essere una parte di un piano di espansione militare degli Stati Uniti nel tentativo di aumentare la propria egemonia e controllo nella regione latinoamericana.

L’accordo è stato fortemente criticato in ragione delle differenze rispetto a quelli siglati in precedenza. È stato, infatti, previsto un aumento dell’equipaggiamento militare fissando la possibilità di ingresso di 7.000 marines statunitensi con immunità diplomatica, 46 navi da guerra, 200 elicotteri, 10 aerei da combattimento Harrier e una portaerei. In secondo luogo, il Presidente costaricano Laura Chinchilla ha annunciato la sua intenzione di rivedere gli accordi anti-droga sottoscritti con Washington per ampliarli alla vigilanza marittima, oltre che aerea.

La notizia del rinnovo dell’intesa, diffusa nello Stato costaricano con ritardo rispetto all’approvazione dello stesso, ha provocato numerose polemiche sia all’interno del Paese, che nel 1948 per opera dell’allora presidente Jose Pepe Figueres è stato abolito l’esercito e sono stati proclamati la neutralità e il disarmo come valori fondamentali della cultura costaricana, sia nella regione latinoamericana, che da sempre ha visto con sospetto qualsiasi dispiegamento del potere militare statunitense.

Una prima riflessione può esser fatta in merito alle caratteristiche dei mezzi che verranno dispiegati nel territorio. Secondo quanto riportato dalla stampa locale, la maggior parte delle navi da guerra sono lunghe circa 135 metri, capaci di trasportare 2 elicotteri artigliati SH-60 o HH-60B Blackhawk. Sono inclusi anche navi e una portaerei (lunga circa 258 metri), come l’USS Making Island, che oltre ad essere in grado di trasportare 102 ufficiali e 1500 marines, sono preparati per un eventuale combattimento intensivo. Infine, è stato autorizzato l’ingresso di sottomarini e veicoli da combattimento, con capacità operativa via terra e via mare, e navi USS Freedom, in grado di combattere contro dei sottomarini.

Alla decisione del governo si sono opposti l’opinione pubblica e i partiti di opposizione che hanno definito la misura come “un’occupazione militare”, illegale e violante la sovranità della nazione, convertendo il territorio in un obiettivo militare. L’opposizione politica, e in particolare Luis Fishman, deputato del Partito Unità Sociale Cristiana (PUSC, centro destra) ed ex ministro della Sicurezza, ha presentato ricorso presso la Corte Costituzionale contro l’autorizzazione presa dal Parlamento perché il timore ultimo è che in virtù di questa sarà possibile trasformare il Paese nella più grande base navale statunitense al mondo.

Le critiche provenienti dagli altri Paesi della regione latinoamericana, prime fra tutte quelle del presidente venezuelano Hugo Chávez, hanno puntato l’accento sul fatto che il permesso concesso dall’Assemblea Legislativa costaricana comporterà l’installazione di vere e proprie basi militari. L’obiettivo annunciato è combattere il narcotraffico, ma in realtà ci sono buone ragioni per credere che si tratti di azioni volte a destabilizzare la regione.

L’intesa costaricana-nordamericana è stata oggetto di critiche non solo in ragione della natura neutrale del Paese, ma soprattutto perché il Costa Rica non ha un volume di produzione di droga paragonabile a quello del Perù e della Colombia, e quindi se questo non è definibile una minaccia regionale, per quale motivo è stato necessario dispiegare un quantitativo di armi e soldati di tale entità?
Il susseguirsi degli eventi verificatesi dall’anno scorso a oggi permette di arrivare alla conclusione che la strategia degli Stati Uniti, basata sulla stipulazione di accordi per la lotta contro il narcotraffico, è un modo sia per riacquisire la propria egemonia nella regione latinoamericana sia per accerchiare militarmente il Venezuela, principale nemico della regione.

Alla fine del 2008 è stata riattivata la IV Flotta per rinforzare il Comando Sud degli Stati Uniti che supervisiona l’America Latina in caso di crisi. Nell’ottobre del 2009 gli Stati Uniti firmano un accordo militare con la Colombia, che permette a Washington di usare sette basi militari colombiane, oltre qualsiasi altra installazione militare necessaria per il raggiungimento delle operazioni e missioni statunitensi in Sudamerica. La questione sin da subito divise i Paesi della regione soprattutto in ragione della scoperta di un documento ufficiale dell’Aereonautica statunitense, datato maggio 2009, in cui si sostiene che la presenza nordamericana in Colombia è necessaria per eseguire operazioni militari di ampio raggio in tutto il continente. In aggiunta, il documento riportava che dalla Colombia le forze statunitensi combatteranno la costante minaccia proveniente dai governi anti statunitensi nella regione, facendo riferimento implicito ai vicini di Bogotà quali il Venezuela, l’Ecuador e la Bolivia considerati come avversari.
Negli ultimi quattro anni, inoltre, Washington ha aumentato la presenza militare nelle isole di Aruba e Curazao, che si trovano a meno di 70 chilometri della costa venezuelana, nelle quali dal 1999 mantiene delle piccole basi come Posti per Operazioni Avanzate (Puestos de Operaciones Avanzadas, FOL). E ancora: a Panama alla fine del 2009 è stata approvata l’installazione di 4 basi militari e, infine, dopo il terremoto di Haiti in gennaio, 20.000 sono i marines statunitensi inviati, quantità definita sproporzionata nel piccolo Paese caraibico, il quale in questo modo è stato convertito in un grande piattaforma militare.

Da ciò si evince che la relazione di egemonia o di dominazione instaurata dagli Stati Uniti in America Latina, in ultima istanza, è mantenuta con la forza militare, anche se solo in maniera potenziale.

A fronte di questo aumento della presenza statunitense nella regione si registrano due tendenze: da un lato, si è assistito a una maggiore dinamicità di alcuni Paesi (il Brasile ad esempio), che si è tradotta in un incremento delle relazioni economiche con l’Europa, la Russia, la Cina e con altri Paesi che sono visti con ostilità dalla Casa Bianca, prima fra tutti l’Iran (si ricordi l’accordo sul nucleare, firmato il 17 maggio scorso fra Brasile, Turchia e Iran); dall’altro, si è riscontrato un rafforzamento dei meccanismi di integrazione politica ed economica regionale, tra questi in particolare l’ALBA e l’UNASUR, che minacciano l’egemonia nordamericana, così come era già stato segnalato espressamente nel documento dell’Aereonautica del 2009.

Quale l’obiettivo statunitense? La risposta può essere trovata nel documento dell’Aereonautica poc’anzi menzionato: lo scopo della presenza militare è migliorare la capacità degli Stati Uniti di rispondere più rapidamente a un’eventuale crisi e, allo stesso tempo, assicurare il facile accesso alla regione a un costo minimo.

Accanto a questi processi, bisogna tenere in considerazione una serie di avvenimenti, sempre legati all’aumento dell’egemonia statunitense nella regione, che non hanno richiesto la loro diretta partecipazione. Innanzitutto, il colpo di Stato verificatosi in Honduras nel giugno del 2009 che depose il Presidente Manuel Zelaya, in cui si è assistito a un atteggiamento variabile nordamericano: da espressioni di disapprovazione poco convincenti per l’accaduto, alla parodia della negoziazione, per finire all’appoggio al governo ad interim di Micheletti impostosi con il Colpo di Stato. A prescindere dalle voci che furono diffuse circa una possibile partecipazione nordamericana al Golpe, quest’ultimo ha avuto in ogni caso l’effetto desiderato: non solo disfarsi Zelaya, alleato del Presidente venezuelano Hugo Chávez, ma anche inviare un messaggio alla regione con cui si sottolineava la partecipazione statunitense alle vicende latinoamericane. Attraverso il Golpe, il Centro America, che sembrava stesse cominciando ad allinearsi verso i processi di integrazione regionale, è tornato ad schierarsi con Washington. Sia il Presidente Funes in El Salvador sia il Presidente Colom in Guatemala, che mesi fa avevano manifestano la loro intenzione di avvicinarsi all’ALBA, hanno preso le distanze, forse al fine di evitare una sorte simile a quella di Zelaya.
Altro fatto da tenere in considerazione riguarda l’Accordo di Sicurezza tra la Colombia e l’Honduras entrato in vigore lo scorso febbraio, che ha come obiettivo la lotta contro il terrorismo e il narcotraffico, in termini per nulla differenti rispetto a quelli proclamati da Washington. A questo quadro, se si aggiunge il rafforzamento del Plan Merida, iniziativa avviata per la “Guerra contro le droghe” in Centro America e Messico, si ottiene il panorama completo dell’aumento della presenza politica e militare degli Stati Uniti nella regione latinoamericana.

Concludendo, è possibile affermare che il rinnovo dell’accordo tra il Costa Rica e gli Stati Uniti è parte integrante della strategia nordamericana volta ad acquisire importanza in un regione come quella latinoamericana in cui i meccanismi di integrazione regionale stanno dando i loro risultati. Si assiste, infatti, da un lato a una maggiore indipendenza e autonomia delle nazioni latinoamericane, e dall’altro alla presenza di Paesi, primi fra tutti il Brasile e il Venezuela, che sono in lotta per il raggiungimento di una leadership regionale.

* Valeria Risuglia è laureata in relazioni iinternazionali presso l’Università Luiss Guido Carli di Roma

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La visita in India del primo ministro britannico Cameron – Molto rumore per nulla

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Gli ultimi successori della Compagnia delle Indie Orientali a Londra, dopo aver colonizzato e saccheggiato la nazione indiana non hanno nascosto il loro obiettivo “chiedere soldi all’India”. Il premier britannico David Cameron non ha fatto mistero di cio’. “ Il potere economico si sta spostando – in particolare verso l’Asia – cosi la Gran Bretagna deve faticare il doppio di prima per guadagnarsi da vivere nel mondo. Non mi vergogno di dire che questa e’ una delle ragioni per le quali mi trovo in India”. Questo forse e’ cio’ che disse la Compagnia delle Indie Orientali nel Mogul e in altre corti imperiali nel 17esimo secolo. Primo Ministro di un’economia di veloce ridimensionamento, Cameron ha portato in India la piu’ grande delegazione ufficiale dopo l’indipendenza. Ma in seguito, Washington ha sostituito Londra nelle priorita’ e nell’affetto. La visita di Hilary Clinton, Segretario di Stato USA, per esempio, ha avuto un clamore mediatico per tutti e cinque i giorni della sua visita, mentre la visita di Cameron non ha avuto grande pubblicita’, neanche da parte dei soliti sospetti.
Era piu’ di un decennio che un membro del partito conservatore non visitava l’India. Le relazioni durante gli anni dei Laburisti non sono state di grande rilievo, eccetto il fatto che i ministri degli Esteri laburisti e altri leaders, avendo gli elettori Pakistani e Mirpuri da accontentare, hanno ferito troppo spesso i sentimenti indiani, soprattutto per quanto riguarda i problemi Indo – Pakistani e la complessa questione del Kashmir. Il ministro degli Esteri Robin Cook e’ divenuto particolarmente impopolare per le sue frequenti dichiarazioni sul Kashmir. Solo lo scorso anno un maldestro e non diplomatico, allora Ministro degli Esteri, David Miliband, sperando di diventare il prossimo leader laburista, ha avuto il coraggio di suggerire, in terra indiana, che per fermare le attivita’ terroristiche pakistane l’India avrebbe prima dovuto risolvere il problema del Kashmir ( creato inizialmente dalla perfida Albione ). Egli sarebbe dovuto essere stato boicottato e portato fuori dall’India per le orecchie.
Washington e Londra trovano un Primo Ministro indiano molto ricettivo in Manmohan Singh, che ha studiato ad Oxford con una borsa di studio ed e’ rimasto sempre molto grato per questo ( quando e’ stato insignito di un dottorato d’onore nel 2005, MM Singh ha elogiato l’era coloniale britannica come un bene per l’India, provocando, giustamente, la rabbia del partito all’opposizione Bhartiya Janta e altri ). Plaudendo alla “ illustre carriera politica” e al “forte impegno personale” di Cameron, per aver portato la relazione tra India e Regno Unito a un maggiore livello di comprensione, MM Singh ha dichiarato che l’India condivide la stessa visione di una nuova e piu’ forte relazione tra i due paesi. Singh continua: “Noi abbiamo convenuto su iniziative specifiche nell’area economica e del commercio, e sulla tecnologia, energia, educazione, difesa, cultura e contatti tra le persone.”. Le due parti hanno deciso di istituire un CEO forum India – Regno Unito e un Gruppo per le infrastrutture India – Regno Unito.
“ Noi puntiamo a raddoppiare i rapporti commerciali entro i prossimi cinque anni. Consolidando le esperienze passate, ci siamo anche accordati sull’avvio di una nuova fase dell’educazione e dell’inizitiva sulla ricerca tra Regno Unito e India,” ha aggiunto Singh. Durante il suo soggiorno in India Cameron ha ripetuto la sua promessa per l’elezione al partito Conservatore, di un “rapporto speciale” ( termine usato per la relazione con i capi a Washington ), invece nel discorso di apertura in Maggio al parlamento britannico la regina Elisabetta ha semplicemente usato le parole “partenariato rafforzato”. Infatti, in una recente intervista, il suo ministro degli Esteri William Hague, del partito di coalizione dei Liberal Democratici si e’ astenuto dall’utilizzare quell’espressione. E cosi anche Vince Cable, anch’egli dei Liberal Democratici – partner junior nell’attuale coalizione amministrativa nel Regno Unito- e influente ministro per il business, l’innovazione e capacita’. Egli ha preferito mettere da parte il termine “speciale”. “Noi vogliamo trattare su questo, ma vogliamo affrontare il tutto in maniera realistica e professionale”.
Nessun membro della famiglia Gandhi e’ stato schedulato nel programma ufficiale. Ma per il successo di ogni relazione con l’India l’equazione con Gandhi e’ necessaria.
Il successo piu’ concreto nelle relazioni Indo-Britanniche, e’ stato l’accordo per 700 milioni di pound per l’acquisto di altri 57 erei da addestramento avanzato Hawk dal British Aerospace Systems (BAE) cui Cameron ha assistito a Bangalore. Questa e’ la seconda tranche dell’acquisto da parte dell’India dal 2004 quando si finalizzo’ un accordo per acquistare 66 Hawks dopo 18 anni di negoziati. Cameron si e’ detto entusiasta di assistere alla firma dell’accordo a Bangalore una volta arrivato. “ Questo e’ un esempio imminente del partenariato per la difesa e l’industria tra India e Regno Unito
L’accordo portera’ significanti vantaggi economici ad entrambi. E’ un esempio della nostra nuova politica commerciale estera in atto “, ha aggiunto.

Ripetere gli accordi commerciali della Tata di acquisto di Land Rover, Jaguar e Corus in Regno Unito gli investimenti da record della Vodafone in India per acquistare Hutchison Essar ( operatore di telefonia indiano ) sara’ piu’ difficile che la beffa sul cricket e le differenze sulla creazione della piu’ popolare T-20 League.

Ha scritto Sunanda K Datta-Ray nel Business Standard,: “ Cio’ che Cameron vuole – soprattutto dopo il drammatico calo delle importazioni in India dalla Gran Bretagna – e’ il nostro mercato in pieno sviluppo. Egli e’ sta anche tentando di far si che l’India investa nella difesa e nelle infrastrutture acquistando dalla Gran Bretagna ( gli Hawks sono stati un buon inizio ).
Da qui questo parlare di una “relazione speciale” con la Gran Bretagna il “junior partner”. Ma Cameron non vuole coloni. Egli vuole espatriati. Non come la Caparo di Paul Swraj ma come la Corus di |Tata e la Mittal di Arcelor. Egli desidera che il processo della Compagnia Inglese delle Indie Orientali sia capovolto. Ma sarebbe Cameron in grado di spiegare agli indiani come l’espansione delle compagnie indiane in Gran Bretagna o in ogni altro paese straniero potrebbe aiutare l’economia indiana?

Per il commercio, Cameron ritiene che l’India potrebbe alleggerire alcune restrizioni che scoraggiano gli investimenti. Compagnie come Vodafone, che hanno fatto grandi investimenti in India, soffrono a causa di un regime fiscale distorto che scoraggia gli investitori britannici. La delegazione ha anche fatto un passo in avanti nell’apertura del settore al dettaglio.

Per quanto riguarda il clima, il Primo Ministro Britannico vorrebbe che l’India prendesse impegni maggiori sul controllo delle emissioni. E’ stato criticato il fatto che quando fu sottoscritto il protocollo di Kyoto, alcuni paesi avevano ancora un’economia arretrata. Ora questi paesi sono cresciuti e quindi responsabili per una buona parte delle emissioni globali.

Nonostante gli sotrici legami tra India e Regno Unito per oltre 300 anni, i due paesi hanno firmato il primo memorandum d’intesa per la cultura. Vi sono molti dipinti della Compagnia delle Indie Orientali in Gran Bretagna che gli inglesi vorrebbero digitalizzare per un accesso universale. Entrambi i paesi vogliono riempire gli spazi vuoti nelle loro collezioni Persiane e di libri. Ugualmente, gli India Office Records, 1857 carte, diari di leaders nazionalisti e vicere potrebbero finalmente essere condivisi. Verrebbe istituito un’adeguato finanziamento per gli studenti ricercatori Indiani.

Ma Regno Unito non ha bisogno e non vuole gli Indiani semi analfabeti che si incontrano ad Heathrow a lavorare nelle imprese di pulizie, ma neanche Indiani qualificati, che operano come dottori nel settore Chirurgico inglese. Inghilterra ed Europa ora possono ottenere immigranti che lavorano per poco dal povero Est Europa o dai Balcani. Questo ha reso la migrazione storica di poveri e anche di personale qualificato dalle colonie formali in Asia e Africa molto piu’ difficile.
Quindi non c’e’ da aspettarsi nessuna apertura sull’immigrazione degli Indiani, ancor piu’ da quando le economie europee che seguono il modello economico neo liberale USA-Regno Unito sono nei guai.

In accordo con i grandi scambi che Cameron desidera nell’ambito di un nuovo partenariato economico e culturale con l’India, per ordine del suo governo, gli Indiani che viaggiano regolarmente in Regno Unito per business e motivi culturali, devono sborsare una tassa di 610 Sterline, per un visto di 10 anni, con un importo finale generalmente superiore con altre tasse.
In confronto solo una tassa di all’incirca 90 Sterline e’ richiesta per un visto di 10 anni negli USA e circa 50 Sterline sono richieste per un visto per piu’ anni che copre la maggior parte dei paesi Europei. Questa tassa sproporzionata richiesta da Regno Unito dovrebbe scoraggiare esattamente questi visitatori regolari che vorrebbero consoliodare ogni “partenariato economico e culturale”.

Economicamente, Regno Unito deve ora competere per una fetta del mercato Indiano con gli Americani, gli Europei e persino i Cinesi e i Giapponesi. I Britannici sperano di sfruttare l’influenza della potente comunita’ dei due milioni di Indo – Britannici, nei ghetti come South Hall, alcuni dei quali hanno avuto successo, e anche il fatto che un buon numero di importanti compagnie Indiani operino ora in Regno Unito. Ogni anno gli studenti Indiani spendano all’incirca 300 milioni di sterline in tasse d’iscrizione a colleges e universita’ britanniche, visto che molti non riescono ad ottenere l’ammissione in istituti di prestigio in India, ed essendo altri istituti di qualita’ scadente e gestiti dalla corrotta elite politica Indiana.
Una qualsiasi laurea britannica o straniera ancora impressiona gli Indiani nativi. Poi vi sono i British Councils e altre tentazioni per promuovere la soft diplomazia britannica.

Regno Unito ha anche nominato baroni Gujarati come Meghnad Desais, un economista con un buffo taglio di capelli stile Afro, che invita i media Indiani ad istruirci sulle politiche di Nehru e Indira Gandhi. Egli non ha alcuna nozione storica e dovrebbe consigliare i Britannici su come risollevare la rovinosa economia del suo paese d’adozione. L’India e’ piena di questi non residenti indiani e jolly di origine indiana in Regno Unito e USA che usano l’India per guadagni personali.

Cameron su Pakistan e Kashmir
Ogni volta che leader Britannici o Americani vengono con l’intenzione di vendere qualcosa od ottenere qualche concessione dall’India, usano il Kashmir quale strumento di persuasione. Recentemente quando il comandante militare americano, l’ammiraglio Mullen ha visitato l’India ha addirittura dichiarato che gli USA avrebbero sostenuto l’India in caso di ostilita’ con la Cina. ( Nel 1962 dopo l’invasione cinese, gli USA hanno voluto una soluzione per il problema del Kashmir che in primo luogo andasse bene al loro alleato Pakistan). Quindi ovviamente Cameron ha ammonito il Pakistan dall’esportare il terrorismo in India, Afghanistan o in ogni altra parte del mondo. “Noi vogliamo vedere un Pakistan forte, stabile e democratico, ma non possiamo in nessun modo tollerare l’esportazione del terrorismo, che sia in India, Afghanistan o in ogni altro luogo nel mondo”ha dichiarato in una societa’ Infotech a Bangalore dove si e’ recato prima di andare nella capitale Nuova Delhi per colloqui. Egli ha anche espresso preoccupazione per la perdita riportata di fondi di diversi miliardi di dollari in aiuti militari che Gran Bretagna e USA hanno dato al Pakistan dopo l’11 Settembre per combattere i militanti nel proprio territorio.
“Informero’ della questione il Primo Ministro Indiano Manmohan Singh giovedi in Nuova Dehli di quanto discusso con il Presidente USA Barak Obama durante la mia recente visita a Washington , perche’ quando si tratta di proteggere persone innocenti, non possiamo non guardare a quanto accade in Aghanistan e Pakistan.” ha aggiunto Cameron. Egli ha continuato dicendo che si dovrebbe impedire a gruppi come i Talebani, la rete Haqqani o Lashkar – e – Taiba di lanciare attacchi a cittadini Indiani o Britannici in India o Gran Bretagna.
“I vostri rapporti con questi paesi ( Afghanistan e Pakistan ) sono una questione che riguarda solo voi ( India ). Ma come voi, noi siamo determinati a non consentire che gruppi terroristici attacchino il nostro popolo, che siano soldati o civili di entrambi i paesi che stanno lavorando in Afghanistan,” ha asserito Cameron.
C’e’ stata una breve risposta dal Pakistan e da Regno Unito dall’opposizione, dall’aspirante leader del partito laburista, il distorto Milliband. Il Pakistan ha schierato il suo Alto Commissario a Londra, Wajid Shamsul Hasan. Scrivendo sul Guardian egli ha detto: “ Si sarebbe auspicato che il Primo Ministro avesse tenuto in considerazione il grosso ruolo coperto dal Pakistan nella guerra del terrore e i sacrifici che ha fatto fino all’11 Settembre. Ci sembra che si faccia piu’ affidamento su fughe di notizie di intelligence che mancano di credibilita’ di prove. Una visita bilaterale con lo scopo di guadagnare business si sarebbe potuta svolgere senza danneggiare le prospettive di pace nella regione”. Piu’ tardi Hasan ha dichiarato alla BBC di sperare che i commenti di Mr Cameron siano stati un “lapsus” e non “voluti da lui”. “ Egli e’ nuovo al governo, magari imparera’ presto e sapra’ come gestire le situazioni”, ha detto l’Alto Commissario. “Io spero che faccia ammenda e metta pace sul popolo del Pakistan e sul suo governo, perche’ il suo discorso qui e’ stato preso assai male, le persone sono molto ferite dalle sue parole”. Il portavoce del ministero degli Esteri Abdul Basit ha respinto le affermazioni di Cameron come “rozze, egoistiche e non verificabili” dicendo che Cameron non dovrebbe usare il Pakistan come base per le sue analisi della situazione, e aggiungendo “ non c’e’ modo di guardare al Pakistan in modo diverso”. Il senatore pakistano Khurshid Ahmad, vice presidente del partito islamico Jamaat-e-Islami, ha avvisato in un’intervista con la BBC Radio 4 , The World at One, che le osservazioni di Cameron rischiano di creare tra la gente un sentimento anti – Americano e anti-occidentale. E il ministro degli esteri ombra Miliband ( egli senza dubbio getta una lunga ombra maligna sulle relazioni India – Regno Unito ) ha dichiarato che il Primo Ministro “avrebbe dovuto pensare attentamente a cio’ da dire”in tali occasioni. Mentre la Gran Bretagna deve parlare con “ certezza” su argomenti importanti, egli ha dichiarato che Mr Cameron ha detto solo “la meta’ della storia” e “non ha riconosciuto” che il Pakistan ha perso migliaia di cittadini, tra cui il leader Benazir Bhutto, negli attacchi terroristici. “C’e’ una linea sottile tra chi parla in modo diretto e uno spaccone”, ha detto alla BBC. Neanche i marines crederanno che USA/Regno Unito e Pakistan non siano responsabili per le basi e i mali del terrorismo nel Sud Est Asiatico e nel Medio Oriente dal 1970, che sta ora accerchiando il Pakistan con danni collaterali in India perpetrati dall’ISI del Pakistan ( Inter- Services Intelligence ) come politica di stato. Il capo dell’intelligence del Regno Unito, durante il governo di Tony Blair ha detto che l’inchiesta Chilcot, un altro dramma britannico senza senso, che dopo l’invasione illegale in Iraq, le attivita’ terroristiche tra i Britannici Mussulmani sono aumentate e il governo ha raddoppiato il budget per contrastarle. Blair continua a negare cio’. Allora qual’e’ il valore o il peso, se vi e’, delle esternazioni di Cameron! Le sordide bugie dell’Occidente e del Pakistan sono state svelate da Wikileaks. Cameron e’ arrivato in India dalla Turchia dove aveva promesso di aiutare Ankara ad entrare nell’EU. Regno Unito rinnova di tanto in tanto il suo aiuto ad Ankara, sapendo che l’entrata della Turchia nell’EU e’ molto improbabile, vista la ferma opposizione di Grecia, Francia e Germania, con il Partito al partito al potere in Turchia che usa tutto cio’ per tenere fuori i militari dall’apparato decisionale. I turchi non sono piu’ cosi desiderosi di diventare membri EU e guardano verso Est, a relazioni piu’ strette con le ex province Ottomane. L’ultima volta che Cameron ha visitato l’India e’ stato nel 2006, nel suo primo anni come leader dell’opposizione.

Reinventare il Raj
Scrivendo in un articolo di apertura dell’asservito Indian Express, C. Raja Mohan, un ex di sinistra venduto al neo liberalismo, perora la causa di un’emergente India che ha tutto da guadagnare nell’approfondire le sue relazioni britanniche e angosassoni, con Cameron quale perfetto interlocutore per l’India. Questa visione di sicurezza deve avere due elementi. L’enfasi deve essere data nel riportare India e Gran Bretagna alla tradizione del Raj nel mantenere i beni comuni sicuri e aperti a tutti. Cio’ significherebbe che India e Gran Bretagna mettano in comune le loro risorse per mantenere aperte le linee di comunicazione nell’Oceano Indiano e oltre. Visto che la Gran Bretagna sta tagliando le sue spese militari, diminuendo le sue forze armate e limitando i suoi obiettivi politici alle necessita’ del paese, L’India dovrebbe cogliere l’opportunita’ per proporre un partenariato inclusivo tra le industrie della difesa dei due paesi. L’India d’altro canto ha bisogno di partners che le rendano piu’ agevole il cammino verso un ruolo piu’ ampio a livello internazionale. Le persone, le risorse e le istituzioni della Gran Bretagna sono un benvenuto per moltiplicare le forze. Dehli e Londra, poi, avranno tutto l’interesse a condividere le risorse, in altre parole a reinventare il Raj, con reciproco vantaggio.
Raja Mohan, che ha sempre una poltrona disponibile negli USA, e’ un esempio perfetto di Indiani o altri pronti in cambio di denaro a promuovere la causa occidentale.
La reazione cinese
La reazione cinese e’ stata estrema. Un articolo nella versione on line del Quotidiano del Popolo, il portavoce del partito comunista della Cina, in un pezzo intitolato “Gran Bretagna, anche l’India per fare speciali legami bilaterali” afferma “per la Gran Bretagna, questo tipo di relazione generalmente si riferisce ai legami di alleanza tra Gran Bretagna e USA, quindi le implicazioni delle affermazioni di Cameron sono abbastanza profonde”.
Prendendo le osservazioni del ministro del commercio britannico Vince Cable sul fatto che il governo britannico permettera’ l’esportazione di energia nucleare verso l’India per uso civile, il Quotidiano del Popolo ha commentato: “L’India fino ad ora non ha sottoscritto il Trattato di Non proliferazione nucleare e il governo britannico e’ stato per lungo tempo contrario all’esportare il suo equipaggiamento e tecnologia nucleare in India,”cio’ senza riferirsi all’accordo nucleare Indo – USA. ( Suona strano da Pechino, uno dei piu’ grandi proliferatori di tecnologia in bombe atomiche e missili ).
“Tuttavia, il governo britannico ritiene necessario ora differenziare le strutture nucleari civili e quelle militari, e quindi e’ molto probabile che rilascera’ un permesso di esportazione nucleare all’India il piu’ presto possibile”.
“Inoltre, ha ammesso con franchezza che l’India ha un mercato di energia nucleare civile per piu’ di 100 miliardi di dollari USA e, una volta tolto il divieto, il mercato britannico certamente sara’ sommerso di ordinazioni”, dichiara il quotidiano cinese.
Sul partenariato con il Regno Unito – India per la difesa dice” L’India e’ conosciuta per il fatto di fare affidamento all’estero, in particolare sulle attrezzature militari e tecnologiche russe per modernizzare le sue risorse militari. Ma recentemente, l’India sta cercando di difersificare i suoi fornitori di armi per i quali il potenziale di mercato e’ immenso”. E ancora “La Gran Bretagna ha un certo fascino a tal riguardo. |Cosi il Primo Ministro Cameron col suo viaggio in India ha aperto le porte per i produttori di armi britannici per espandere le proprie esportazioni verso l’India”

Regno Unito come partner
Solo ignoranti Indiani di lingua inglese vedono Regno Unito e USA come alleati affidabili nonostante i loro trascorsi e le loro propensioni. Mentre rilasciavano dichiarazioni adulatorie sia Washigton che il suo cagnolino Londra hanno ignorato gli interessi vitali dell’India. La BBC ancora si riferisce ai terroristi addestrati dell’ISI che hanno violentato la metropoli culturale ed economica dell’India Mumbai come a uomini armati. Essa consente alle cosidette organizzazioni libere di incidere negativamente sulla sicurezza dell’India e di altri paesi nel Sud e nel Centro Asia. Persino Wikileaks che ha fornito dettagli sulla perfidia americana non ha persuaso i politici indiani a non esternalizzare la sicurezza Indiana a Washington e ad intraprendere una linea indipendente per salvaguardare gli interessi nazionali indiani. L’India ha inutilmente offeso la Cina per compiacere Washington, ha fatto infuriare l’Iran schierandosi con gli USA nello sforzo di intimidire Tehran sulla questione nucleare su cui Tehran e’ del tutto giustificata. L’ambasciatore di Washington a Nuova Delhi e’ persino riusciuto a far licenziare il ministro del Petrolio Mani Shankar Aiyar per i suoi tentativi di garantire la sicurezza energetica. Il suo successore, un candidato di una ricca corporazione a Mumbai ha fatto molto poco in tal direzione. Le relazioni dell’India con la Russia ne hanno anche risentito. Le relazioni tra India e USA sono divenute ostaggio di imprese di corporazione indiane e americane di origine indiana che guardano ai propri interessi e a quelli USA a differenza degli ebrei e dei cinesi. Gli indiani hanno poco sentimento nazionalista, la loro identita’ si basa su casta, religione, lingua e regione. Il leader del partito conservatore Cameron guida una coalizione con i liberaldemocratici, dopo che individui come Tony Blair con le sue bugie e mezze verita’ hanno portato il Regno Unito, quale servitore degli USA e insieme con loro, all’illegale invasione dell’Iraq. Cio’ fu cosi impopolare che la gente ha votato contro il New Labour sotto Gordon Brown che prese il potere dopo Blair fu quasi costretto a dimettersi. In precedenza la disastrosa politica impopolare di Maggie Thatcher aveva distrutto la popolarita’ del partito tra le masse.
La morte agonizzante del modello deregolamentato di Finanza della Thatcher

Ha scritto F. William Engdahl nel Gennaio 2009 “ Tra la fine del 1970 fino al 1980 il Primo Ministro conservatore Margaret Thatcher e gli interessi finanziari di Londra che l’hanno sostenuta, ha introdotto misure di privatizzazione in blocco, tagli nel budget pubblico, mosse contro il lavoro e la deregolamentazione dei mercati finanziari. Le misure prese erano in parallelo con simili mosse negli USA, avviate dai consiglieri attorno al Presidente Ronald Reagan. La ragione addotta fu che una medicina amara era da adottare per frenare l’inflazione e che l’eccessiva burocrazia inglese era il problema centrale. Per almeno tre decadi le facolta’ di economia delle Universita’ Anglo-Americani hanno guardato alla deregolamentazione thatcheriana dei mercati finanziari come al “modo piu’ efficiente” nel processo di annullare gli sforzi fatti per conquistare la sicurezza personale sociale, la sanita’ pubblica e la sicurezza pensionistica della popolazione. Ora il figlio dell’economia della rivoluzione della Thatcher, la Gran Bretagna, sta affondando come il proverbiale Titanic, una testimonianza dell’incompetenza che generalmente e’ chiamata Neo – Liberalismo o ideologia del libero mercato.

Kohinoor

La proposta per il ritorno del leggendario diamente indiano Kohinoor, ora parte dei gioielli della corona britannica, e’ stato sollevato dal parlamentare britannico di origine indiana Keith Vaz, poco prima della visita. Cameron ha minimizzato la cosa, dicendo che se tali richieste fossero accontentate, i musei britannici avrebbero molte stanze vuote.
Ma c’e’ di piu’ di pezzi preziosi nei musei britannici, come i bassorilievi dello Stupa buddista di Amravati o il Sultanganj Buddha, anche conosciuto come il Buddha di Birmingham, che era stato rubato nel 1861.

Sfruttamento coloniale e bottino

“La conquista della terra, il che vuole dire il portare via qualcosa da coloro che hanno carnagione diversa e il naso leggermente piu’ piatto del nostro, non e’ una bella cosa quando la si considera troppo”. Conrad Marlow in Heart of Darkness

L’India non deve dimenticare che prima dell’arrivo della Compagnia delle Indie Orientali alla fine del 18esimo secolo, le quote del subcontinente nella produzione mondiale erano del 24.5% nel 1750 ( 32.8% per la Cina ). Ma quando gli Inglesi finirono di spremere l’India, le quote del subcontinete scesero all’1.7% ( nel 1900 ), e quelle degli Inglesi aumentarono dal 1.9% ( nel 1750 ) al 22.9% ( nel 1880 ) – Rise and fall of Big Powers del Professor Paul Kennedy -.
In questi dati e’ da collegare le decine di milioni di morti per carestia, molto spesso perche’ il grano veniva esportato per il profitto e non distribuito quando necessario, ed in tempo. Le ricchezze saccheggiate dall’India e l’esportazione di prodotti industriali in cambio delle materie prime dell’India hanno innescato la rivoluzione industriale inglese, l’espansione e il mantenimento del vasto impero britannico dove il sole non tramonta mai.

Dieci milioni di morti dopo la rivoluzione del 1857

Nel suo libro “Guerra di civilta’: India AD 1857” lo scrittore/giornalista Shri Amaresh Misra afferma che la rivolta del 1857 fu una rivoluzione che falli’ perche’ non sufficientemente ben organizzata. Aveva basi molto piu’ ampie di quanto si potesse immaginare e duro’ molto oltre il 1857, fino al 20esimo secolo. E’ stata una guerra di civilta’. “ La visione convenzionale che gli Indiani persero militarmente o politicamente deve essere rivisitata…Nonostante tutto, gli Indiani avrebbero ancora potuto ottenere una vittoria convenzionale – solo un tradimento interno forse impedi’ tale possibilita’. “ ( tradimenti interni si possono vedere ovunque e ogni giorno ).
Il numero di Indiani uccisi per vendetta dopo il 1857 e’ stato stimato sui 10 milioni ( il 7% della popolazione ) solo in Uttar Pradesh, Haryana e Bihar basandosi sulle fonti primarie negli archivi nazionali di Nuova Dehlie negli archivi di Stato a Lucknow, Patna, Bhopal, Bombay, e Ahmadabad, a parte dalla Raza Library in Rampur, Shibli Numani Library in Azamgarh, Khuda Baksh Library in Patna, e la Deoband Library.
Le fonti originarie sono in Urdu, Persiano e Arabo.
Gli inglesi hanno distrutto tutti i documenti sul genocidio ma hanno conservato la storia delle battaglie perche’ dovevano riferirle ai loro superiori. I numeri del genocidio sono stati tabulati da inchieste documenti sulla terra, le ferrovie e il lavoro. Da Lahore e Bangladesh Misra ha ottenuto le gazzette dei distretti di Punjab, Sind, e NWFP di Dhaka, Chittagong, e Fareed Pur.
Ha scritto Soutik Biswas, il corrispondente online per BBC News nel suo blog “ La maggior parte dell’esperienza coloniale in India e’ stata estremamente sgradevole. Gli esperti sottolineano la tendenza delle regole britanniche a coltivare le elites locali, dando potere ad alcune di loro e dividendo le masse ( Lord Macaulay, che ha favorito la fondazione del sistema educativo indiano, ha suggerito che avrebbe creato dei nativi che sarebbero stati “Indiani per colore e per sangue, ma Inglesi per gusti, opinioni, morale e intelletto”.) Sfortunatamente gli Indiani ancora non hanno sviluppato un modello Indiano di base.

Contro un’elite di colore che parla inglese, a cui e’ stato fatto il lavaggio del cervello dai britannici e ora dallo stile di vita americano, si trovano le leadership dalle radici indigene in India, dove molti si oppongono all’Inglese, ora quasi linguaggio internazionale e anche ai computers per uso politico.
Ma i computers sono una necessita’ e anche mandare i propri figli in scuole e college inglesi.
“La collaborazione con elites radicate ha rafforzato il feudalesimo in quella che era’ gia’ una profonda societa’ gerarchica. Reddito, urbanizzazione, educazione e sanita’ non progredivano. In media la crescita economica nella prima meta’ del secolo sotto gli Inglesi fu dell’1%. Il commercio coloniale fu estrattivo e di sfruttamento, lasciando l’India piu’ povera. Ma dubbiosa era la comprensione coloniale di questa complessa nazione, per esempio Winston Churchill previse che se gli Inglesi avessero lasciato l’India, il paese “sarebbe caduto rapidamente indietro ai secoli della barbarie e delle privazioni del Medio Evo”.

Ma a differenza del 17esimo secolo, c’e’ ora il grande ragazzo Washington insediato a Nuova Delhi dal collasso dell’impero britannico seguito dalla non sostenibile spesa per la difesa durante la Seconda Guerra Mondiale e dal disfacimento dell’Unione Sovietica. E’ un’altra questione che come Londra e Mosca anche Washington ha ecceduto nelle spese con 700 miliardi per la difesa,(tanto quanto il resto del mondo assieme spenderebbe). E’ anche un’altra questione il fatto che il deficit nel bilancio di 600 miliardi sia finanziato da Pechino ed altri che investono in cio’ che presto saranno titoli senza valore, e il fatto che Washington sia bloccato nel pantano in Iraq e stia realizzando che la guerra in Afghanistan non si puo’ vincere e che si sia arrivati allo stesso epilogo del suo barboncino, il Regno Unito.

K. Gajendra Singh, ambasciatore indiano ( in pensione ) e’ stato ambasciatore in Turchia e Azerbaijan dall’Agosto 1992 all’Aprile 1996. In precedenza ha operato in Giordania, Romania e Senegal. Egli e’ attualmente presidente della fondazione degli studi Indo – Turchi. Collabora con Eurasia.

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Slegare i nodi sino-indiani

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Due settimane di letture in giro per la Cina in aprile sono state rivelatrici a proposito di quanto i discorsi indiani fossero inclusi nei venti di cambiamento che attraversano il paese. Il giorno in cui sono arrivato a Pechino da Shanghai sulla strada per il Tibet, la capitale cinese riceveva una figura immensamente controversa nelle politiche di questa regione – il temibile “Amir”(presidente) del Jamiat Ulema-e-Islam (JUI-F) del Pakistan, Maulana Fazal-ur.Rehman, sospettato di essere il “padre dei Talebani.”
Due aspetti della visita del Sig. Rehman mi hanno intricato. IL JUI-F non ha alcuna controparte cinese ma Pechino ha risolto il dilemma facendo entrare in scena il Partito Comunista Cinese (CCP) a stringere le mani del Sig. Rehman. Il CCP e il JUI-F potrebbero sembrare acqua e olio ma la Cina di oggi spera di poterli mischiare. Durante la visita del Sig. Rehman, il CCP e il JUI-F hanno firmato insieme un memorandum di cooperazione. Dopo Pechino il Sig.Rehman si è diretto verso lo Xinjiang.
E’ stato un momento eccezionale – vedere l’energico Maulana esposto alle violente politiche di questa regione, grazie all’ideologia dell’Islam militante praticato dalla sua stirpe e alla pura audacità, o totale ingenuità, delle politiche pechinesi a invitarlo mentre lo Xinjiang si sta dissanguando per mano dei militanti islamici basati in Pakistan e sostiene a fatica gli intrighi della mafia della droga sulla strada del Karakorum.

Sicuramente il Pakistan è di un’importanza immensa per le strategie della Cina. E’ un amico di vecchia data, un mercato per le esportazioni cinesi, un ponte vitale per la nuova catena di comunicazioni che unisce il Golfo Persico, il Medio Oriente e l’Africa; ma soprattutto, una terra che ospita militanti Islamici cinesi che potrebbero essere caduti sotto l’influenza di potenze straniere. Non sorprendentemente, le comunicazioni di sicurezza con Islamabad hanno assunto un’alta priorità. Il seguente rapporto della settimana scorsa sul giornale quotidiano “China Daily” di proprietà del governo cinese, ha sottolineato la complessità della situazione: “Un numero crescente di membri del Movimento Islamico del Turkestan dell’Est (ETIM) che ha condotto gli scontri ed è segnalato come gruppo terrorista dal Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite, stanno, secondo quanto si dice, fuggendo in Pakistan e sistemandosi là per i futuri piani. Secondo gli ultimi rapporti, l’ETIM ha stretto una vicina collaborazione con i talebani e con Osama Bin Laden. Pare che un capo dell’ETIM sia anche stato nascosto in Pakistan e vi sono notizie di un “battaglione cinese” costituito di circa 320 membri dell’ETIM delle forze talebane. “Non è difficile per loro nascondersi in Pakistan. Hanno credenze religiose, sembianze somatiche e lingue simili a quelle dei locali.” ha scritto il giornale di Pechino World News segnato al 1 luglio.
Inoltre, la Cina sta affrontando sfide geopolitiche senza precedenti nel portare avanti “l’amicizia perpetua” col Pakistan. Il Pakistan è diventato un terreno di caccia per le strategie regionali degli Usa. C’è una differenza qualitativa dalle iniziative di collaborazione Usa-Pakistane durante la Guerra Fredda. Gli Stati Uniti oggi dipendono dalle forze militari pakistane per mettere fine alla guerra afghana, così che, senza le inconvenienze della guerra che mettono a rischio l’opinione pubblica occidentale, la continuazione della presenza militare della NATO possa diventare sostenibile. In breve, il Pakistan è un alleato praticamente insostituibile per gli Usa nella presente fase geopolitica della regione, e rimarrà tale per il futuro prossimo, data la sua posizione geografica, l’economia politica e per la sua capacità unica nel dialogare coi gruppi terroristici. L’arrivo prossimo del segretario di stato Hillary Clinton a Islamabad per co-presenziare al dialogo strategico tra Usa e Pakistan – il secondo in quattro mesi – sottolinea di nuovo la centralità del Pakistan all’interno dei calcoli della politica estera di Washington.
Ciò che emerge è che non si da più il caso che qualsiasi cosa faccia la Cina in Pakistan sia per stimolare quache motivo ulteriore ad andare contro l’India o che la politica di Pechino verso il Pakistan sia ancora quintessenzialmente Indio-centrica. Di fatto, la tendenza per un certo periodo è stata quella di Pechino che cercava di mantenere un equilibrio nelle sue relazioni tra l’India e il Pakistan. Sfortunatamente, sezioni motivate della comunità strategica indiana nel loro diretto interesse a favorire le geo-strategie Usa, spesso offuscano deliberatamente queste realtà geopolitiche che fanno pensare. Il simbolismo nella politica del primo ministro cinese Wen Jiabao e degli altri leader che hanno ricevuto il Consigliere per la Sicurezza Nazionale Shiv Shankar Menon a Pechino, e che con lui hanno intrattenuto discussioni in quanto inviato speciale del primo ministro, giusto prima dell’arrivo del presidente pakistano Asif Ali Zardari durante una settimana di “visite di lavoro”, non può passare inosservato – pur ammessa l’alta stima in cui si tiene conto del Sig. Menon in quanto studente diplomato sulla Cina.
Che è il motivo per cui le le osservazioni del Sig. Menon che hanno seguito le sue riunioni a Pechino, devono essere accolte come riflessive di una profonda comprensione agli alti livelli del policymaking indiano di New Delhi riguardo alla sfida più cruciale della politica estera indiana nel periodo a venire: Le relazioni con la Cina. Il Sig. Menon ha detto che l’India sta mirando a costruire “una relazione [con la Cina] che non sia controllata esternamente”.
Se tutto va bene, sarà stato messo un bel tappo al bartattolo di vermi che lo Zio Sam ha periodicamente tenuto di fronte ai nostri occhi – “un’alleanza di democrazie asiatiche” che includa anche il Giappone, gli Stati Uniti e l’Australia. Esiste una forte necessità di proteggere la fase di normalizzazione dell’India con la Cina dalle occasionali interferenze degli Stati Uniti. Ai margini del recente dialogo avvenuto a Washington sulle strategie Usa-Indiane, vecchi ufficiali americani hanno risuscitato le idee di George W. Bush sugli Stati Uniti e l’India che controllano l’Oceano Indiano collaborando insieme al Giappone e all’Australia – dottrine che sembravano diventate ormai irrilevanti e donchisciottesche dopo che è esplosa la crisi finanziaria mondiale e sono emerse nuove realtà nel sistema internazionale.

Allo stesso modo, l’India deve guardare ai legami sino-pakistani in prospettiva e con un nuovo modo di pensare. Il Sig. Menon è stato colto nell’affermare che la stretta relazione della Cina col Pakistan non dovrebbe avere alcuna relazione con lo slancio di Nuova Delhi mentre monta l’impeto dei legami Sino-Indiani. Di certo è un buon momento per sciogliere i nodi. “Non siamo più in una situazione di gioco del tipo o così o niente. La nostra relazione [indiana] con la Cina non dipende dallo stato dei nostri rapporti col Pakistan, o viceversa. E a giudicare da ciò che ho visto essere stato messo in pratica negli ultimi anni, credo valga anche per la Cina”. Ha detto questo mentre metteva l’accento sulla convergenza degli interessi indiani e cinesi su una scala di argomenti globali, che richiedono un “nuovo periodo della relazione”.

Il governo ha fatto bene a rifiutare di farsi attrarre dalle esortazioni suggerite da alcune sezioni della nostra [indiana] comunità strategica per unirci nella controversia sulla questione nucleare tra Cina e Pakistan a fianco di Pechino – nonostante le naturali preoccupazioni su chiunque faccia accordi col Pakistsan, che potrebbero essere collegati alla non-proliferazione nucleare. Il Sig. Menon ha detto:”Questo [accordo Sino-Pakistano] non è stato l’intero proposito della visita. Ha occupato meno di due frasi e mezzo in tutta la visita”. Gli opinionisti americani e la rumorosa lobby pro-americana della comunità strategica indiana hanno suggerito che l’accordo nucleare sino-pakistano fosse inizialmente diretto contro l’India. Per citare un articolo di un quotidiano occidentale, “la Cina e il Pakistan minacciano di distruggere le aspirazioni nucleari indiane iniziando una collaborazione tra loro stessi”. Comunque sia, i due reattori che la Cina si propone di costruire in Pakistan nel complesso di Chashma sotto la salvaguardia della IAEA non minaccia la sicurezza indiana né sbilancia “l’equilibrio strategico” tra India e Pakistan. Al contrario, se il Pakistan entra nella piega di un qualunque regime di non-proliferazione includendo la salvaguardia della IAEA che la Cina sembra avere in mente, potrebbe essere che succeda una cosa buona.
Di nuovo, i commentatori americani hanno cercato di insinuare che il dialogo tra Cina e Pakistan solleva apprensione nella comunità internazionale, che in cambio potrebbe rianimare i dubbi sulla saggezza degli Usa che stanno preparando un ordinamento speciale per l’India. Queste sono mere sciocchezze. La prova decisiva sarà la prontezza del Giappone ad aprire i negoziati per poter esplorare le possibilità di un commercio nucleare con l’India. Ciò che è sottovalutato è che l’NPT in quanto tale non ha sottoscritto un accordo di scambio con un paese non-firmatario come l’India. Piuttosto, sono stati il Gruppo di Rifornimento Nucleare (NSG) a mettere la “cortina di ferro”. L’NSG era una concussione al 100% americana mirata a penalizzare l’India sotto un regime multilaterale designato. In poche parole, come gli Usa hanno iniziato a sentire il bisogno pressante, nei termini della sua strategia globale, di creare un’alleanza con l’India come potenza emergente, le barriere sono divenute un inconveniente relitto del passato. Allo stesso modo, non ci dimentichiamo che gli Usa potrebbero probabilmente offrire un accordo sul nucleare al Pakistan a qualche punto.
In breve, Pechino si prende cura dei suoi legami col Pakistan in un momento cruciale come questo in cui figura come alleato chiave delle strategie regionali degli Usa. Il Pakistan, da parte sua, è un partner esemplare che elimina decisamente ogni intereferenza degli Usa nel suo rappporto con la Cina. Gli Stati Uniti sono stati abbastanza esperti da realizzare le virtù dello “slegare nodi” in questa complicata regione. Lo spettacolo offre un occasione di moralità all’India.

Traduzionea cura di Almerico Matteo Bartoli

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Vertice quadrilaterale a Sochi

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Fonte: Strategic Culture Foundation http://en.fondsk.ru/print.php?id=3221 22/08/2010

Il 18-19 agosto, i presidenti di Russia, Tagikistan, Afghanistan e Pakistan si sono riuniti per la seconda volta a Sochi. Il vertice è stato reso necessario soprattutto dalle recenti tensioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan e dal prossimo ritiro delle forze statunitensi dall’Afghanistan. Senza dubbio, il ritiro sbilancerà l’equilibrio geopolitico in Asia centrale e, in particolare, esporrà il Tagikistan – una repubblica che condivide un lungo e scarsamente sorvegliato confine con l’Afghanistan – a seri rischi. Essendo il paese che ospita la via di transito utilizzata per rifornire le forze della NATO in Afghanistan, il Tagikistan è di fatto coinvolto nella guerra afgana.

L’ordine del giorno del vertice riguardava la sistemazione dell’Afghanistan, la lotta contro il traffico di droga, l’assistenza tecnico-militare, e altre, della Russia verso Kabul, e numerosi progetti energetici e infrastrutturali. Attualmente il Tagikistan considera la costruzione di una superstrada tagiko-pakistana, e una linea di trasmissione per la fornitura di energia elettrica al Pakistan attraverso l’Afghanistan.

Le relazioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan sono tese per la costruzione della diga di Rogun. Tashkent teme che la diga permetterà al Tagikistan di manipolare il flusso di acqua consumata dal settore agricolo uzbeko, e quindi di esercitare una pressione politica sul Uzbekistan. Dalla fine del 2009, l’Uzbekistan ha imposto limitazioni al transito ferroviario verso il Tagikistan, ostacolando la consegna di materiali da costruzione necessari per costruire la diga di Rogun, praticamente paralizzando le forniture ferroviarie del Tagikistan.

Il Tagikistan ha già chiesto alle Nazioni Unite e all’OSCE di contribuire a risolvere il conflitto, e il blocco è stato parzialmente revocato, ma in seguito l’Uzbekistan tornato alla sua politica precedente. Inoltre, l’Uzbekistan sta esercitando una più ampia pressione economica sul Tagikistan. Due volte, l’anno scorso, Tashkent ha introdotto tariffe più elevate riguardo il trasporto ferroviario verso il Tagikistan, l’aumento è stato del 10% a partire dal 1° febbraio 2010, più un altro 11% a partire dal 9 agosto. I vettori stimano che le perdite risultano apri a 5,5 milioni di dollari. Il Tagikistan sostiene, inoltre, che il servizio della dogana uzbeka apre illegalmente i vagoni al valico di frontiera di Kudukli e confisca le merci non dichiarate.

Il conflitto tra l’Uzbekistan e il Tagikistan non si limita alla controversia del transito ferroviario. Quest’estate, le due repubbliche hanno delimitato lo spazio aereo e hanno iniziato ad accusarsi a vicenda per l’uso dello spazio aereo. In realtà, non ci sono voli diretti tra il Tagikistan e l’Uzbekistan da 18 anni. L’anno scorso l’Uzbekistan si è ritirato dal Sistema Energetico dell’Asia centrale, rendendo più difficile per il Tagikistan esportare energia elettrica. I problemi sorgono nel periodo estivo, quando il Tagikistan è costretto a scaricare inutilmente ingenti quantitativi di acqua dalle sue riserve. In cima a tutto, la delimitazione del confine tra le due repubbliche e la rimozione delle mine nelle vicinanze, ancora attendono una conclusione.

Le tensioni tra il Tagikistan e l’Uzbekistan hanno raggiunto una tale intensità che, di tanto in tanto, i media discutono la possibilità di un conflitto armato tra le due repubbliche. Militarmente, l’Uzbekistan è molto più forte di Tagikistan. In realtà, le forze armate uzbeke sono tra le più potenti dell’Asia centrale, ma il coinvolgimento probabile in potenziale conflitto di forze esterne – come i tagiki dell’Afghanistan – provocherebbe prontamente l’escalation delle ostilità di proporzioni regionali.

Nel corso degli ultimi 18 mesi, la controversia relativa al completamento della costruzione della diga di Rogun ha gettato un’ombra permanente sui rapporti tra Dushanbe e Mosca. I disaccordi tra la Russia e il Tagikistan ruotano intorno alla proprietà dell’impianto. La Russia chiede una partecipazione del 75% come, è stato fatto nel caso della Centrale idroelettrica Sangtuda 1, ma il piano incontra la resistenza do Dushanbe. Il Tagikistan, però, non riesce a completare la costruzione, attualmente congelata, in modo indipendente, neanche a costo di costringere la popolazione ad acquistare azioni della centrale idroelettrica di Rogun.

Gli interessi della Russia in Tagikistan non si limitano ai progetti energetica e infrastrutturali. Questioni importanti per la Russia sono il dispiegamento della sua base aerea di Aini, 25 km a sud di Dushanbe, la ripresa delle trasmissioni da parte del canale russo RTR-Planeta TV, che è stato sospesa un anno fa con il pretesto delle more, e la risoluzione del problema di indebitamento della centrale idroelettrica Sangutda 1, di proprietà dell’INTER RAO UES della Russia.

Maggiore complessità derivano dal fatto che il miglioramento delle relazioni della Russia con una delle due repubbliche – Uzbekistan o Tajikistan – invariabilmente riecheggia tensioni nei rapporti con l’altra. Le relazioni di Mosca con Tashkent non sono esattamente prive di problemi. Dopo aver lasciato la Comunità economica eurasiatica, due anni fa, l’Uzbekistan rimane nell’Organizzazione del Trattato di Sicurezza Collettiva, ma sembra riluttante a collaborare realmente con essa. Media affermano che gli investimenti russi sono sempre più sgraditi in Uzbekistan.

La Russia è improbabile che adotti tutti i provvedimenti decisi dopo il vertice di Sochi, ma Mosca è costantemente alla ricerca di soluzioni innovative in Asia centrale, che renderebbero possibile la costruzione di relazioni di lungo termine e reciprocamente gratificanti con una delle repubbliche della regione, senza danni per i legami con l’altra.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Russia e Pakistan dopo il vertice quadrilaterale di Sochi

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Fonte: Strategic Culture Foundation
http://en.fondsk.ru/print.php?id=3222
23/08/2010

Il vertice di Sochi del 18-19 agosto, cui hanno partecipato i leader di Russia, Pakistan, Afghanistan e Tajikistan – il secondo dall’incontro di Dushanbe del luglio 2009 – ha mostrato che questo formato aiuta, in effetti, ad affrontare i problemi geopolitici dell’Asia centrale e a rafforzare la pace e la sicurezza nella regione.

L’ordine del giorno di Sochi era sovrastata dalla lotta contro il traffico di droga e il terrorismo e dalla cooperazione economica tra i paesi della regione. La tragica situazione in Pakistan, paese in cui un diluvio senza precedenti ha provocato un disastro nazionale, ha attirato l’attenzione particolare del vertice. I leader dei quattro paesi hanno, inoltre, discusso gli sforzi congiunti antinarcotici e le prospettive per stabilizzare l’Afghanistan – in particolare la sua zona di confine adiacente al Pakistan – e la zona tribale del Pakistan della provincia del Khyber Pakhtunkhwa (precedentemente conosciuta come North-West Frontier Province).

Il presidente russo Dmitrij Medvedev e il suo omologo pakistano Asif Ali Zardari, hanno confermato, in un incontro bilaterale nel corso del vertice, che i due paesi sono interessati a una maggiore cooperazione nell’economia e nella politica internazionale. In apertura della riunione, i Presidenti si sono scambiate le condoglianze poiché la Russia aveva di recente affrontato una siccità e degli incendi boschivi insolitamente intensi, e il Pakistan ha subito un’alluvione devastante. A causa della critica situazione in Pakistan, il presidente Zardari ha dovuto lasciare il vertice diverse ore prima, invece di restare per due giorni, come precedentemente previsto. Sottolineando che la Russia è alla ricerca di una più stretta partnership economica con il Pakistan, il presidente Medvedev ha espresso rammarico per il poco era stato fatto finora, e sperava che la collaborazione si sviluppi con maggior dinamismo nel prossimo futuro.

Il Pakistan colpito dal diluvio è guardato con compassione in tutto il mondo. Le conseguenze socio-economiche della catastrofe si diffondono oltre i confini del Pakistan e colpiscono l’intera Asia centrale. Stando alle stime attuali, circa 20 milioni sono le persone colpite dalla catastrofe, che ha provocato quasi 1.700 morti e 2.090 feriti e ricoverati in ospedale. L’alluvione in Pakistan ha distrutto 576.000 abitazioni e il paese è stato costretto a creare 1.520 campi provvisori, ma un gran numero di persone ancora non ha rifugio e deve sopravvivere con piccoli pezzi di terra non allagati. Al momento, il Pakistan sta affrontando le minacce di carestie ed epidemie. Il segretario generale dell’ONU, Ban Ki-moon, ha descritto la situazione nel paese terribile e straziante. Ha detto che non aveva mai visto una catastrofe naturale di tali proporzioni, e ha chiesto più rapidi aiuti internazionali.

Anche se la maggior parte dei paesi e delle organizzazioni internazionali hanno già risposto alla richiesta di aiuto del Pakistan, al momento l’assistenza internazionale potrebbe essere ancora più estesa. L’Asian Development Bank prevede di estendere un prestito di emergenza di 2 miliardi al Pakistan, la Banca Mondiale ha già dato al paese 900 milioni di dollari, e l’ONU intende fornirne 460 milioni, di cui 272 milioni sono già stati consegnati. L’Arabia Saudita e l’Organizzazione della Conferenza Islamica si sono impegnate per 70 e 11 milioni rispettivamente, (l’ultima è l’assegnazione dei fondi attraverso la Islamic Development Bank). La Russia ha anche assunto un ruolo attivo nella campagna di aiuti – alcuni aerei Il-76 del ministero russo per le situazioni di emergenza, hanno già sbarcato aiuti umanitari in Pakistan.

Per quanto riguarda l’attuale stato delle relazioni economiche tra la Russia e il Pakistan, è vero che lascia molto a desiderare, e i presidenti dei Paesi, hanno dovuto ammettere a Sochi che nessun progresso è stato fatto. Il fatturato del commercio tra la Russia e il Pakistan a malapena ha superato la soglia dei 400 milioni di dollari (in netto contrasto, il fatturato del commercio del Pakistan con l’India – il paese che Islamabad chiaramente non può contare tra i suoi amici – ha superato la quota dei 2 miliardi, e continua a registrare una crescita costante). E’ un risultato serio del vertice di Sochi, che – come i leader della Russia e del Pakistan hanno deciso – la Commissione Inter-governativa sulla Cooperazione Bilaterale, istituita da diversi anni, finalmente terrà la sua prima conferenza operativa, nel mese di settembre, dopo un lungo periodo di inattività. Il Presidente Medvedev ha espresso l’interesse della Russia nel partecipare con 7,6 miliardi di dollari, alla costruzione del progettato gasdotto Iran-Pakistan-India (il gasdotto si estenderà per oltre 1.000 km) e per aiutare l’aggiornamento dell’impianto metallurgico del Pakistan, che Karachi ha costruito nel 1985 con l’assistenza sovietica (la capacità dell’impianto, attualmente supera 1,1 milioni di tonnellate di acciaio l’anno, e dovrebbe raggiungere 1,5 milioni di tonnellate e dopo la prima fase di aggiornamento, e 3 milioni di tonnellate, dopo la seconda fase di aggiornamento). Russia e Pakistan prenderanno anche in considerazione le opportunità esistenti per la cooperazione nel trasporto ferroviario e nel settore energetico. Il presidente russo ha suggerito che un maggior numero di studenti pakistani chiedano l’ammissione alle università russe. Con una significativa iniziativa, le banche russe probabilmente apriranno divisioni in Pakistan, per servizi operazioni import-export. il ministro degli esteri della Russia, S. Lavrov, ha detto ai media che la cooperazione economica dovrebbe essere il motore delle relazioni tra la Russia e il Pakistan.

Il presidente Zardari ha invitato la Russia a investire nel settore energetico pakistano, nell’industria delle montagne e nella produzione di infrastrutture. Si è convenuto che il Presidente Medvedev si recherà in visita in Pakistan, e il presidente Zardari ha sottolineato che una superpotenza come la Russia sta giocando un ruolo importante nel mantenimento della stabilità in Asia centrale e meridionale.

Questa non è la prima volta che viene invitato un leader russo in Pakistan – finora le visite da parte di funzionari russi di rango inferiore hanno prodotto risultati minimi. Quale potrebbe essere la spiegazione dietro la stagnazione? Ho passato anni alla ricerca di una risposta come studioso professionalmente interessato al Pakistan. La Russia può divenire un osservatore delle organizzazioni internazionali in cui il Pakistan è presente? In passato, la Russia ha sostenuto con successo l’offerta del Pakistan di aderire alla Shanghai Cooperation Organization in qualità di osservatore. Il Pakistan ha assistito la Russia nell’adesione all’Organizzazione della Conferenza Islamica, dove la Russia ha attualmente il ruolo di osservatore.

Dal punto di vista dello sviluppo delle relazioni tra la Russia e il Pakistan, sarebbe utile per Mosca ottenere l’adesione in gruppi come il SAARC (South Asian Association of Regional Cooperation) e gli Amici del Pakistan Democratico (che attualmente comprende Australia, Gran Bretagna, Italia, Canada, Cina, Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Stati Uniti, Turchia, Francia, Giappone, e rappresentanti delle Nazioni Unite e dell’UE).

Al momento il Pakistan è guidato da un nuovo Presidente civile e da un nuovo governo, ribadisce il proprio impegno allo sviluppo delle relazioni economiche e politiche con la Russia, e anche l’apertura di negoziati con Mosca sul commercio delle armi. In qualche modo, Mosca sembra evitare provvedimenti pratici e limita alla routine il suo coinvolgimento in pacate discussioni improduttive. Occorre rendersi conto che la preoccupazione per il potenziale malcontento a Delhi, che senza dubbio avrebbe reagito negativamente al riavvicinamento della Russia al Pakistan, riflette una visione politica obsoleta. Per anni l’India non ha considerato la Russia quale il numero uno dei partner in molti ambiti; il suo accordo del 2010 sull’energia nucleare con gli Stati Uniti e il Canada, e le massicce acquisizioni d’elettronica militare israeliana, ne esemplificano la tendenza. Per la Russia, ignorare il Pakistan – il paese con la popolazione di 175.000.000 situato in una regione strategica e vicino a Afghanistan, India e Cina – è stata una strategia mal concepita. Inoltre, la propensione di Delhi nel normalizzare i rapporti con Islamabad, s’è dimostrata chiaramente durante i colloqui tra il i ministri degli esteri indiano e del Pakistan, il 15 luglio, dovrebbe essere presa in considerazione. Oggi, ampie opportunità sono a disposizione della promozione dello sviluppo economico – e anche politica – delle relazioni tra la Russia e il Pakistan.

Sergei Kamenev è il direttore del settore Pakistan dell’Istituto di Studi Orientali dell’Accademia Russa delle Scienze.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Saga di Bushehr sta per finire

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Fonte: Strategic Culture Foundation
http://en.fondsk.ru/print.php?id=3220 20/08/2010

Segnando la conclusione della saga che ha avuto inizio a metà del secolo XX, il 21 agosto l’Iran avrà ufficialmente avviato il reattore nucleare di fabbricazione russa della centrale nucleare di Bushehr. L’accensione del reattore nucleare è un punto culminante in qualsiasi paese, ma nel caso dell’Iran è un ulteriore fattore per la situazione, secondo cui l’avvio possa essere considerato una sconfitta della politica internazionale di Washington. Recentemente, l’ex ambasciatore statunitense alle Nazioni Unite, John Bolton, provocatoriamente ha chiesto a Israele di attaccare Bushehr prima del 21 agosto, termine ultimo, quando le barre nucleari saranno caricate nel nocciolo del reattore.
J. Bolton è famoso per le sue opinioni da falco estremista. Ha sostenuto attivamente il mito scorte s delle armi di distruzione di massa di S. Hussein, nell’escalation della guerra in Iraq, e nel mese di agosto 2008, ha affermato che la Russia era l’aggressore nel conflitto con “la piccola e totalmente innocua” Georgia.
Il cinismo non è raro nelle file dei politici statunitensi. Al momento, gli Stati Uniti sostengono accuse contro l’Iran – così come contro la Russia – e cercano di convincere il mondo che, dopo l’avvio della centrale di Bushehr, avrà di fronte un nuovo mostro dotato di armi nucleari. E’ opportuno ricordare, nel contesto, le forze che hanno aiutato l’Iran ad acquisire reali ambizioni nucleari, in passato.
L’Iran guidato dello shah pro-USA si messo in contatto con gli Stati Uniti per l’accesso alle tecnologie dell’energia nucleare, ben prima dei progetti nucleari congiunti con la Russia. Nel 1957, Washington e Teheran firmarono un accordo sull’energia nucleare, in cui gli Stati Uniti avrebbero fornito materiale nucleare all’Iran e contribuito a formare ingegneri nel paese, e l’Iran, da parte sua, acconsentì agli Stati Uniti di monitorare i suoi impianti nucleari. Washington e Teheran hanno firmato un altro accordo, con l’assistenza dell’IAE, nel 1967 e gli Stati Uniti fornirono un reattore nucleare di piccola potenza (5 MW), per il centro di ricerca dell’Iran. Il reattore è stato avviato un anno più tardi che utilizzava uranio arricchito al 93% come combustibile. Successivamente, gli Stati Uniti hanno venduto all’Iran le camere per l’estrazione del plutonio dal combustibile nucleare esaurito. In netto contrasto, il combustibile nucleare (82 tonnellate) per il piano di Bushehr, che è stato fornito nel 2008 e attualmente è conservato in un sito speciale monitorato dall’IAE, è arricchito solo all’1,6-3,6%.
Per tutto il regno dello scià iraniano, gli Stati Uniti non espressero obiezioni nei confronti dell’Iran, per l’attuazione del ciclo completo del combustibile nucleare che poteva essere utilizzato per generare plutonio e, tecnicamente, poteva servire come base per la creazione di armi nucleari. Inoltre, Washington e Teheran hanno discusso la fornitura di un massimo di 8 reattori nucleari, del valore di 6,5 miliardi dollari, all’Iran. Gli Stati Uniti non hanno avuto problemi con le operazioni in Iran degli altri paesi della Nato – in particolare, con la Germania e la Francia – nel quadro del programma nucleare. L’ultimo Scià dell’Iran, Mohammad Reza Pahlavi, impostò l’energia nucleare come una priorità del suo programma di riforma. Nel 1974, l’Iran ha adottato un programma a lungo termine, volto a costruire 23 reattori nucleari con una capacità totale di oltre 20 MW, basandosi su tecnologie occidentali (e non sovietiche!). L’Iran ha firmato contratti con Stati Uniti, Germania e Francia, e in quest’ultimo caso ha anche acquistato una partecipazione del 10% nell’impianto di arricchimento dell’uranio di Tricastin. L’accordo ha aperto l’accesso dell’Iran alle tecnologie di arricchimento dell’uranio, e ha dato al paese il diritto di acquistare la produzione dell’impianto.
Per quanto riguarda la centrale nucleare di Bushehr, in origine il contratto per la costruzione si concluse nel 1974 con la Kraftwerk Union. La società tedesca avrebbe costruito due reattori da 1.300 MW, addestrato gli ingegneri nucleari iraniani e organizzato la produzione e l’uso degli isotopi del sito. Il primo e il secondo reattori dovevano essere avviati nel 1980 e nel 1981.
La Francia ha avuto anche un contatto 2 miliardi di dollari per la costruzione di una centrale nucleare in Iran. Situata ad Ahwaz, doveva comprendere due reattori da 950 MW che sarebbero stati avviati nel tardo 1983 – inizio 1984. Inoltre, nel 1974 la Francia iniziò la costruzione di un centro di ricerca con un reattore nucleare sperimentale a Isfahan, in Iran, l’avvio era previsto per il 1980.
Ovviamente, l’Occidente non ha battuto ciglio sul programma nucleare dell’Iran – almeno per quanto riguarda l’Iran come un potenziale mostro dotato di armi nucleari – in un’epoca in cui il paese rimaneva nell’orbita degli Stati Uniti e della NATO. La situazione ha preso una piega diversa dopo la Rivoluzione islamica del 1979 in Iran, quando il paese ruppe con l’Occidente. I contratti nucleari furono annullati e la costruzione degli impianti nucleari – congelata. Secondo diverse stime, al momento i reattori della centrale di Bushehr erano completi al 70-90% e 40-75%. Il cantiere era pronto ad Ahwaz, ma all’Iran venne rifiutato l’accesso alle tecnologie e ai prodotti dello stabilimento di Tricastin.
Per molto tempo, dopo la Rivoluzione Islamica, l’Iran ha dovuto affrontare problemi più pressanti che costruire centrali nucleari. L’incompiuta centrale di Bushehr finì sotto le bombe 9 volte, durante la lunga guerra con l’Iraq, e subì notevoli danni, di conseguenza.
Teheran rianimò il suo programma di energia nucleare dopo la guerra, ma numerosi tentativi di raggiungere accordi con la Spagna, Argentina, Brasile, Pakistan, e persino con la Cina non hanno prodotto alcun risultato. Sotto la pressione degli Stati Uniti, i potenziali partner evitarono di farsi coinvolgere da Teheran. Immune alle pressioni di Washington, nel 1992 la Russia stipulò un accordo sul nucleare civile con l’Iran, che prevedeva la costruzione della centrale di Bushehr. Il contratto russo-iraniano per costruire la sua prima unità fu – dopo degli abbastanza difficili colloqui sui dettagli – firmato il 5 gennaio 1995 a Teheran. Le società russe hanno dovuto ricostruire l’impianto per adattarlo al reattore acqua-acqua russo VVER-1000, da 1000 MW. I contratti con la Russia prevedono la costruzione di altri tre reattori a Bushehr, in futuro. Mosca e Teheran hanno firmarono un accordo con cui la Russia avrebbe fornito 2.000 tonnellate di uranio all’Iran e addestrato ingegneri iraniani negli istituti russi.
A quel tempo e al momento, il contratto di Bushehr era di grande importanza per la Russia. Il costo del primo reattore è stato fissato a 800-850 milioni di dollari, e il totale della costruzione è stato stimato a circa 1 miliardo. L’Iran avrebbe pagato l’80% dell’importo in contanti e il 20% sotto forma di forniture varie. L’elenco degli appaltatori russi conta oltre 300 imprese e il contratto ha creato 20.000 nuovi posti di lavoro. Inizialmente, il piano era che la centrale elettrica di Bushehr sarebbe divenuta operativa nel 2003, ma la scadenza è stata più volte rinviata a causa di vari motivi. Gli Stati Uniti hanno esercitato una pressione permanente su Mosca affinché quest’ultima abbandonasse il contratto, e in un certo numero di casi, l’Iran non ha rispettato il calendario dei pagamenti. Tuttavia, la saga di Bushehr, si spera si concluda il 21 agosto 2010. L’Iran avrà la sua prima centrale nucleare e la Russia dimostrerà la sua capacità di attuare importanti contratti internazionali ad alta tecnologia. Per quanto riguarda le accuse che la Russia stia giocando dalla parte di un paese aggressivo, è un punto importante che il contratto della Russia con l’Iran – in contrasto con quelli che Stati Uniti, Francia e Germania hanno firmato con il paese, in passato – non implichi il trasferimento all’Iran di tecnologie di arricchimento dell’uranio, la costruzione di un impianto autofertilizzante o per la rigenerazione di plutonio. Quello che l’Iran avrà – in piena conformità con il diritto internazionale e senza minacciare la pace e la sicurezza internazionale – è uno una semplice infrastruttura civile per l’industria elettrica. Le minacce alla pace e alla sicurezza internazionale, come ad esempio, le affermazioni di John Bolton mostrano chiaramente, sono poste da un altro paese.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Unione Europea: un’alternativa potenziale nell’area del Pacifico?

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Le relazioni internazionali e la geopolitica del XXI secolo si caratterizzano indubbiamente per la centralità e la strategicità del continente asiatico: se il Medio Oriente e l’Asia Centrale sono tra gli scenari politico-economici più importanti a livello globale, il Sud Est asiatico appare oggi essere una regione cruciale sia per le relazioni economiche che per quelle politico-militari su scala regionale e mondiale. In un contesto in cui si inseriscono e crescono le influenze provenienti dalla Cina e, in minor misura dagli Stati Uniti, l’Unione Europea è chiamata a svolgere un ruolo importante: continuare ad essere per i Paesi appartenenti a quest’area un interlocutore fondamentale, non solo dal punto di vista economico, ma anche politico. Solo in questo modo Bruxelles potrebbe essere in grado di assicurare un’effettività al dialogo inter-regionale fra Europa e Asia Sud-Orientale e di garantire la presenza degli interessi europei nel Pacifico.

Il modello europeo

Il modello e l’idea di organizzazione “regionale” europea – sorta dopo la seconda guerra mondiale e dopo la decolonizzazione, e intrecciatasi con le logiche della Guerra Fredda – ha giovato nell’avviare all’interno di quei Paesi asiatici, che per lungo tempo sono stati legati all’Europa a causa degli imperi coloniali, un processo di costruzione propria regionale e ha contributo a definire in un secondo momento, come vedremo, un’identità del Sud-Est asiatico.

Mentre l’Europa muoveva i primi passi verso lo spazio economico comune e, soprattutto, il tentativo di creare un’entità sovranazionale anche in materia di difesa (Unione Europea Occidentale e Comunità Europea di Difesa, la quale non ha mai visto la luce) in un continente segnato dalla logica dei blocchi contrapposti, i Paesi del Sud-Est asiatico aderivano alla “Southeast Asian Treaty Organization” (SEATO, 1954): questa prima forma organizzativa a carattere strategico – militare nacque per fronteggiare il pericolo proveniente dai Paesi comunisti dell’Asia, Cina in primis. Il fallimento della SEATO, come fu evidente durante la guerra del Vietnam, portò i Paesi di quest’area a cercare nuove vie autonome e concordate per una più ampia integrazione regionale: l’“Association of Southeast Asia” (ASA), la “Maphilindo” (un’associazione fra Malaysia, Filippine ed Indonesia) e l’“Asian Pacific Council” (ASPAC) negli anni Sessanta, sulla scia del dibattito che animava le prime politiche comunitarie, furono gli esempi di realizzazione autodeterminata di un’effettiva organizzazione regionale dedita alla cooperazione economica e culturale fra i Paesi membri. L’ulteriore insuccesso di queste formule associative portò alla creazione della forma più matura di integrazione regionale del Sud-Est asiatico: l’“Associazione delle Nazioni dell’Asia Sud-Orientale” (ASEAN, 1967, di cui fanno parte Thailandia, Indonesia, Malaysia, Filippine, Singapore e a cui si sono aggiunti successivamente anche Brunei, Vietnam, Laos, Birmania e Cambogia).

Questa nuova entità, data la sua strategicità tra l’Oceano Indiano e l’Oceano Pacifico, ben presto non solo ha stipulato accordi di cooperazione e associazione con la Comunità Europea instaurando un’importante partnership economica, ma è diventata – come l’“Asean Regional Forum” (ARF, 1994) e, soprattutto, l’“Asia-Pacific Economic Cooperation” (APEC, 1989, di cui fanno parte anche Cina, Russia e Stati Uniti) dimostrano – anche una regione fondamentale negli equilibri geostrategici del Pacifico in cui, date alcune fondamentali premesse, l’Unione Europea ha tentato di estendere la sua presenza.

Il dialogo inter-regionale

Infatti, dopo l’accresciuta visibilità internazionale conferita dal Trattato di Maastricht e l’avvio a livello globale da parte dei Paesi asiatici sud-orientali dell’“Asean dialogue partners”, il modello europeo è rimasto un punto di riferimento per il Sud-Est asiatico dopo la fine della contrapposizione est-ovest e fino al momento della crisi finanziaria che l’ha colpito fra il 1997 e il 1998: su proposta del Primo Ministro di Singapore è stato avviato l’“Asia-Europe Meeting” (ASEM, 1995), un dialogo inter-regionale con lo scopo di creare non solo più stretti legami commerciali e politici con un’Unione Europea all’epoca in corso di espansione, ma anche per far crescere il Sud Est asiatico sia dal punto di vista economico, sia dal punto di vista strategico, cercando cioè di bilanciare il potere di Giappone e Cina e di limitare l’influenza americana nel Pacifico.

L’ASEM ha rappresentato nel corso degli anni Novanta (e potrebbe rappresentare ancora oggi) uno degli strumenti principali della politica estera dell’Unione Europea ed ha indubbiamente contribuito allo sviluppo dell’Asia Sud-Orientale in più sensi: in primo luogo, l’ASEM ha permesso di rafforzare i vincoli commerciali, facendo dell’UE il secondo mercato di esportazione dei prodotti dei Paesi dell’ASEAM e il terzo partner commerciale dopo Stati Uniti e Giappone. Inoltre, il dialogo inter-regionale, avendo come presupposto il tentativo di costruire un’interdipendenza economica e politica fra Europa e un terzo polo regionale nel Pacifico, ha contribuito a creare e a diffondere un senso di identità regionale dell’Asia Sud-Orientale. Infine, l’ASEM ha permesso all’Unione Europea non solo di ridefinire le proprie relazioni con l’intero continente asiatico – a cominciare dall’“Associazione Sud-Asiatica per la Cooperazione Regionale” (SAARC) –, ma anche di creare un blocco di relazioni geopolitiche alternativo all’APEC, concorrendo direttamente con gli interessi di Stati Uniti e Cina su scala regionale e mondiale e costituendo un ambizioso progetto di gestione delle relazioni in un mondo globalizzato. La forza dell’ASEM è sembrata risiedere nel fatto che essa offre un nuovo canale di comunicazione e la possibilità di connettere fra loro Stati e organizzazioni appartenenti a due aree geografiche differenti e con una storia politica ed economica distante. Ma quanto è stato ed è effettivo questo inter-regionalismo? L’Europa è ancora così influente nella regione asiatica?

La crisi del modello europeo

La crisi economica che ha colpito i mercati finanziari sud-orientali alla fine degli anni Novanta sembra aver segnato, infatti, una svolta nei rapporti UE-ASEAN e, soprattutto, nell’idea che i Paesi dell’ASEAN hanno dell’Unione Europea stessa. I Paesi del Sud-Est asiatico sono sembrati progressivamente allontanarsi dell’Europa, manifestando scetticismo nei confronti della sua capacità di assurgere ad un ruolo di potenza globale con riferimento alle problematiche dell’area pacifica e allacciando forti relazioni con altri Paesi.

Come un rapporto del Comitato Economico e Sociale Europeo dello scorso mese di maggio ha sottolineato, il dialogo inter-regionale degli ultimi anni è risultato piuttosto debole e il dialogo con e tra le società civili ha dimostrato di essere ancora al di sotto delle potenzialità. Così anche le relazioni economiche non hanno fatto il salto di qualità che si auspicava. Emblematico ed allarmante è il caso del negoziato commerciale: mentre l’UE e l’ASEAN hanno concordato una pausa nei negoziati, l’ASEAN ha stretto accordi commerciali con le altre principali realtà geo-economiche mondiali (Cina, India, Australia; negoziati sono in corso con USA, Corea del Sud, Giappone).

L’Unione Europea, in effetti, nel corso degli ultimi dieci anni non è sembrata sforzarsi più di tanto nel consolidare il dialogo inter-regionale. Essa, piuttosto, è sembrata concentrarsi da un lato sul processo di allargamento interno e sulla ridefinizione della propria architettura costituzionale (cosa che ha richiesto tempo e denaro) e, dall’altro, sull’instaurazione di rapporti bilaterali con le altre potenze mondiali. Inoltre, nel corso delle conferenze dell’ASEM sono venute a galla differenze di fondo tra le due regioni, come il nodo del rispetto dei diritti umani in alcuni Paesi del Sud-est asiatico (innanzitutto il Myanmar) e l’eccessiva eterogeneità dei Paesi asiatici in questione che impedirebbe l’adozione di misure e politiche effettivamente incisive. Non di meno, la presenza di regimi dittatoriali all’interno dei Paesi asiatici sud-orientali e la mancanza di un principio di sovranazionalità nella organizzazione politica asiatica costituiscono un ostacolo per i leader politici europei e per il perseguimento degli obiettivi che l’inter-regionalismo si era prefisso. Infine, la progressiva ingerenza economica, politica, militare e culturale in quest’area dell’Asia da parte della Cina dopo l’ingresso nella World Trade Organization, unita alla crisi (e alla ricerca) di identità dell’Unione Europea e alla sua incapacità di adottare una visione globale nelle sue relazioni con l’Asia, hanno fatto in modo che l’ultimo decennio sia stato più “un’occasione mancata” che l’occasione per rafforzare la partnership con un’area considerata strategica per gli interessi dell’UE nel mondo.

L’ASEM, dunque, è sembrata essere una formula più simbolica che di sostanza e, quanto alla sua capacità di concorrere con l’APEC, essa, non essendo un’alleanza strategica, non è riuscita ad incidere sul bilanciamento dei poteri nel Pacifico, configurandosi, piuttosto, come uno strumento di “soft power”. Come l’Unione Europea può rispondere, allora, alla perdita di centralità nelle politiche asiatiche sud-orientali?

Le prospettive future

Probabilmente il futuro del dialogo inter-regionale fra Europa e ASEAM dipenderà da una serie di circostanze: innanzitutto dalla capacità dei due blocchi regionali di istituzionalizzare l’ASEM – eventualmente instaurando un meccanismo di “dialogo permanente” fra i leader politici – facendo si che si possa, da un lato, sviluppare il dibattito e l’effettività del rispetto dei diritti umani e, dall’altro, si possano colmare alcune differenze politiche e sociali tra i Paesi del Sud-Est asiatico e tra questi stessi e l’Unione Europea. Solo una comunanza di prospettive a livello politico e culturale potrebbe permettere il rilancio e l’implementazione della cooperazione economica, di un’area di libero scambio e della politica di cooperazione allo sviluppo. In secondo luogo, il futuro dell’ASEM dipenderà dall’evoluzione delle relazioni dell’Unione Europea con Cina e Giappone, nonché anche dalle relazioni fra Cina e Giappone stessi e dall’eventuale realizzazione del recente progetto americano di estendere la “Trans-Pacific Partnership” (TPP, che attualmente comprende Brunei, Singapore, Nuova Zelanda e Cile) anche agli USA, oltre che ad Australia, Perù e Vietnam.

Dal punto di vista della capacità di costruire, infatti, un modello alternativo all’APEC, i leader comunitari dovranno adottare nei confronti dei Paesi asiatici un approccio multilaterale, ossia considerare l’Asia non come un insieme di macroregioni, ma come il territorio di una possibile rete di rapporti tessuti sulla base di esigenze macroregionali inquadrate sullo sfondo più ampio di ciò che il continente asiatico rappresenta nella sua specifica globalità.

Dal momento che chi scrive ritiene che uno dei fattori principali della perdita di centralità dell’Europa nel Sud-Est asiatico risieda nella sua stessa incapacità di costituire un modello culturale come aveva fatto tra gli anni Cinquanta e Sessanta, uno strumento importante potrebbe essere – come il Comitato Economico e Sociale Europeo suggerisce – l’istituzione di una “fondazione europea” orientata specificatamente al dialogo sociale, civile, professionale ed interculturale UE-ASEAN. La capacità di diventare una potenza globale e concorrere in un “sistema uni-multipolare” passa, probabilmente, anche dalla capacità di presentarsi come un modello politico – sociale – culturale stabile e determinante nei rapporti di forza mondiali.

* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)

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Italia: 150 anni di una piccola grande potenza

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Editoriale
La geopolitica nell’Italia repubblicana (Tiberio Graziani)

Eurasiatismo
Homo Europaeus (Fabio Falchi)
Henry Corbin: l’Eurasia come concetto spirituale (Claudio Mutti)
L’Iran e la pace nel mondo (Alì Akbar Naseri)

Dossario ITALIA
Italia in pillole (Aldo Braccio)
Difendere la lingua italiana: un approccio geopolitico (Aldo Braccio)
Italia e Turchia negli anni di Erdoğan (Aldo Braccio)
La politica estera italiana (Alfredo Canavero)
L’Italia e l’India tra mito e storia (Côme Carpentier de Gourdon)
Chiesa e Stato (Alessandra Colla)
Più divisi di prima (Fabrizio Di Ernesto)
La debolezza strategica italiana (Luca Donadei)
Il made in China sfida il made in Italy (Caterina Ghiselli)
Geopolitica dell’energia: l’Italia nello scacchiere euro-mediterraneo (Dario Giardi)
Sulla cooperazione tra la Russia e l’Italia (Vagif Gusejnov)
Ahi serva Italia… (Gianfranco La Grassa)
Italia atomica (Alessandro Lattanzio)
La politica estera italiana nel Vicino Oriente (Pietro Longo)
Voglia di SpA (Fabio Mini)
Il veicolo linguistico del dominio statunitense (Claudio Mutti)
Il comunismo italiano nella seconda metà del Novecento. Prima parte (Costanzo Preve)
L’importanza della Russia per l’Italia (Daniele Scalea)

Continenti
Il caso Lettonia (Mariarosaria Comunale)
I rapporti sino-africani (Augusto Marsigliante)

Interviste
Giovanni Adamo, linguista, CNR (Aldo Braccio, Tiberio Graziani)
Roberto Albicini, esperto commercio internazionale (Enrico Galoppini)
Gianluigi Angelantoni, industriale (Tiberio Graziani, Antonio Grego)
Giovanni Armillotta, direttore “Africana” (Melania Perciballi)
Sergej Baburin, rettore Università Statale Russa di Commercio ed Economia (Tiberio Graziani, Daniele Scalea)
Pietrangelo Buttafuoco, giornalista e scrittore (Claudio Mutti)
Tarun Das, presidente Aspen Institute India (Daniele Scalea, Tiberio Graziani)
Paolo Guerrieri, vice-presidente Istituto Affari Internazionali (Daniele Scalea, Tiberio Graziani)
Luciano Maiani, presidente CNR (Luca Lauriola)
Sergio Romano, storico (Tiberio Graziani, Daniele Scalea)

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La geopolitica nell’Italia repubblicana

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Editoriale del numero 2/2010


Un Paese a sovranità limitata

Nonostante l’invidiabile posizione geografica e a dispetto dei caratteri che ne costituiscono la struttura morfologica, attualmente l’Italia non possiede una dottrina geopolitica.

Ciò è dovuto principalmente ai tre seguenti elementi: a) l’appartenenza dell’Italia alla sfera d’influenza statunitense (il cosiddetto sistema occidentale); b) la profonda crisi dell’identità nazionale; c) la scarsa cultura geopolitica delle sue classi dirigenti.

Il primo elemento, oltre a limitare la sovranità dello Stato italiano in molteplici ambiti, da quello militare a quello della politica estera, tanto per citare i più rilevanti per l’aspetto geopolitico, ne condiziona la politica e l’economia interne, le scelte strategiche in materia di energia, ricerca tecnologica e realizzazione di grandi infrastrutture e, non da ultimo, ne vincola persino le politiche nazionali di contrasto alla criminalità organizzata. L’Italia repubblicana, a causa delle note conseguenze del trattato di pace del 1947 ed anche in virtù dell’ambiguità ideologica del proprio dettato costituzionale, per il quale la sovranità apparterebbe ad una entità socioeconomica e culturale, peraltro mutevole e vagamente omogenea, il popolo, e non ad un soggetto politico ben definito come lo Stato (1), ha seguito la regola aurea del “realismo collaborazionista o claudicante”, ovverosia la rinuncia alla responsabilità di dirigere il proprio destino (2). Tale abdicazione situa l’Italia nella condizione di “subordinazione passiva” e lega le sue scelte strategiche alla “buona volontà dello Stato subordinante” (3).

Il secondo elemento inficia uno dei fattori necessari per la definizione di una coerente dottrina geopolitica. La crisi dell’identità italiana è dovuta a cause complesse che risalgono alla mal riuscita combinazione delle varie ideologie nazionali (di ispirazione cattolica, monarchica, liberale, socialista e laico-massonica) che hanno sostenuto il processo di unificazione dell’Italia, l’edificazione dello Stato unitario e, dopo la parentesi fascista, la realizzazione dell’attuale assetto repubblicano. La crisi dell’identità nazionale è dovuta, inoltre, anche alla mal digerita esperienza fascista e al trauma della perdita della guerra. La retorica romantica dello stato-nazione, il mito della nazione e, successivamente, quelli della resistenza e della “liberazione” non hanno reso certamente un buon servizio agli interessi dell’Italia, che, a centocinquanta anni dalla sua unificazione, è ancora alla ricerca della propria identità nazionale.

Il terzo elemento, infine, in parte ricollegabile per motivi storici ai precedenti, non permette di collocare la questione delle direttrici geopolitiche dell’Italia tra le priorità dell’agenda nazionale.

Eppure una sorta di geopolitica – o meglio una politica estera basata essenzialmente sulla collocazione geografica – rispondente agli interessi nazionali, e dunque eccentrica rispetto alle indicazioni statunitensi, esclusivamente dirette ad assicurare a Washington l’egemonia nel Mediterraneo, è stata presente nelle alterne vicende della Repubblica italiana. In particolare, l’attenzione di uomini di governo come Moro, Andreotti, Craxi come anche di importanti commis d’État come Mattei rivolta ai Paesi del Nordafrica e a quelli del Vicino e Medio Oriente, seppur limitata ai rapporti di “buon vicinato” e di “coprosperità”, era decisamente conforme non solo alla posizione geografica dell’Italia nel Mediterraneo, ma anche funzionale sia ad una potenziale, futura ed augurabile emancipazione dell’Italia democratica dalla tutela nordamericana, sia al ruolo regionale che Roma avrebbe potuto esercitare anche nell’ambito del rigido sistema bipolare. Tali iniziative avrebbero potuto ben costituire la base per definire le linee strategiche di quello che l’argentino Marcelo Gullo ha chiamato, nell’ambito dello studio della costruzione del potere delle nazioni, “realismo liberazionista”, e far transitare, pertanto, l’Italia dalla “subordinazione passiva” alla “subordinazione attiva”: uno stadio decisivo per ottenere alcuni spazi di autonomia nell’agone internazionale.

Il fallimento della modesta politica mediterranea dell’Italia repubblicana è da ascrivere, oltre che alle interferenze statunitensi, alla natura episodica con cui è stata esercitata e all’atteggiamento contrario e ostativo dei gruppi di pressione interni più filoamericani e prosionisti. Con la fine del bipolarismo e della cosiddetta Prima repubblica, però, le iniziative sopra esposte, dirette a ricavare un pur limitata autonomia delle politica estera italiana, sono decisamente sfumate.

Oggi l’Italia, quale paese euromediterraneo subordinato agli interessi statunitensi, si trova in una situazione molto delicata, giacché oltre a risentire, in quanto membro dell’Unione Europea e della NATO, delle tensioni tra gli USA e la Russia presenti nell’Europa continentale, in particolare in quella centrorientale (vedi la questione polacca per quanto concerne la “sicurezza”, oppure quella energetica), subisce soprattutto i contraccolpi delle politiche vicino e mediorientali di Washington. Inoltre, la soggezione dell’Italia agli USA, che – occorre ribadirlo – si esprime attraverso una evidente limitazione della sovranità dello Stato italiano, esalta i caratteri di fragilità tipici delle aree peninsulari (tensione tra la parte continentale, seppur limitata nel caso dell’Italia, e quelle più propriamente peninsulare ed insulare), aumenta le spinte centrifughe, rendendo difficoltosa persino la gestione della normale amministrazione dello Stato.

Militarmente occupata dagli USA – nell’ambito dell’“alleanza” atlantica – con oltre cento basi (4), priva di risorse energetiche adeguate, economicamente fragile e socialmente instabile per la continua erosione dell’ormai agonizzante “stato sociale”, l’Italia non possiede gradi di libertà tali da permetterle di valorizzare il suo potenziale geopolitico e geostrategico nelle sue naturali direttrici costituite dal Mediterraneo e dall’area adriatico-balcanico-danubiana, se non nel contesto delle strategie d’oltreatlantico, a esclusivo beneficio, dunque, degli interessi extranazionali ed extracontinentali.

Le opportunità per l’Italia di ricavarsi un proprio ruolo geopolitico risultano dunque esterne alla volontà di Roma; esse risiedono nelle ricadute che l’attuale evoluzione dello scenario mondiale – ormai multipolare – provoca nel bacino mediterraneo e nell’area continentale europea. I grandi rivolgimenti geopolitici in atto, determinati principalmente dalla Russia, infatti, potrebbero esaltare la funzione strategica dell’Italia nel Mediterraneo proprio nell’ambito dell’assetto e del consolidamento del nuovo sistema multipolare e della potenziale integrazione eurasiatica.

Occorre, infatti, tener presente che la strutturazione di questo nuovo sistema geopolitico multipolare passa, per ovvie ragioni, attraverso il processo di disarticolazione o ridimensionamento di quello “occidentale” a guida nordamericana, a partire dalle sue periferie. Queste ultime sono costituite, considerando la massa euroafroasiatica, dalla penisola europea, dal bacino mediterraneo e dall’arco insulare giapponese.


Russia e Turchia: i due poli geopolitici

I recenti mutamenti del quadro geopolitico globale hanno prodotto alcuni fattori che potrebbero dunque facilitare lo “svincolamento” di gran parte dei paesi che costituiscono il cosiddetto sistema occidentale dalla tutela dell’”amico americano”. Ciò metterebbe potenzialmente Roma in grado di attivare una propria dottrina geopolitica coerente col nuovo contesto mondiale.

Come noto, la riaffermazione della Russia a livello mondiale ed il protagonismo della Cina e dell’India hanno provocato un riassestamento delle relazioni tra le maggiori potenze e posto le premesse per la costituzione di un nuovo ordinamento, basato su unità geopolitiche continentali a partire, non da rapporti di forza militare, ma da intese strategiche. Tali mutamenti si registrano anche nella parte meridionale dell’emisfero occidentale, l’ormai ex cortile di casa degli USA, ove i rapporti di Brasile, Argentina e Venezuela con le potenze eurasiatiche sopra citate hanno fornito nuovo slancio alle ipotesi dell’unità continentale sudamericana. Relativamente all’area mediterranea, il principale tra questi nuovi fattori geopolitici è costituito dall’inversione di tendenza impressa da Ankara alle sue ultime politiche vicino e mediorientali. Lo strappo di Ankara da Washington e Tel Aviv potrebbe assumere, nel medio periodo, una valenza geopolitica di vasta portata ai fini della costituzione di uno spazio geopolitico eurasiatico integrato, giacché rappresenta un primo atto concreto sul quale è possibile innescare il processo di disarticolazione (o di limitazione) del sistema occidentale a partire dal bacino mediterraneo.

Date le condizioni attuali, i poli geopolitici sui quali un’Italia realmente intenzionata ad emanciparsi dalla tutela nordamericana dovrebbe far perno sono rappresentati proprio dalla Turchia e dalla Russia. Un allineamento di Roma alle indicazioni turche in materia di politica vicinorientale fornirebbe all’Italia la necessaria credibilità, pesantemente offuscata dalle sue vassallatiche relazioni con Washington, per imprimere un senso geopolitico alla stanca politica di cooperazione che da anni la Farnesina intrattiene con la sponda sud del Mediterraneo ed il Vicino Oriente. La metterebbe, inoltre, insieme (e grazie) all’alleato turco, nelle condizioni, se non proprio di denunciare il patto atlantico, almeno in quelle necessarie per rinegoziare l’oneroso e avvilente impegno in seno all’Alleanza, e per prospettare, simultaneamente, la riconversione dei siti militari presidiati dalla NATO in basi utili alla sicurezza del Mediterraneo. L’Italia e la Turchia, insieme agli altri paesi rivieraschi del Mediterraneo, potrebbero in tal caso realizzare un sistema di difesa integrato sull’esempio dell’Organizzazione del trattato di sicurezza collettiva (OTSC).

Nell’attuazione di questa “exit strategy” dai vincoli statunitensi, sopra sinteticamente abbozzata, Roma troverebbe validi sostegni, oltre che ad Ankara, anche a Tripoli, Damasco e Teheran e, ovviamente, Mosca. Quest’ultima, peraltro, sosterrebbe certamente Roma nella uscita dall’orbita nordamericana, favorendo la sua naturale proiezione geopolitica nella direttrice adriatico-balcanico-danubiana nel quadro, ovviamente, di un’intesa italo-turco-russa costruita sui comuni interessi nel cosiddetto Mediterraneo allargato (costituito dai mari Mediterraneo, Nero, Caspio).


* Tiberio Graziani è direttore di “Eurasia” e presidente dell’IsAG (Istituto di Alti Studi in Geopolitica e Scienze Ausiliarie).


1. Riguardo allo studio della genesi del primo articolo della Costituzione e in particolare al secondo comma (La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione), nonché alla mancanza di un articolo specifico della Costituzione dedicato allo Stato ed alla sua sovranità, come auspicato da Dossetti, si veda Maurizio Fioravanti, Costituzione e popolo sovrano, il Mulino, Bologna 2004, p.11 e pp. 91-98.

2. Marcelo Gullo, La insurbodinación fondante, Editorial Biblos, Buenos Aires 2008, p. 26-27.

3. Marcelo Gullo, ibid.

4. Fabrizio Di Ernesto, Portaerei Italia. Sessant’anni di NATO nel nostro Paese, Fuoco Edizioni, Roma 2009.

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Per gli arabi, Obama non ha cambiato la politica americana in Medio Oriente

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Fonte: Votairenet

Ogni anno, l’organizzazione di sondaggio Zogby, ha condotto uno studio sulla percezione della politica USA nel mondo arabo (vedi allegato in fondo a questa pagina).
I risultati 2010 indicano in particolare che:
Gli arabi, che erano stati sedotti da Barack Obama e dal suo discorso al Cairo, ora sono delusi. Ritengono che la nuova amministrazione statunitense è meno islamofoba, non ha davvero cambiato la sua politica regionale. Washington continua a sostenere ciecamente Israele e ad occupare l’Iraq.
Gli arabi credono che l’Olocausto sia strumentalizzato per creare simpatia per Israele a scapito degli arabi. Sono quindi preoccupati per l’abbondanza di programmi televisivi e film su di esso.
La maggioranza degli arabi è convinta dai media che l’Iran stia perseguendo un programma nucleare militare segreto. Tuttavia, c’è un ancor più ampia maggioranza convinta che Teheran abbia il diritto di acquisire la bomba e che ciò riequilibri il Medio Oriente, è possibile che esprimano solo un desiderio, più che una convinzione definitiva.
La Francia rimane la superpotenza più popolare tra gli arabi.
I tre leader politici più popolari nel mondo arabo non sono arabi, ma turco (Recep Erdogan), venezuelano (Hugo Chavez) e iraniano (Mahmoud Ahmadinejad). I tre leader arabi più popolari tra gli arabi sono il libanese Hassan Nasrallah, il siriano Bashar al-Assad e Sheikh bin Rashid Al Maktoum degli Emirati.

2010 Arab Public Opinion Poll
(http://www.voltairenet.org/IMG/pdf/2010_Arab_Public_Opinion_Poll.pdf)
(PDF – 808,1 kb)

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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A Mosca e in ambito internazionale, Putin segna punti

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Fonte: Voltairenet

Nel contesto della guerra tra leader che infuria a Mosca, molte decisioni dimostrano il vantaggio del primo ministro Vladimir Putin sul suo “amico trentennale” ed ora rivale, il presidente Dmitrij Medvedev.
Putin è riuscito a far fallire l’accordo tra i presidenti russo e francese per l’acquisto della Mistral. Dal momento dell’annuncio dal presidente Nicolas Sarkozy di questo contratto, abbiamo segnalato, in queste colonne, che Putin sospettasse l’istituzione di un sistema di appalti e sub-appalti tra i due, e ha cercato di sabotarlo. In definitiva, un’offerta è stata lanciata, annullando le promesse di Medvedev. E sapendo che la Mistral non è affatto adatto alle esigenze della marina russa, l’esito della procedura senza dubbio si svolgerà normalmente. L’offerta sarò molto probabilmente vinta dalla OSK, la società statale presieduta da Igor Sechin, vice di Vladimir Putin.

Dopo la votazione sulla risoluzione 1929 del Consiglio di Sicurezza, una gravissima cacofonia si era creata a Mosca, gli uomini di Putin annunciavano che il testo non metteva in discussione la fornitura dei missili S-300 all’Iran, mentre il Presidente Medvedev affermava il contrario. In ultima analisi, il presidente aveva formalmente tagliato corto in favore dell’embargo e dichiarato chiuso il caso. Tuttavia, il 20 agosto, mentre la stampa del Medio Oriente annunciava che elementi degli S300 sono venivano inviati in segreto, il ministro della Difesa, Anatolij Serdjukov, contraddiceva il presidente, dichiarando che “nessuna decisione concreta è stata presa”.

Con anni di ritardo, la Russia ha avviato oggi la centrale nucleare di Bushehr (Iran), anche se gli Stati Uniti, Canada e Unione europea hanno compiuto notevoli sforzi per dissuaderla. Il Presidente Medvedev s‘era allineato alla posizione atlantista (embargo su tutte le forniture di energetiche), mentre il primo ministro Putin ha apertamente sostenuto l’ambizione iraniana all’indipendenza energetica. Il ministro degli Esteri Sergej Lavrov, ha anche fatto una dichiarazione provocatoria, presentando l’avvio dell’impianto come atto di fiducia dell’Iran verso la comunità internazionale.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La partenza di una nave di donne libanesi per Gaza

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Fonte: Voltairenet

Una barca lascerà Domenica, 22 agosto 2010, il porto di Tripoli (Libano) per portare aiuti alla popolazione della Striscia di Gaza.
Questa spedizione umanitaria, che consentirà di bypassare il blocco istituito illegalmente da Israele, è esclusivamente guidata da donne di tutte le provenienze e fedi, famose o sconosciute. Sarà quindi il governo israeliano ad assaltare delle donne indifese, qualora intenda proseguire il blocco.
L’annuncio di questa spedizione ha suscitato grande preoccupazione a Tel Aviv. Israele, per bocca del suo ambasciatore ha già occupato per tre volte il Consiglio di Sicurezza su questa materia, mentre il Quartetto per il Medio Oriente (ONU, USA, Russia e Unione Europea) ha invitato le due parti alla calma.
Essendo Israele in guerra contro il Libano, la legge libanese non permette di noleggiare una nave per Gaza. Era stato programmato di fare transitare la nave da Cipro. Tuttavia, il governo cipriota ha vietato lo scalo. Davanti all’emozione dell’opinione pubblica libanese, Beirut potrebbe concedere una deroga alla spedizione umanitaria, o potrebbe farla passare dalla Grecia o dalla Turchia.
Questa iniziativa proviene dalla libanese Samar al-Hajj, già nota per i suoi sforzi per migliorare le condizioni di detenzione dei prigionieri di diritto in Libano e per la loro riabilitazione. La signora al-Hajj è la moglie dell’ex capo della polizia del Libano, generale Ali Salah al-Din al-Hajj, che era stato ingiustamente accusato di essere coinvolto, con altri tre generali, nell’assassinio dell’ex primo ministro Rafik Hariri. Era stata arrestata illegalmente, come lui e il loro figlio maggiore, dagli investigatori del Consiglio di sicurezza, su ordine di Detlev Mehlis. Durante la detenzione illegale, gli inquirenti, che parlavano ebraico tra di loro, hanno cercato di dividere la famiglia, presentando false prove di legami adulterini. Resistendo a tutte le menzogne e tutte le pressioni, Samar al-Hajj non aveva mai smesso di difendere il marito e di lottare per la sua liberazione e quella dei suoi colleghi. In definitiva, l’innocenza dei quattro generali era stata riconosciuta da Daniel Bellemare (successore di Mehlis a procuratore del Tribunale speciale per il Libano), e sono stati rilasciati in trionfo, dopo tre anni e otto mesi di ingiusta detenzione.
La decisione di avviare la spedizione è stata presa dopo che Hassan Nasrallah, segretario generale di Hezbollah, ha invitato tutte le persone di buona volontà a prendere esempio dalla flotta della pace e a rompere il blocco illegale che strangola il popolo di Gaza.
La nave delle donne, ribattezzata Mariam, è stata posta sotto la protezione di Maria, Madre di Gesù, una figura ebraica che incarna la pace sia per i musulmani che per i cristiani.

[Ultimo minuto: la partenza della Mariam è stata ritardata. Gli organizzatori sono in attesa di una deroga del diritto libanese o dell’autorizzazione al transito attraverso Grecia e Turchia.
Nel pomeriggio di Sabato 21 Agosto, il ministro israeliano della Difesa Ehud Barak, era in collegamento telefonico con gli alleati chiave: il Segretario di Stato (Hillary Clinton), il consigliere per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti (Jim Jones) e il ministro francese degli Affari Esteri (Bernard Kouchner). I quattro responsabili hanno cercato di sviluppare un piano per impedire la partenza della nave, o il suo sabotaggio in mare].

«Second letter from Israel to the UN Secretary General regarding two ships that seek to break the naval closure of Gaza», ambasciatrice Gabriela Shalev, Réseau Voltaire, 21 luglio 2010. (http://www.voltairenet.org/article166433.html)
«Statement by the Middle East Quartet», Voltaire Network, 21 Giugno 2010. (http://www.voltairenet.org/article166005.html)
«Letter from Israel to the UN Secretary General», ambasciatrice Gabriela Shalev, Réseau Voltaire, 18 Giugno 2010. (http://www.voltairenet.org/article166048.html)

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Smart Power: Clinton lancia il GHI

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Fonte: Voltairenet

La segretaria di Stato degli Stati Uniti, Hillary Clinton, ha lanciato il 16 Agosto 2010 l’Iniziativa Globale degli Stati Uniti nel campo della salute (Global Health Initiative – GHI).
Gli Stati Uniti hanno deciso di interrompere gli aiuti alla lotta contro malattie specifiche e di sostituirli con un aiuto ai sistemi sanitari. Si prevede di sostenere 20 paesi, tra cui 8 sono già stati selezionati (Bangladesh, Etiopia, Guatemala, Kenya, Malawi, Mali, Nepal e Ruanda).
“Le azioni riguarderanno il miglioramento e la sostenibilità dei sistemi sanitari, lo sviluppo di migliori metodi di raccolta dei dati, monitoraggio e valutazione, promozione della ricerca e innovazione, e rafforzamento dell’impegno a favore delle organizzazioni multilaterali, partner nella salute globale e del settore privato, e lo sfruttamento del loro ruolo”.
Il GHI è un’applicazione del programma di Smart Power, definita dalla commissione bipartisan Armitage-Nye del CSIS (2007), che guida l’azione della signora Clinton. L’idea generale è che questo tipo di investimento è il meno costoso per gli Stati Uniti, per migliorare la loro immagine all’estero.
Nel maggio 2009, il presidente Barack Obama aveva chiesto 8,6 miliardi dollari al Congresso per finanziare questa iniziativa, nel corso dell’anno fiscale 2010. Il suo piano prevedeva un bilancio totale di 63 miliardi di dollari in sei anni. Il GHI è stato presentato in dettaglio al Senato, il 10 marzo 2010, da Hillary Clinton e dal filantropo Bill Gates (Microsoft).

Documenti:
Smart Power: A Smarter, More Secure America, relazione presentata da Joseph Nye e Richard Armitage (CSIS, 2007).
(http://csis.org/files/media/csis/pubs/071106_csissmartpowerreport.pdf)
Smart Global Health Policy, relazione presentata dall’ ammiraglio Wiiliam Fallon e da Helene Gayle (CSIS, 2010). (http://www.voltairenet.org/IMG/pdf/Healthier_World.pdf)
Discorso di Hillary Clinton: “L’iniziativa globale degli Stati Uniti nella sanità”, 16 agosto 2010. (http://www.voltairenet.org/article166781.html)

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Mar Cinese Meridionale: il conflitto per la supremazia regionale visto dai “piccoli” Stati

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1. Introduzione

Il Mar Cinese Meridionale è teatro di un vasto conflitto carsico che coinvolge nazioni leader a livello globale, medie potenze e altri Stati del Sudest Asiatico. Un avvenimento recente ha fatto risorgere la questione: nell’aprile 2010, la flotta meridionale cinese ha condotto delle esercitazioni militari, simulando una battaglia navale con la flotta cinese proveniente dal nord e quando quest’ultima tornava ai porti di origine, la flotta orientale ha condotto altre esercitazioni nello stretto di Luzon. È la prima volta che la Cina ostenta un tale spiegamento di forze.
Mentre al riemergere di questo conflitto i riflettori sono puntati quasi esclusivamente verso Cina e Stati Uniti, in Europa viene dato poco spazio agli altri attori, che hanno dinamiche ed interessi altrettanto concreti e ben più diretti rispetto ai due grandi protagonisti. In Italia è pressoché sconosciuto.
L’obiettivo di questo articolo è fornire una panoramica generale di questo contenzioso, analizzare i rapporti di forza dei “piccoli” Stati, formulando nelle conclusioni possibili soluzioni, seppur parziali, a loro favore.

2. Alle radici del conflitto

Il Mar Cinese Meridionale è la rotta più breve per le linee di navigazione fra India e Cina e le rispettive periferie (Golfo Persico, Giappone e Corea). Su questo mare sono presenti due arcipelaghi oggetto di disputa territoriale da parte di tutti gli stati rivieraschi: le isole Paracel e Spratly.
Storicamente, queste isole erano conosciute come approdi per pescatori e cacciatori di tartarughe, ma sono sempre state utilizzate come transito e mai abitate in modo permanente data la ridotta dimensione delle isole: in concreto, le isole sono poche, mentre vi sono numerosi scogli, banchi e atolli, spesso esistenti solo con la bassa marea. Economicamente non avevano alcun valore, salvo per una risorsa utilizzata verso fine ‘800 e nella prima metà del ‘900: il guano, composto organico sfruttato da mercanti giapponesi come fertilizzante e combustibile. Dopo i giapponesi, nessuno ha più portato avanti lo sfruttamento di tale risorsa in modo effettivo.
Durante “il secolo Europeo” i due arcipelaghi erano considerati inizialmente solo un intralcio e pericolosi per la navigazione. Nel 1926, con la sempre maggiore ingerenza giapponese per apparenti fini commerciali (il guano sembra essere più una copertura per intaccare nei fatti il dominio europeo di quei mari), la Repubblica di Cina rivendica le due aree e nel 1930 la Francia le rivendica a sua volta come rappresentante dei diritti dell’Impero dell’Annam, che con l’imperatore Gia Long aveva ufficialmente rivendicato le isole Paracel già nel 1816. La Gran Bretagna dichiarò la sovranità per le Spratly nel 1877, ma il Foreign Office non protestò mai più di tanto sull’occupazione francese.
Dopo la fine della Seconda Guerra Mondiale, il Giappone rinuncia nei trattati di pace con i vari paesi, fra cui la Cina, a qualsiasi diritto sulle isole Paracel e Spratly (oltre che alle Pratas), senza però cedere formalmente tali diritti ad un altro Stato.
Dal 1951 al 1956 vi è una corsa per accaparrarsi le isole tra Taiwan, Francia (poi Vietnam del Sud) e Filippine, ma fino al 1974 la questione si cristallizza: nel 1974, mentre il Vietnam del Nord avanza verso il sud, la Repubblica Popolare Cinese occupa e scaccia l’esercito sudvietnamita dalle Paracel. Nel 1977 l’esercito cinese sbarca su 3 delle isole Spratly, già abbandonate dal regime di Saigon, il che innesca la rapida caduta dei rapporti fra Hanoi e Pechino: dato che il Vietnam era nuovamente un paese unito e non aveva più bisogno del supporto cinese, vennero portate di nuovo alla luce le ambizioni sui due arcipelaghi. A completare il quadro, Malaysia e Brunei Darussalam avanzano rivendicazioni rispettivamente nel 1979 e nel 1984.
Nel 1982, l’entrata in vigore della Convenzione di Montego Bay sul Diritto del Mare (United Nations Convention on the Law of the Sea – UNCLOS) porta ad una nuova fase di questo contenzioso: gli Stati possono dichiarare Zone Economiche Esclusive (EEZ) fino a 200 miglia nautiche dalla linea di base e sfruttare la Piattaforma Continentale fino a 350 miglia; all’interno delle EEZ gli Stati hanno un diritto esclusivo a sfruttare tutte le risorse [1].
Oggi, le Spratly sono in parte rivendicate da Brunei, Filippine e Malaysia, in toto da Vietnam, Repubblica Popolare Cinese e Repubblica di Cina (Taiwan): con l’eccezione del Brunei, tutti gli altri paesi occupano militarmente alcune isole, per garantire e rafforzare le loro rivendicazioni.
Per le Paracel, il contenzioso riguarda solo Vietnam, Cina e Taiwan. L’arcipelago è sotto controllo militare di Pechino. In entrambi i casi si è scatenata la guerra della toponomastica: Hoang Sa e Xisha sono i nomi rispettivamente vietnamita e cinese delle Paracel, mentre le Spratly sono conosciute come Truong Sa, Nansha e Kalayaan da vietnamiti, cinesi e filippini.

3. La posta in gioco

L’importanza di questo conflitto è da analizzarsi sotto 3 aspetti: logistico/commerciale, risorse ittiche, risorse energetiche, tutti strettamente legati alla sicurezza, militare e non, dei paesi parte nel contenzioso.
Dal punto di vista logistico, il Mar Cinese Meridionale risulta essere, su scala mondiale, la seconda rotta per il trasporto di container. Infatti, nel 2006 il 50% dei container transitava per questo mare, con una rotta fra le isole Spratly e le Paracel. Sempre nel 2006, 10 milioni di barili di greggio al giorno transitavano per lo stesso percorso.
Nei tempi antichi l’area risultava essere importantissima per il commercio fra Cina e India e oggi, con importanti paesi industrializzati e in via di industrializzazione, è la via per qualsiasi trasporto merci, oltre ad essere la via più semplice per l’approvvigionamento di petrolio dal Golfo Persico, non solo per l’Asia, ma anche per altri continenti. Un punto sensibile alla navigazione del Mar Cinese Meridionale resta tuttora lo stretto di Malacca, passaggio quasi obbligato e di sovraffollamento, zona che vede ancora la presenza di pirati. Non vi sono analoghi rischi di pirateria nell’area in esame, se non casi sporadici, ma sono state numerose le imbarcazioni appartenenti a Vietnam, Cina e Filippine sequestrate da uno di questi paesi con il pretesto di attività illegali nelle acque di competenza o violazione dei confini, soprattutto per la pesca.
Il diritto alla libertà di navigazione non è messo in discussione. Ciononostante, diversi stati asiatici e non, vedono con un certo timore le rivendicazioni nel Mar Cinese Meridionale, in primis nel caso che un conflitto possa arrecare danno al commercio di transito e in secondo luogo, ben più rilevante, esiste un certo timore di ritorsione economica nel caso fosse rallentato il traffico, di idrocarburi in primis. Una nazione come il Giappone, che dipende fortemente da risorse energetiche esterne, ha tutto l’interesse a mantenere ottimi rapporti con il Vietnam e le Filippine, mentre è noto l’attrito secolare che intercorre tra Tokyo e Pechino, a cui si aggiungono analoghe controversie nel Mar Cinese Orientale. Il progettato oleodotto e gasdotto che dovrebbe portare nuovo approvvigionamento dalla Russia non sarebbe sufficiente per ridurre la dipendenza dal Mar Cinese Meridionale. La Corea si trova in una situazione analoga.
La pesca è un argomento di grande importanza, anche se spesso sottostimato rispetto ad altre tematiche. I paesi della regione sono tra i maggiori produttori mondiali nei settori della pesca e dell’acquacoltura con ingenti introiti derivanti dall’export.
Dal punto di vista alimentare, i paesi rivieraschi del Sudest Asiatico ricevono il 50% delle proteine della loro dieta dal pesce e da prodotti marini. Quindi, oltre ad essere una importante risorsa economica è anche una risorsa culturale, nonché, ben inteso, una necessità per la popolazione. Con gli aumenti generalizzati dei prezzi delle derrate alimentari e con l’aumento del prezzo del gasolio anche per le imbarcazioni, portare avanti le proprie rivendicazioni per controllare vaste estensioni fornisce una maggiore sicurezza alimentare e permette, in parte, una migliore gestione e sostenibilità delle risorse ittiche nell’area di propria “giurisdizione”.
Fonti della FAO informano che oltre il 75% delle risorse ittiche mondiali è completamente sfruttato, sovrasfruttato o significativamente impoverito [2]: il Mar Cinese Meridionale non ne è immune e tale problema si riscontra in tutti i paesi rivieraschi. Anche se per questioni tecniche e tecnologiche la pesca d’altura non è molto praticata da questi paesi, le migrazioni di banchi di pesci verso le zone costiere non alleggeriscono il problema. Inoltre, paesi industrializzati come il Giappone (e Taiwan in scala ridotta) possiedono tale tecnologia e già da decenni i pescherecci nipponici solcano qualunque mare. Con la sua formidabile crescita economica, la Cina ha la possibilità di dotarsi di una moderna flotta, affiancando quindi il Giappone nello sfruttamento dei mari ad essa contigui.
Infine, il tema che risulta più delicato nella regione è la presenza di petrolio, gas e altri minerali sui fondali marini.
Le risorse accertate di petrolio nel Mar Cinese Meridionale risultano essere 7,7 miliardi di barili, ma si stima che vi siano riserve pari a 28 miliardi di barili e la presenza di oltre 753 miliardi di mc di gas naturale [3]. Al momento, i dati sono molto incerti e vi sono stati molti studi (non accessibili al pubblico) sulle potenziali riserve di gas e petrolio: la Cina stima rispettivamente 213 e 105 miliardi di barili fra Spratly e Paracel. Ma altri studi cinesi parlano di riserve equivalenti-petrolio di 225 miliardi di barili nelle sole Spratly di cui 60-70% in gas, ovvero 255 trilioni di mc, mentre un’altra stima per tutto il Mar Cinese Meridionale si eleverebbe a 566 trilioni di mc [4].
Fino ad oggi, non è stata portata a termine alcuna trivellazione per prospezione nelle aree contese, quindi non esistono stime di riserve provate nelle Spratly o nelle Paracel [5]. In particolare gli attriti tra Vietnam e Cina hanno fisicamente impedito le prospezioni petrolifere nell’area, a cui è seguito un ritiro volontario delle compagnie petrolifere stesse dalla parte sud del Mar Cinese Meridionale in mancanza di una sicura legittimazione. Nonostante altre zone siano molto ricche di petrolio e gas, non è possibile certificarne la presenza sul’area delle isole in discussione.
Vista la gran fame di energia che caratterizza sia i paesi industrializzati sia i paesi in via di sviluppo, sembra difficile avvicinarsi ad una soluzione del problema, particolarmente nelle Spratly.
Nel 1995 la Cina ha occupato il Mischief Reef erigendo costruzioni, ma una escalation armata è stata in parte scongiurata e i paesi ASEAN si sono accordati per cooperare in ricerca scientifica, contro pirateria e traffico di droga e hanno discusso sulle EEZ. Un ulteriore passo in avanti risulta dalla proposta congiunta di Vietnam e Filippine del 1999 sottoposta agli altri paesi dell’ASEAN che, nel novembre 2002, ha visto la nascita di un documento di Code of Conduct nel Mar Cinese Meridionale, firmato da tutti i paesi ASEAN e la Cina, in cui gli stati si impegnano a risolvere le loro controversie senza ricorrere all’uso della forza. Anche se nei fatti tale documento non assicura un comportamento corretto delle parti, fino ad ora tutti gli stati hanno sempre evitato l’uso della forza.
Vista l’importante valenza geopolitica dell’area, ogni paese sta portando avanti da diverso tempo le proprie strategie per vedere riconosciuti i propri diritti, aumentare il proprio peso o mantenere lo status quo. Ad ogni modo, tutte queste nazioni del Sudest Asiatico vedono la presenza cinese con diffidenza, con maggiore o minore intensità.

4. I paesi nel conflitto: punti di vista, dinamiche e forze in campo

Tra le nazioni in esame, il Vietnam ha un ruolo di primo piano alla luce delle sue capacità militari, economiche e demografiche che possono renderlo, in futuro, una Media Potenza e una Potenza Regionale nell’ambito del Sudest Asiatico. Oggi, gli analisti militari ed economici vedono il Vietnam come futuro leader in ambito ASEAN assieme all’Indonesia, leader storico dell’Associazione.
Tale disegno geopolitico è ben chiaro alla luce delle rivendicazioni di Hanoi: il Mar Cinese Meridionale dovrebbe diventare un “Mare Nostrum” con il possesso in toto di Paracel e Spratly e quindi far passare la rotta commerciale da e per lo stretto di Malacca quasi esclusivamente nelle proprie acque. Concretamente non ha alcuna presenza nelle Paracel, mentre oltre la metà delle Spratly è sotto controllo vietnamita.
Per quanto concerne le Spratly, nel 1988 vi è stata uno scontro navale (e sbarchi terrestri) fra le marine militari di Vietnam e Cina nei pressi del Johnson Reef, con 70 morti da parte vietnamita e limitate perdite e danni per i cinesi. Come risultato di questo scontro, Pechino riuscì ad occupare 6 ulteriori postazioni nelle Spratly a scapito di Hanoi.
Il Vietnam considera la presenza cinese minacciosa e porta avanti con forza la propria posizione e con la crescita economica sta effettuando un ammodernamento dell’apparato militare, navale in primis con l’acquisto di sommergibili russi. La Cina, dal canto suo, alterna momenti di quiete ad azioni mirate al possesso degli arcipelaghi. Un fatto di particolare tensione soprattutto per il Vietnam è l’annuncio del dicembre 2007 della costruzione di una città sulle isole occupate. La città è un pretesto, ma l’atto politico di integrarle amministrativamente con la provincia di Hainan ha scatenato manifestazioni degli studenti vietnamiti davanti all’ambasciata cinese. Ancora adesso risulta essere una protesta spontanea (ovviamente non frenata dal governo), la prima nella storia del Vietnam unito.
Le Paracel risultano molto più importanti per la sicurezza nazionale del Vietnam. Non solo il paese si vede fortemente limitato dal punto di vista marittimo, con la vicinanza di tali isole, ma eventuali postazioni militari cinesi risulterebbero ledere fortemente la sicurezza di tutto il paese, dal nord al sud. Data la distanza dagli estremi geografici del Vietnam, una base militare rappresenterebbe un ricatto verso il paese e una stazione di telecomunicazioni raccoglierebbe qualsiasi tipo di informazione. Ciononostante, le isole sono troppo piccole per poter collocarvi serie installazioni militari e il lavoro di Intelligence può essere svolto da satelliti con uffici a Pechino con le attuali tecnologie. Di rimando, il Vietnam potrebbe acquistarne anch’esse per il controspionaggio.
L’importanza è ulteriormente ridimensionata, ma sempre rilevante, dalla nuova base di sottomarini nucleari a Sanya, sulla costa meridionale dell’isola di Hainan. In tale ottica le Paracel rappresentano un bilanciamento, seppur minimo, a favore del Vietnam sia di natura difensiva sia territoriale verso sud, nel caso molto improbabile che ne riottenesse il possesso.
Il Vietnam ha tutte le intenzioni di far diventare la questione una priorità in ambito ASEAN visto il suo ruolo di presidente dell’Associazione nel 2010. Sia l’esercitazione militare della marina cinese l’aprile scorso sia il peso delle relazioni di Hanoi con alcuni stati ASEAN fanno presagire maggiori chances di riuscita.
Esistono forti difficoltà dato che nessun’altra nazione ASEAN rivendica le Paracel e difficilmente verrebbe a crearsi un fronte compatto in favore del Vietnam. Non essendo interessati e avendo comunque importanti legami economici e commerciali con la Cina, paesi come le Filippine, la Malaysia e il Brunei non vogliono inimicarsi Pechino, stessa cosa per altre nazioni più distanti (Singapore) o senza interessi marittimi (Thailandia). Nei fatti, tali ipotesi si sono concretizzate nel dicembre 2000, quando durante la delimitazione del Golfo del Tonchino fra Vietnam e Cina, il primo voleva includere nell’accordo un Code of Conduct anche per le Paracel, progetto non supportato in ambito ASEAN, forse per i sospetti di Brunei, Filippine e Malaysia nei confronti di Hanoi di fare delle Spratly una zona militarizzata (anche se il governo vietnamita sembra non considerare per nulla quest’ipotesi) e per la vastità dell’area rivendicata dai vietnamiti.

Le Filippine sono in prima fila nel contenzioso qui trattato reclamando la quasi totalità delle Spratly e pattugliano lo Scarborough Reef ad ovest di Luzon. Nel marzo 2009, con la Philippine Baselines Law, la presidente Arroyo ha rafforzato le rivendicazioni nell’area con un maggiore supporto legislativo.
Le Filippine sono le più vicine geograficamente alle Spratly, ma dopo il ritiro delle truppe statunitensi nel 1992 risultano avere un apparato di sicurezza particolarmente fragile che, aggiunto a problemi di natura interna, ne fanno l’attore più debole nel contenzioso.
La debolezza è visibile dalla presenza nell’area: solo una piccola parte del territorio controllato da Manila è direttamente occupata o a portata di controllo e di azione, mentre la gran parte è considerata “virtualmente” occupata, caso unico tra i paesi rivieraschi.
Questo stato di fatto è causa dell’incidente di Mischief Reef, che a sua volta ha causato una difficoltà cronica in azioni più o meno concrete a tutela delle rivendicazioni filippine. Nel 1995, le autorità filippine scoprirono nel Mischief Reef costruzioni in legno, rifugi per pescatori secondo i cinesi. A distanza di anni, le costruzioni si sono espanse col cemento comprendendo edifici circolari, molto verosimilmente radar. In aggiunta, esiste anche una mappa (non ufficiale) per nuove strutture, forse per l’attracco di navi e anche una pista aerea artificiale.
La gravità della situazione nasce dalle reazioni filippine che si sono fermate a livello verbale. La spiegazione sta nella fragilità dell’apparato difensivo filippino, ricordando quanto successe nel 1988 sul Johnson Reef al Vietnam, nazione con strutture militari ben superiori: è uno scenario plausibile ove uno scontro militare per un obiettivo termini nella caduta di molte più postazioni in mano ai cinesi.
Manila ha anche avuto una parentesi di apertura verso la Cina (con conseguente distacco dalla solidarietà creatasi in ambito ASEAN sul tema) tramite una missione scientifica comune avviata nel 2005 in una zona non ben precisata dell’area contesa a cui si è associato anche il Vietnam, fortemente contrario ma poi invitato a partecipare. Nel 2008 si è conclusa la missione con lo scambio di un numero elevato di informazioni tra le parti: la natura della missione non ha a che vedere con gli idrocarburi, ma diversi elementi della ricerca sono indirettamente un punto di partenza per successive azioni di prospezione.
Se da un lato questo episodio dimostra la fragilità filippina a portare avanti i suoi interessi in modo autonomo, dall’altro è un modo di controllare da vicino gli altri contendenti, oltre che ottenere una preziosa collaborazione in materia. Inoltre, se una tale iniziativa fosse stata unilaterale, è verosimile immaginare il tipico intervento della guardia costiera o della marina militare di uno dei paesi per far uscire la spedizione dalle acque in questione.
Nella zona di sovrapposizione tra Filippine e Malaysia vi sono solo 2 isole e la situazione sul campo non è tesa come in altri quadranti del mare. Esiste però una controversia che se riportata attivamente alla luce “allarga” fortemente il fronte: lo stato di Sabah.
Il North Borneo (oggi Sabah) apparteneva al sultanato di Sulu (isole meridionali delle Filippine), fu ceduto in concessione alla British North Borneo Company nel 1878 e divenne dominio della corona britannica nel 1920. Ciononostante, l’Alta Corte del North Borneo decretò il 19 dicembre 1939 che il legittimo successore di Sabah non era la Gran Bretagna bensì le Filippine in quanto successori del sultanato di Sulu.
Nel 1963, la Malaysia neo indipendente comprese lo stato di Sabah e furono rotte le relazioni diplomatiche fino al 1989. Oggi Manila non ignora il proprio diritto, ma l’ha tolto dalle priorità per migliorare i rapporti con la Malaysia.
La questione è dormiente, ma la posta in gioco è alta: Sabah è lo stato più esteso della Malaysia, il terzo più popoloso (3,5 milioni), con giacimenti di gas e petrolio, lo stretto di Palawan sarebbe sotto completo controllo filippino e le Spratly malesi diverrebbero filippine, essendo sotto la giurisdizione di Sabah.

Il Brunei reclama una porzione di mare come EEZ e non detiene il controllo militare dell’area. Non vi sono mai state proteste ufficiali nei confronti dell’occupazione vietnamita, mentre con la Malaysia è aperto un dialogo da diversi anni e vi sono state proposte di prospezioni petrolifere comuni tra le parti, mai attuate fino ad oggi.
Vista la limitata possibilità delle forze armate del paese e la mancanza di rivendicazioni forti rispetto alle altre nazioni, il Brunei è, di fatto, il paese con la posizione più passiva. La propria situazione geografica spiega già di per se il motivo del basso profilo del Brunei nel contenzioso.
L’economia del Brunei, di fatto, dipende fortemente dall’industria di estrazione petrolifera e del gas sulle proprie coste sia in termini assoluti sia facendo il confronto con gli altri paesi della regione. Pertanto può lasciare perplessi l’approccio passivo in confronto agli altri paesi alla luce della questione del potenziale di idrocarburi. Tale posizione non stupisce se si tiene conto della fame di energia di Vietnam e Filippine (per non parlare della Cina) vista la crescita fortissima del proprio apparato industriale, quasi inesistente invece nel sultanato.
In futuro, l’effettiva scoperta di giacimenti al largo delle coste del Borneo – molto verosimilmente – renderà più attiva la posizione del Brunei, il quale non sarà in grado di sostenerla da solo. Pertanto, si potrebbe considerare scontata una attività congiunta con Kuala Lumpur.

La Malaysia rivendica una piccola porzione delle Spratly. Nel passato, non vi sono stati scontri o incidenti con gli altri contendenti, ad eccezione di un episodio nell’ottobre 1999, quando sopra un’isola da essa occupata 2 aerei militari filippini e 2 aerei militari malesi hanno quasi ingaggiato un combattimento.
I rapporti con il Vietnam sono molto buoni e un contenzioso minore nel golfo di Thailandia ove le EEZ dei due paesi si sovrapponevano è stato risolto con un accordo di sfruttamento comune, a cui si aggiunge l’adiacente zona di sfruttamento comune tra Malaysia, Thailandia e Vietnam. La Malaysia riveste un ruolo economico sempre più crescente per l’economia vietnamita visto l’imponente volume di investimenti malesi del 2008, primo paese investitore in quell’anno e tra i primi cinque complessivi, nonché tradizionale partner commerciale.
Risoluzioni delle dispute territoriali tra i due paesi nelle Spratly non sono ancora state affrontate e fino ad ora non sembra essere nemmeno una priorità.
Inusuale è invece la situazione de facto con il Brunei. Le rivendicazioni malesi coincidono per oltre il 90% con quelle del sultanato e la posizione dell’isola da essa occupata (con la costruzione di un faro) “soffoca” la EEZ del vicino. Ciononostante, la situazione è poco conflittuale, come per il contenzioso con Manila, se la questione Sabah resta dormiente.
Per tradizione, anche la Malaysia vede con un certo timore la presenza cinese nelle acque ad essa limitrofe, troppo vicina alle sue coste e bacini energetici. Tale sentimento è attenuato dal vigore dei rapporti economici tra i due paesi e dalla forte comunità di origine cinese.

L’Indonesia non ha contenziosi territoriali diretti: esiste una sovrapposizione tra le rivendicazioni con il Vietnam, ma i due governi si sono già dichiarati disponibili a risolvere il problema in modo pacifico tramite dialoghi interministeriali e una possibile commissione ad hoc. Ad ogni modo, Hanoi e Jakarta non sollevano la questione ormai da anni.
I rapporti tra i due paesi sono molto forti in quanto vi è la reciproca consapevolezza del potenziale demografico, politico ed economico che possono entrambi giocare in ambito ASEAN. L’Indonesia, fino alla crisi asiatica del 1997, era il paese leader indiscusso in ambito ASEAN, ambizione che sta tornando in auge. Il Vietnam dal canto suo esercita un’importante influenza sugli altri stati della penisola indocinese, ad eccezione della Thailandia, rendendolo, di fatto, leader regionale.
Un punto comune al Vietnam sono i rapporti con la Cina. Da sempre Jakarta si ritiene apertamente antagonista di Pechino nel Sudest Asiatico e le mire espansionistiche di quest’ultima si conciliano poco con le ambizioni indonesiane. Ulteriore tensione è data dalla poca chiarezza degli schemi cinesi: le rivendicazioni cinesi non comprendono l’isola di Natuna, ma in più di un caso sono state prodotte carte ove Natuna è inclusa, con grandi proteste dell’Indonesia.
Non vi sono rischi sul versante malese nonostante le relazioni spesso altalenanti tra i due Stati, mentre preoccupa molto di più Jakarta non solo il movimento cinese nelle Spratly ma soprattutto la debolezza delle Filippine e il conseguente controllo dello stretto di Palawan, la via obbligata per merci e idrocarburi estratti ad est del Kalimantan verso i mercati asiatici.
Pertanto i rapporti tra Vietnam e Indonesia si rafforzano enormemente ed è ormai opinione comune di esperti militari e analisti economici, indicata anche nello “Scontro di Civiltà” di Hungtington, che questi due paesi scavalcheranno Thailandia e Filippine come importanza strategica per gli Stati Uniti. È da ricordare inoltre che l’associazione del Vietnam nel 1995 all’ASEAN è stata positivamente accolta dalle altre nazioni ASEAN in quanto rappresenta politicamente e militarmente un’ulteriore assicurazione e protezione dall’ingerenza cinese.
In ambito ASEAN, ove si applica la pratica del Consensus, nel 1995 e nel 2002 c’è stato un fronte comune in funzione anti-cinese, mentre oggi si assiste ad alcune spaccature, dato che Cambogia, Laos e Myanmar non hanno sbocco su tale mare, la Thailandia ha un antagonismo storico nei confronti del Vietnam e Singapore guarda a questioni etniche e di natura economica con la Cina.
Oltre a Stati Uniti, Giappone e Corea, anche Australia e India premono molto per una soluzione del contenzioso, tendenzialmente a svantaggio di Pechino. Ciononostante, salvo gli Stati Uniti, gli altri “osservatori” non possono affrontare direttamente la questione essendo in “periferia”, per la sicurezza su altri confini e per implicazioni economiche con il gigante cinese.

Taiwan, nonostante non sia Sudest Asiatico, è soggetto di una particolare situazione nel Mar Cinese Meridionale. Le rivendicazioni territoriali di Taiwan nell’area sono identiche a quelle della Cina, non solo a seguito del contenzioso storico tra Pechino e Taipei, ma ancor più perché in origine fu proprio l’establishment repubblicano degli anni ‘30 a tracciare i famosi “segni” sulle cartine che reclamano la quasi totalità del mare alla Cina.
Taipei occupa militarmente le isole Pratas e mantiene il controllo dell’isola di Itu Aba, l’isola più grande dell’arcipelago delle Spratly.
Le Pratas sono strategicamente importanti perché la loro vicinanza a Formosa le rende un punto di difesa e di comunicazione in direzione sud. Inoltre, in vicinanza delle isole, la Cina sta già sfruttando dei giacimenti di gas. Non sono ancora state effettuate prospezioni da parte delle autorità taiwanesi, ma la possibile presenza di gas nelle Pratas rappresenterebbe per Taiwan un’ulteriore fonte energetica propria che si aggiungerebbe alle esigue risorse possedute.
D’altro canto, viste da Pechino, le Pratas rappresentano un gap difensivo nella linea che congiunge Hainan e Pratas (oltre che alla stessa Formosa), lasciando scoperte Canton e Hong Kong.
Itu Aba è l’unica isola delle Spratly ove è possibile costruire un aeroporto e piccole strutture portuali senza ricorrere ad allargamenti artificiali (vedasi Mischief Reef). Inoltre, essendo al centro della maggiore concentrazione dell’arcipelago permette un controllo delle attività degli altri contendenti.
Con il possesso delle Pratas e Itu Aba e le rivendicazioni del Mar Cinese Meridionale, ma anche delle isole Senkaku (ad est di Formosa, sotto controllo giapponese), Taiwan si trova nella situazione di fatto di essere uno Stato Arcipelagico, che con un “corridoio logistico” formato da Itu Aba, Pratas e Formosa, isola teoricamente le acque territoriali e la marina militare cinesi dalle rotte delle navi container e delle petroliere. Relazioni storiche e attuali di Giappone, Corea e Stati Uniti con la Cina sono un punto a favore di Taiwan come possibile “gendarme del mare” per proteggere i loro interessi economici.
Taiwan è indubbiamente un attore economico di primo rilievo per gli altri paesi sia in quanto partner commerciale sia, elemento di maggior peso, come investitore. Taiwan è infatti il primo investitore in Vietnam e tra i principali investitori in Malaysia, Filippine e Indonesia.
Ciononostante, l’assenza di rapporti diplomatici a causa della politica dell’Unica Cina indebolisce la forza economica di Taipei nei confronti degli altri stati con i quali, di fatto, non vi sono rapporti, se non sporadici (e mai di natura politica o militare). Infatti, quando nel 2002 gli stati appartenenti all’ASEAN e la Cina firmarono il Code of Conduct Taiwan non venne invitata all’iniziativa.
Resta rilevante notare che non vi sono stati incidenti o momenti di tensione fra Taiwan e gli altri Stati dal 1995, quindi anche se non figura fra i firmatari del Code of Conduct in realtà è forse l’attore che più ne ha seguito gli intenti. Questo può essere anche facilmente spiegato dato il rischio di una ritorsione di qualsiasi natura che tocchi direttamente l’isola di Formosa a causa di eventi nel sud. Un’altra spiegazione per il comportamento di Taiwan è negli sviluppi negli ultimi anni dei rapporti più distesi (soprattutto in ambito economico) tra Taipei e Pechino che non rendono utile una politica intransigente e dai toni alti: le comuni rivendicazioni e l’approccio di Taiwan rendono un ottimo servizio agli interessi della Cina. In passato si sviluppò la tesi di utilizzare le rivendicazioni e la presenza nel Mar Cinese Meridionale come moneta di scambio per il riconoscimento di Taiwan da parte degli altri stati rivieraschi, ma oggi è a dir poco impensabile vista l’importanza del colosso cinese.

5. Quale soluzione?

In conclusione, avendo visto la panoramica storica, la posta in gioco e la particolare situazione dei “piccoli” attori della disputa, 3 sono le possibilità aperte agli stati del Sudest Asiatico per risolvere a loro favore il conflitto.
La prima possibilità è il conflitto armato su scala locale.
Ciononostante, l’opzione reca molti dubbi perché il Vietnam confina con la Cina e si troverebbe ad affrontarla da solo sulle Paracel, le Filippine hanno un apparato di sicurezza particolarmente fragile, le forze armate malesi e cinesi non si trovano nemmeno in contatto nelle Spratly, mentre Brunei e Taiwan difficilmente interverrebbero, il primo per mancanza di mezzi, il secondo per una eccessiva esposizione nei confronti di Pechino. Infine, non è possibile prevedere la costituzione di un’alleanza fra questi paesi e, ben più importante, provocare uno scontro è un suicidio politico nei confronti della comunità internazionale, oltre che violare il Code of Conduct del 2002, senza contare i costi diretti e indiretti dell’operazione.
La seconda possibilità è il mantenimento dello status quo.
In sostanza, si tratterebbe di ricercare limitati risultati di riconoscimento delle proprie rivendicazioni su base bilaterale e soprattutto multilaterale, in particolare in ambito ASEAN e tramite Corti Internazionali di Giustizia. Presupposto per adire alle Corti è l’unanimità di richiesta di tutti gli attori. Proprio questa mancanza, col passare del tempo, rafforza la posizione de facto della Cina.
Terza possibilità, più auspicabile, è un innalzamento dei rapporti da bilaterali a multilaterali “ristretti”.
Mirando a escludere la Cina (e Taiwan) da possibili colloqui (più facile se informali o segreti), Vietnam, Filippine, Malaysia e Brunei dovrebbero puntare a risoluzioni e ad iniziative comuni. Di fatto, esiste una divisione tra le isole occupate viste le concentrazioni di Malaysia a sud, Filippine ad est e alla preponderanza nel resto dell’arcipelago del Vietnam. Per la questione Paracel, Hanoi potrebbe ottenere supporto dagli altri 3 paesi cedendo alcune postazioni (dopo l’ottenimento delle Paracel) e, ipotesi fantapolitica, nulla vieta che si trovi un accordo (su carta) sulla “spartizione” delle postazioni cinesi e di Itu Aba per creare quadranti più omogenei.
Sicuramente un accordo di mutua difesa (seguito da esercitazioni congiunte) contro azioni cinesi rafforzerebbe di molto la loro posizione sul campo e a livello regionale e multilaterale.
Iniziative comuni ancora più importanti devono essere il comune utilizzo e gestione delle risorse. Infatti è solo tramite l’accordo tra questi paesi che le risorse ittiche possono avere la giusta regolamentazione per sfruttamento e riproduzione e l’iniziativa tripartita del 2005 per missioni scientifiche è un ottimo esempio di come si può operare in comune, spingendosi anche nella ricerca di risorse energetiche e (più difficile nel trovare un accordo) sull’estrazione di petrolio e gas.
Ad ogni modo, è evidente che prima ancora di un tale disegno multilaterale, devono essere fatti grandi passi in avanti sulle relazioni bilaterali Brunei-Malaysia e Vietnam-Filippine [6].
In mancanza di tali sforzi e lungimiranza, il Mar Cinese Meridionale rischia di diventare meno mare e più lago. Cinese.

* Massimiliano Bertollo, esperto di relazioni internazionali e geopolitica, si occupa principalmente delle aree Sudest Asiatico e Asia Centrale

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

Note

[1]Non è intenzione di questo articolo approfondire la materia UNCLOS, bensì di analizzare direttamente, sotto l’aspetto geopolitico, le rivendicazioni territoriali e la situazione de facto.
[2] Tratte da Xue, China and International Fisheries Law and Policy.
[3] U.S. Geological Survey, 1993/1994, www.eia.doe.gov.
[4] www.eia.doe.gov.
[5] Nell’aprile 2006 una cooperazione fra Husky Energy e Chinese National Offshore Oil Corporation ha annunciato la scoperta di riserve di gas molto a nord delle Spratly.
[6] Ipotizzando un non inasprimento della questione Sabah tra Kuala Lumpur e Manila.

Bibliografia e siti internet

AA.VV., ASEAN and the Asia-Pacific, in IISS n° 328, Adelphi Paper;
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BATEMAN Sam, Commentary on “Energy and Geopolitics in the South China Sea” by Michael Richardson, ISEAS;
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The Nation, www.nationmultimedia.com

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Origini delle forme di governo in America latina

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Nella Nostra America le forme e i diversi regimi di governo hanno avuto inizio con il vicereame colombiano, il quale si differenzia palesemente da quello delle Indie.
In questo modo Cristoforo Colombo, per via della sua smisurata brama, chiese e ottenne dai Re Cattolici, Isabel di Castiglia e Fernando d’Aragona, tre titoli: quello di ammiraglio, quello di governatore e quello di vicerè a vita. Titoli concessi nelle capitolazioni di Granata il 17 e il 30 aprile 1492.

Siate il nostro ammiraglio, e vicerè e governatore. E così i vostri figli e successori nella suddetta funzione e incarico potranno prendere il titolo e impiegarlo per assegnare la carica di don e ammiraglio e vicerè e governatore.

Ma, in realtà, l’unica carica che esercitò fu quella di governatore, poiché quella di vicerè fu solo onorifica. Il suo governo in America lasciò molto a desiderare e, nel 1499, fu rimpiazzato da Bobadilla, che solo ebbe il titolo di governatore.
Il vicereame delle Indie appare soltanto nel 1535 con la creazione del Vicereame di Nuova Spagna in Messico.

La particolarità e l’originalità di questa istituzione non può essere equiparata con quella dei vecchi vicereami, tranne che nel termine. Poiché anche se ci sono stati vicerè spagnoli in Cataluña, Valencia, Mallorca, Sardegna, Napoli, Sicilia, Aragona e Castiglia ( in queste due ultime quando i re viaggiavano ed erano costretti ad allontanarsi ) nessuno di loro si può equiparare al vicereame indiano poiché: I vicereami spagnoli in Europa non riuscirono a stabilirsi in un modello determinato [1]. La nostra istituzione vicereale si distinse per due caratteristiche singolari, tipiche e originali: a) i vicerè possiedono maggiore potere che gli europei e adottano delle misure senza dover interpellare prima la Corte, assimilandosi in questo modo agli stessi re che li nominano e li spediscono. b) i sudditi indiani formano parte indissolubile della corona e il vicerè non sottomette né ignora la popolazione che si trova nei suoi domini e sono equiparati agli abitanti di Spagna, invece nei vicereami europei non si è verificata questa equiparazione.
A questa istituzione c’è da aggiungere per il Brasile il regime di quattordici capitanati designati dal re del Portogallo nel 1532, dei quali solo quello di Pernambuco ebbe successo. Nell’America spagnola si adottarono i capitanati come quello di Cile, Guatemala, e Venezuela come territori militarizzati e governati militarmente da un capitano generale, da lì il suo nome.

Elementi emergenti nel governo di America latina

Tornato Colombo dal suo primo viaggio nel maggio del 1493, Isabel la Cattolica nominò a Juan Rodríguez de Fonseca, membro del Consiglio di Castiglia, affinché si facesse carico di tutti gli affari commerciali nelle terre appena scoperte. Nel 1503 con la creazione della Casa de Cotratación [2] gli venne tolta l’ingerenza negli affari commerciali, ma continuò in testa dell’amministrazione degli affari americani fino al 1524, data della creazione del Regale e Supremo Consiglio delle Indie da parte di Carlo V di Germania e Carlo I di Spagna.
In quella circostanza si statuì che le Indie appartenevano alla corona di Castiglia, erano proprietà della corona spagnola, la quale si trasformava in una monarchia patrimoniale assoluta, perché queste terre erano state scoperte ed esplorate per merito di Isabel di Castiglia, tanto che tutte le leggi delle Indie e il loro governo si plasmarono su quelle di Castiglia.

L’influenza del Consiglio delle Indie si estese in tutti gli ambiti: giudiziario, finanziario, ecclesiastico, legislativo, commerciale, censura e militare. Ebbe anche la funzione di Corte d’Appello su tutti gli affari. Con l’avvento dei Borboni, nel 1700, e, in particolare, di Carlo III (1759), si mette da parte la teoria degli Asburgo riguardo al rapporto della Corona e i suoi possedimenti americani e si cerca l’unificazione e il coordinamento della metropoli e delle colonie, istituendosi il centralismo borbonico, caratteristico delle monarchie assolute. America smise di dipendere dal re per dipendere dalla metropoli. E gli americani cessarono di essere vassalli, retti dal patto monarchico secondo il quale avevano delle obbligazioni reciproche con il re, per trasformarsi in sudditi, i quali dovevano al re obbedienza incondizionata. Cessammo, per merito dell’influenza dell’Illuminismo francese sulla monarchia borbonica, di essere regni per diventare colonie. Questo balzo qualitativo provocherà, secondo il nostro parere di fronte a ciò che è considerato storicamente corretto, la reazione indipendentista. Il fatto è che l’ordine Borbone, illuminato e cosmopolita, fece della Nostra America terra di saccheggio, non solo nel rimpiazzare le autorità creole locali con i funzionari della penisola, ma anche perché al momento di diventare sudditi e colonie il nostro compito era quello di approvvigionare la metropoli.

Ritorniamo ai secoli XVI e XVII, dove gli agenti politici, giudiziari e militari più significativi in America erano i vicerè, i Tribunali e i capitani generali.

I vicerè e i capitani esercitavano l’autorità suprema all’interno della loro giurisdizione, sia nei vicereami, sia nelle capitanate e nei rispettivi tribunali, questi ultimi incaricati dell’amministrazione della giustizia e, in alcuni casi, della funzione legislativa, i quali anch’essi dipendevano da queste. Le udienze si trovavano localizzate nelle principali città di ogni giurisdizione ma, mentre in Spagna si presentavano come dei semplici tribunali, in America esercitavano la doppia funzione giudiziaria e politica amministrativa. E “la protezione degli interessi aborigeni era da sempre considerata una delle loro funzioni più importanti, tant’è vero che due giorni la settimana si destinavano i processi tra indios e tra questi e spagnoli” [3].

Il governo dell’America non si fondava, come gli Stati costituzionali moderni, sulla divisione dei poteri: esecutivo, legislativo e giudiziario, bensì dove tutti esercitavano gli stessi poteri. Inoltre, il tribunale ecclesiastico, gli uditori, la carica di ministro residente e l’ordinanza erano tutte figure politico-amministrative che facevano che il governo nelle Indie fosse, in realtà, un gioco di pesi e di contrappesi.

Da un punto di vista giurisdizionale il governo dell’America si divise in due grandi vicereami, quello di Nuova Spagna in Messico, America settentrionale e America centrale, e quello del Perù per quanto concerne l’America meridionale, di cui dipendevano i governatorati come quello di Buenos Aires. In seguito si crearono altri vicereami (circa nel 1776), quello del Río de la Plata per il Cono Sud dell’America e quello di Nuova Granata per il nord dell’America meridionale e parte dell’America centrale. Inoltre, ebbe capitanati come quello di Cile, Venezuela Quito o Guatemala. Per quanto concerne le giurisdizioni locali, queste erano governate secondo il caso da governatori o sindaci, i quali possedevano autorità politica e giudiziaria all’interno dei loro distretti. Con le riforme di Carlo III, i governatorati e i comuni presero il nome d’Intendenze, le quali si contraddistinguono per il centralismo borbonico di stampo francese. E in questo modo si commette l’errore di smontare l’impalcatura plurale del governo americano degli Asburgo. Afferma al riguardo lo studioso inglese Harring: “Nella Nuova Spagna c’erano all’incirca duecento tra governatori e sindaci maggiori e al loro posto si stabilirono dodici Intendenze”.[4]

In realtà, le Intendenze furono create per una più sistematica, precisa ed efficace riscossione delle rendite regali, poiché con l’altro sistema si diluivano nell’intelaiatura amministrativa dei duecento governatorati che erano difficili da controllare.
Le giurisdizioni locali hanno la figura dei Comuni, così familiare per noi sin dalla scuola elementare, denominate anche municipi o corporazione municipale. Si contraddistingueva per essere, basicamente, l’organismo deliberativo della comunità urbana e suburbana dove la componente creola era rappresentata. Le città indiane furono un trapianto dei vecchi municipi castigliani del Medioevo, tanto nel suo tracciato quanto nella sua amministrazione. L’autorità municipale era rappresentata dai governatori o dai consiglieri e dai sindaci o dai magistrati, il numero dei consiglieri variava secondo l’importanza che rivestiva la città e quello dei sindaci numericamente era composto in uno per i villaggi e in due per gli abitati maggiori.
Dal momento che il Comune era l’unica istituzione che si perpetrava a se stessa, senza essere un’appendice amministrativa della Spagna e che si presentava come l’unica entità di governo che concedeva all’elemento creolo ampia partecipazione con la caduta del trono spagnolo, quando Giuseppe Bonaparte conquista Madrid, i coloni americani trasformarono il Comune, e in particolar modo il Comune Aperto a tutti i cittadini, nel centro politico, trasformandolo nell’unica istituzione capace di mettersi in moto per la costituzione dei primi governi americani.
Finendo, possiamo affermare che il vicereame indiano per la sua funzione e le sue caratteristiche è una istituzione propria e specifica d’America, mentre l’istituzione del Comune è la cerniera o l’anello sul quale gira e si vincolano due regimi politici diametralmente diversi come lo furono quello della monarchia spagnola nell’epoca coloniale e la repubblica dall’Indipendenza americana.

(traduzione dallo spagnolo di Vincenzo Paglione)

[1] Radaelli, Sigfrido, La institución virreinal en las Indias, Perrot, Buenos Aires, 1957, p. 53.
[2] Casa de contratación de las Indias, tribunale per le relazioni fra la Spagna e le colonie americane (N.d.T.)
[3] Haring, Clarence, El imperio hispánico en América, Buenos Aires, Ed. Solar Hachette, 1972, p. 138.
[4] Ibidem, p. 151. Bisogna aggiungere che il governatore intendente si eleggeva in Spagna, mentre i vecchi governatori e i sindaci erano in prevalenza americani.

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Hervé Coutau-Bégarie, L’Amérique solitaire ?

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L’Amérique solitaire ?
Les alliances militaires dans la stratégie des Etats-Unis

Hervé Coutau-Bégarie, Economica, 2010, p. 124

Il libro

Gli USA sono, oggi, la potenza dominante, egemonica. Uno dei pilastri della loro potenza e influenza è costituito da una rete di alleanze militari effettuate dopo la Seconda guerra mondiale, nel quadro della guerra fredda. Questa rete si è rivelata essere di una notevole solidità giacché è sopravvissuta al sistema bipolare.
Quale spiegazione dare a tale fatto?
Gli Stati Uniti non sono diventati la potenza egemone per caso, ma perché essi hanno voluto e saputo dotarsi di strumenti indispensabili alla loro espansione mondiale, innanzitutto avendo cura di non alienarsi la loro liberta di azione.
Essi restano fedeli al testamento di George Washington, in un contesto completamente mutato: accettano (o impongono) soltanto quelle alleanze che non li condizionano.

L’autore

Hervé Coutau-Bégarie è direttore di ricerca presso l’École pratique des Hautes Études e del corso di strategia al Collège Interarmées de Défense. Dirige, inoltre, la rivista Stratégique e presiede l’Institut de Stratégie Comparée.
Autore di oltre venti volumi dedicati alle questioni strategiche, è soprattutto noto per il voluminoso Traité de stratégie (Economica, 6 ediz., 2008)

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Daniele Scalea, La sfida totale

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Daniele Scalea, La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali (con una prefazione del gen. Fabio Mini), Fuoco Edizioni, 2010

Quando nella Prefazione a un libro (che tu credi un semplice saggio) trovi scritto che il libro in questione è un trattato di alto livello, e che al riguardo «non c’è molto altro da dire», ti vien voglia di accantonare ogni velleità recensoria per armarti di matita e procedere a una lettura chiosastica mentre anneghi nel sublime.

Ma quando il libro è La sfida totale. Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali di Daniele Scalea, e la prefazione è del gen. Fabio Mini, sapere che un esperto siffatto definisce l’opera prima di questo giovane e brillante studioso come «un trattato di alta geopolitica» che descrive «il mondo attuale cercando di interpretarlo alla luce delle teorie classiche della geopolitica confermandone […] la validità metodologica» non può che farti venire una voglia matta di dire la tua – tanto più che è lo stesso Scalea, nella sua Introduzione, a dichiarare: «L’insoddisfazione per le interpretazioni abitualmente propinate al grande ed al “piccolo” pubblico mi ha spinto a scriverne una mia. Questo libro non ha l’ambizione di rivelare fatti nuovi, ma solo di tessere quelli già noti nella trama di una nuova interpretazione. Non si tratta di un’opera d’approfondimento con tutti i crismi della metodologia scientifica, ma d’un commento dal vago sapore divulgativo, che ha anteposto la leggibilità al rigore delle dimostrazioni».

E ha perfettamente ragione, Scalea, su tutti i punti.

Primo, perché è incontestabile che da tempo ormai – e segnatamente dall’11 settembre 2001 – tutti gli accadimenti che si determinano sul globo vengono fatti digerire all’opinione pubblica sulla base di fantasiose griglie interpretative volte ad accreditare una messianica gestione unipolare del pianeta. In quest’ambito, per esempio, si colloca il famosissimo (e, a mio personale avviso, mai abbastanza vituperato) Scontro di civiltà di Samuel Huntington: pubblicato nel 1996 come sviluppo di un articolo pressoché omonimo apparso nel 1993 sulla prestigiosa rivista “Foreign Affairs”, il saggio di Huntington sosteneva la tesi secondo cui nel mondo post-Guerra fredda la fonte primaria di conflitto sul pianeta sarebbe stata rappresentata dalle identità culturali e religiose ovvero dalla loro rispettiva irriducibilità – peccato che il testo di Huntington suggerisse in realtà le linee di attuazione di questo scontro secondo i voti dell’amministrazione statunitense: e basta leggersi il rapporto dell’istituto di ricerca “Project for a New American Century” (PNAC) intitolato Rebuilding America’s Defenses: Strategies, Forces and Resources for a New Century (Ricostruire le difese dell’America: strategie, forze, e risorse per un nuovo secolo), uscito nel 2000, oppure il documento  The National Security Strategy (La strategia per la sicurezza nazionale) reso pubblico dalla Casa Bianca nel settembre 2002, per rendersene conto agevolmente. Pertanto è comprensibilissimo che ogni tanto qualcuno, più accorto o più libero degli altri, decida di “andare a vedere come stanno le cose” per conto suo; e, potendolo, renda a tutti l’immenso favore di condividere le sue interpretazioni.

Poi, perché realmente La sfida totale non rivela fatti nuovi – non ce n’è bisogno. I fatti che hanno determinato il nostro presente (il presente del pianeta, mica beghe di quartiere) datano, come sappiamo, dagli anni Quaranta del XX secolo: ma hanno subìto un’accelerazione esponenziale dal novembre 1989, quando la caduta del Muro di Berlino sancì, oltre alla fine ufficiale della Guerra fredda, anche l’inizio dell’unipolarizzazione americanocentrica. Ora, il punto non è il loro essersi manfestati nella nuda concretezza fattuale, appunto: bensì il loro essere stati travisati attraverso la lente deformante della mission statunitense, che si sta rivelando – e non da ora – l’ideologia più esiziale con la quale l’umanità si sia mai confrontata. Partendo da questa constatazione difficilmente contestabile (almeno da parte di chi non sia un servo, uno sciocco o entrambe le cose contemporaneamente – bingo!), Scalea si cimenta nell’impresa non facile, ma in questo caso riuscita, di descrivere gli scenari attuali alla luce delle teorie geopolitiche classiche, sgombrando il campo dalle manipolazioni pilotate e dalle forzature compiacenti a cui l’opinione pubblica sembra pressoché ovunque assuefatta. Ne emerge un quadro d’insieme che a tratti è così distante dalla prospettiva consueta da sembrare addirittura riferito a un altro mondo – e probabilmente lo è davvero: il mondo di chi ha perso da tempo la memoria e la coscienza di sé.

In terzo e ultimo luogo, il saggio di Daniele Scalea è veramente un testo divulgativo nell’accezione migliore del termine: oltre a fornire, si diceva, un apprezzabile quadro d’insieme della situazione internazionale presente (sempre magmatica e suscettibile di cambiamenti repentini, come è nella natura delle cose) La sfida totale ha il pregio di offrire una breve ma completa storia del pensiero geopolitico classico: utile ripasso per gli addetti ai lavori, esaustiva introduzione per i principianti e salutare bacchettata sulle dita dei teoreti improvvisati.

Come scrive il gen. Mini nella Prefazione, il primo degli elementi «che incidono negativamente sulla validità dell’analisi geopolitica […] è che, alla pari di qualsiasi teoria politica, la geopolitica non è mai obiettiva, asettica o imparziale». Mi verrebbe da commentare: “purtroppo”. In realtà,  non dimentichiamo che proprio la facoltà di scegliere e di assumersi progettualmente la responsabilità delle conseguenze derivanti da una scelta costituisce la cifra non soltanto dell’uomo, bensì del cittadino contrapposto al suddito. Così come richiede una scelta, ossia uno schierarsi in campo, il momento storico in cui viviamo: e si tratta di una scelta da confermare giorno per giorno, in accordo con i mutamenti che plasmano senza posa il nostro mondo. A fronte di chi si lascia vivere, di chi aspetta le briciole o di chi ostenta il disprezzo dell’ignorante per la disciplina geopolitica, ben venga un testo lucido e chiaro come questa Sfida totale, aiuto prezioso per chiunque voglia scegliere – di diventare ciò che è: un cittadino, o un suddito.

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Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani

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Marco Di Branco, Storie arabe di Greci e di Romani. La Grecia e Roma nella storiografia arabo-islamica medievale, Plus – Pisa University Press, Pisa 2009

Come è noto, la Rivelazione coranica afferma (Corano, XIV, 4; XV, 10; XXII, 35; XXII, 66) che ogni comunità umana ha ricevuto un insegnamento divino per il tramite di uno o più profeti inviati da Dio. Su tale asserzione si fondò l’idea, diffusa presso l’élite intellettuale islamica, che anche l’antica sapienza ellenica provenisse dalla ‘Nicchia delle luci della profezia’ e che fosse possibile riconoscere lo statuto di profeti o comunque di sapienti divinamente ispirati anche agli theioi andres della Grecia antica e classica: da Pitagora, Empedocle, Socrate, Platone, Plotino fino a Gemisto Pletone (del quale Mehmed il Conquistatore farà tradurre in arabo i frammenti dei Nomoi scampati al bruciamento decretato dal patriarca cristiano).

Fu così che Gialal al-Din Rumi, al quale Aflaki attribuisce la frequentazione dei saggi del “convento di Platone”, poté parlare dei Greci in termini di ammirazione e di solidarietà spirituale: “I Greci sono come i sufi: senza ripetizione e libri e apprendimento essi hanno lustrato i loro cuori, ripulendoli da avidità e cupidigia, da avarizia e da malizia, rifuggendo da profumo e colore. In ogni istante, subito, vedono la bellezza” (p. 37).

Di questo “atteggiamento di straordinaria ammirazione per la cultura greca classica ed ellenistica” (p. 41) si occupa un recente lavoro di Marco Di Branco, docente di Storia bizantina e di Archeologia bizantina, che viene ad aggiungersi ai numerosi studi sulla sopravvivenza del pensiero filosofico e scientifico greco all’interno della civiltà islamica. Il lavoro in oggetto affronta il tema della storia greca e romana (nel periodo compreso tra l’età classica e il principato di Costantino) “quale essa è percepita, narrata e rappresentata nella storiografia arabo-islamica medievale fra VIII e XIV secolo d.C.” (p. 10), cioè dalla più antica storia universale di matrice islamica, quella di Ya’qubi, fino alla celebre cronaca di Ibn Khaldun.

Personaggio centrale della storia greca vista dall’Islam è Alessandro Magno, per lo più identificato col Bicorne (Dhu’l-qarnayn) della Sura della Caverna. Il capitolo relativo ad Alessandro è preceduto da una significativa citazione: i versi (verosimilmente estratti dall’Iskandarnameh) con cui il persiano Nezami di Ganje rende omaggio alla cultura greca: “Per la civiltà di quel Re amator di sapienza – la fama della Grecia s’è levata alta al cielo – ed ora che quelle contrade han richiuso il loro quaderno – l’effimero Tempo non ha loro strappato la fama eterna di Scienza”. Nella poesia, nella letteratura, nell’arte e nella stessa storiografia del mondo islamico il Macedone viene presentato non solo come alchimista e filosofo allievo di Aristotele, ma anche come “un profeta che annuncia il Dio unico ed è pronto a sostenerne la causa con le armi in pugno, [mentre] la campagna persiana si muta in un vero e proprio gihad contro gli infedeli” (p. 73).

Per quanto riguarda i Romani, il primo storico musulmano in grado di distinguere al-Yunaniyyun (i Greci) da al-Rum (i Romani) è Ya’qubi, che inizia il capitolo della storia romana a partire da Cesare e da Augusto. Il periodo monarchico e repubblicano di Roma, che occupa uno spazio alquanto ridotto anche nelle successive opere di Tabari e di Mas’udi (il primo a menzionare la leggenda di Romolo e Remo), è d’altronde trascurato dalle cronache bizantine stesse, che costituiscono la fonte degli storici arabi e persiani del Vicino Oriente. In compenso, le storie universali di Miskawayh e di Tha’alibi rivolgono una maggiore attenzione al rapporto fra Persiani e Romani: dall’epoca mitica dei primi re della terra (in cui il sovrano iranico Faridun avrebbe concesso a suo figlio Salm il potere sul paese dei Rum) fino alle vicende romano-persiane d’età costantiniana e postcostantiniana.

Che il regno di Costantino inauguri una nuova fase nella storia dei Rum è nozione condivisa da quasi tutti gli storici musulmani del periodo preso in esame dall’Autore. L’interesse di Ya’qubi per la figura di Costantino è sostanzialmente connesso all’attività religiosa di questo imperatore, il primo che “si allontanò dalle dottrine greche per quelle cristiane (…); e fu per questo che egli mosse guerra contro dei consanguinei e vide in sogno come se dei giavellotti scendessero dal cielo con su di essi delle croci” (p. 136). Tabari invece ritiene degna di nota, oltre alla conversione di Costantino, la fondazione della nuova capitale dell’Impero, la cacciata degli ebrei dalla Palestina e l’inventio crucis. Da parte sua, Mas’udi conclude il bilancio dell’attività costantiniana con una “durissima requisitoria contro la religione cristiana, responsabile della distruzione dell’antica scienza dei Greci” (p. 138).

Il disinteresse della storiografia musulmana orientale per quella parte di storia greca e romana su cui avevano taciuto le fonti bizantine viene compensato dagli storici del Maghreb e dell’Andalusia. Questo filone occidentale, che sfocia nel Kitab al-‘ibar del tunisino Ibn Khaldun, ha alle proprie origini il Kitab Hurushiyush, una traduzione delle Historiae di Paolo Orosio rimaneggiata ed arricchita da notizie provenienti da altre fonti. “Non è senza emozione – scrive Di Branco – che si leggono, per la prima volta in lingua araba, i fatti della guerra di Troia e la vicenda del cavallo (…), le gesta dei difensori dell’Ellade contro i Persiani (…), il nome di Pericle (…), il racconto della Guerra del Peloponneso (…), le grandi imprese della Repubblica romana” (p. 160).

L’Autore fa notare che nell’opera di Ibn Khaldun (dove le prime due città di cui si faccia menzione sono Alessandria e Roma) le vicende dei Greci e dei Romani rappresentano “uno degli exempla storici più importanti su cui riflettere” (p. 190), in quanto danno modo di meditare sulle dinamiche politiche e costituiscono “un banco di prova per la celebre teoria halduniana dell’‘asabiyyah, lo ‘spirito di corpo’, la forza fondamentale che muove la storia umana” (p. 193). La Grecia, in particolare, viene esaltata da Ibn Khaldun come il centro da cui il sapere si è irradiato nel dar al-islam. “Dove sono le scienze dei Persiani? – egli si chiede – Dove quelle dei Caldei, degli Assiri, dei Babilonesi? Dove sono le loro opere e i loro risultati? Dove sono, prima di esse, le scienze degli Egizi? Le scienze che sono giunte fino a noi provengono da una sola nazione, la Grecia (…) Non conosciamo nulla della scienza delle altre nazioni” (p. 191).

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Investire in Libia

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Tripoli 25/08/2010

Per le economie europee la nuova frontiera del business è rappresentata dalla sponda opposta del mediterraneo dove si affacciano paesi legati all’Europa da questioni storiche, culturali e di prossimità; la vicinanza infatti ha pur sempre una sua rilevanza nella spiegazione del commercio internazionale. I paesi nord africani sono già da tempo meta delle imprese italiane ed europee che qui hanno le fabbriche dei prodotti ad alto contenuto di manodopera come le calzature e l’abbigliamento. Basti pensare a Marocco e Tunisia che sono stati e continuano ad essere luoghi di delocalizzazione produttiva a causa dei vantaggi assoluti che riguardano il costo della manodopera e di altri vantaggi che derivano dal sistema paese: ridotta tassazione, costo dell’energia elettrica, affitti, ecc.

In questo senso una rinnovata opportunità per l’imprenditoria mondiale, è costituita dalla Libia. Si tratta infatti dell’ultimo paese nord africano ad essersi aperto alle economie occidentali; la ragione va ricercata nelle sue vicende politiche e nella recente revoca dell’embargo e delle sanzioni economiche internazionali a cui si è pervenuti progressivamente a partire dal 1999.

Lo sdoganamento della Libia nella comunità internazionale ha dato, come risultato interno, un impulso immediato e notevole all’edilizia, dal momento in cui c’è stata la disponibilità di accedere a materiali e manodopera estera qualificata.

Qui la cementificazione e l’ammodernamento delle città riguarda tutto il paese, da est a ovest, da Bengasi a Tripoli.

D’altro canto è abbastanza logico che un paese con una grande disponibilità finanziaria, derivante dal petrolio, punti innanzitutto alle infrastrutture e al rinnovamento urbano, quasi una carta d’identità da esibire a chi entra nel paese. Questo processo di rinnovamento ha avuto l’effetto di attrarre i costruttori edili di mezzo mondo che qui si contendono appalti per grattaceli e centri commerciali di tutto rispetto, anche se con successi alterni. Infatti aver concluso un contratto non sempre è sinonimo di successo.

L’esperienza diretta insegna che un contratto fra un imprenditore estero e un organismo statale libico molte volte  viene rimesso in discussione a posteriori, oppure revocato ad opera già iniziata, sulla base di vizi presunti. Un esempio: il costruendo aeroporto di Tripoli. Inizialmente commissionato a costruttori francesi è poi passato ai brasiliani per essere successivamente smembrato in lotti minori e affidato a  contractors turchi e di altre nazioni.

Questo tipo di comportamento deriva in parte dalla cultura del paese e in parte è da attribuire alla completa assenza di competenza e di figure professionali in grado di valutare i contratti e di giudicare l’esecuzione dei lavori; i sovrintendenti dei lavori commissionati dal governo libico provengono da altri paesi arabi, in particolare dall’Egitto.

E cosa dire dello sviluppo delle attività industriali e manifatturiere?

È noto che la crescita e lo sviluppo delle economie emergenti passa attraverso i processi di privatizzazione e che la privatizzazione ha origine dalla capacità di un paese di attrarre i capitali stranieri, e con essi lo skill tecnologico, il know how specifico, le capacità imprenditoriali e manageriali, attraverso un percorso ormai noto e ben delineato.

A tale proposito in Libia, da tempo, non si fa che parlare delle “zone franche” o free trade zone. Si tratta di aree destinate a investitori esteri che intendono avviare una attività di tipo produttivo; esse godono di particolari facilitazioni previste dalla legge libica n. 5/1997. Questi benefici si possono riassumere succintamente nei seguenti punti:

Esenzione da dazi doganali per l’importazione di attrezzature e macchinari necessari alla realizzazione del progetto.

Esenzione quinquennale di qualunque imposta o tassa sul reddito derivante dal progetto.

Esenzione dell’imposta sul consumo e dai dazi doganali all’export per le merci provenienti dal progetto realizzato dell’investitore.

Esenzione del progetto dalla tassa di bollo per gli atti e i documenti commerciali d’uso.

Come effetto immediato un aumento dell’attività manifatturiera interna contribuirebbe a diminuire le importazioni del paese, a ridurre la disoccupazione (circa 2 milioni), ad innalzare i salari, ad elevare il tenore di vita, a diminuire l’assistenzialismo statale, ad esempio.

Inoltre gli insediamenti produttivi importerebbero tecnologia, dando vita ad un “effetto trascinamento” che inciderebbe positivamente sulla espansione delle attività industriali medesime.

Ora, se ci fermiamo a queste prime considerazioni, potremmo analogicamente dedurre che la Libia rappresenta un paese allettante per le affaticate economie occidentali, una nuova frontiera del business. Se così fosse c’è da chiedersi: è conveniente oggi investire o fare affari in Libia? E poi, su quali garanzie possono contare gli imprenditori esteri?

Oggi la Libia evidenzia un rischio paese ancora alto e gli IDE (investimenti diretti esteri) sono ancora modesti proprio a causa del rischio paese. Più concretamente possiamo dire che qui l’iniziativa privata è quasi inesistente. Fabbriche, alberghi, grandi opere sono tutte statalizzate e quindi l’interlocutore per l’imprenditoria straniera è lo Stato, attraverso i suoi organismi interni.

Inoltre bisogna ricordare che la Libia non ha ad oggi sottoscritto nessuno dei trattati multilaterali che fanno capo al WTO come il WIPO (World Intellectual Property Organization), oppure alla Banca Mondiale come la convenzione multilaterale ICSID ((International Centre for the Settlement of Investment Disputes) che garantisce l’ambito istituzionale e i servizi amministrativi necessari per la risoluzione, mediante il ricorso alla conciliazione o all’arbitrato, delle controversie che dovessero insorgere tra uno Stato membro della Convenzione ed un investitore, cittadino di un altro Stato membro.

Non ha sottoscritto neppure l’ Euro-Med (Euro-Mediterranean-Partnership) un accordo fra la comunità europea e i paesi del bacino del Mediterraneo, perché ad oggi la Libia figura come paese osservatore.

La insufficiente tutela della proprietà privata e un sistema giuridico che consideri l’investitore come cittadino e non come uno “straniero” sono altri concreti deterrenti che frenano gli investimenti diretti esteri in questo paese. Per completare il quadro vanno citate le barriere non tariffarie costituite da un sistema burocratico complesso che prevede una lunga serie di autorizzazioni per poter avviare una qualsiasi attività industriale.

Si conviene quindi che l’ambito istituzionale (inteso come sistema politico del paese) e l’ambito legale (inteso come l’insieme delle leggi che incidono sulle decisioni di investimento) oggi sono tali da scoraggiare la maggior parte delle iniziative private estere che hanno come scopo qualsiasi forma di attività industriale “stanziale” in territorio libico.

La Libia è ancora troppo lontana dal modo di rapportarsi con l’imprenditoria estera in generale, da una parte perché ha saltato il passaggio dello sviluppo industriale interno che avrebbe assicurato un apprendimento dal fare (learning by doing) e dall’altra perché la grande, enorme, disponibilità di spesa derivante dal petrolio permette ai propri amministratori di assumere atteggiamenti anche arroganti, consci di poter contare sul corteggiamento di innumerevoli società imprenditoriali pronte ad alternarsi al tavolo degli appalti.

Porre le condizioni affinché il clima sia più favorevole agli IDE è un fatto che spetta alla politica, anche se, politicamente parlando, non so quanto interesse reale ci sia ad avviare un processo di sviluppo economico di tipo occidentale. Gli immensi guadagni derivanti dal petrolio e la ridotta popolazione (poco più di 6 milioni) consentono al governo una politica economica del paese per certi versi anomala e tesa ad appagare la domanda interna attraverso le importazioni in ogni settore ad esclusione di quello energetico. Il processo di privatizzazione e il conseguente aumento di competitività internazionale che da esso deriva, qui, come in altre economie emergenti del Mediterraneo, sembra più motivato dalla necessità di conservare una posizione strategica a livello geopolitico. In altre parole in quest’area del mondo è più importante rimanere economicamente competitivi (vorrei dire comparabili) più che in rapporto ai paesi industrializzati, in rapporto ai paesi appartenenti alla stessa area geografica e che presentano le stesse caratteristiche istituzionali, culturali, religiose ed economiche. Se il processo non viene spinto in maniera più decisa è perché già allo stato attuale lo sviluppo interno del paese permette il raffronto della Libia con gli altri stati limitrofi e dall’altra parte perché c’è la paura che un processo di privatizzazione troppo spinto potrebbe far perdere il controllo economico delle istituzioni sul paese; va da se che una destabilizzazione di tipo economico renderebbe vulnerabile il paese anche ad una destabilizzazione di tipo politico; quest’ultimo punto rappresenterebbe infatti un effetto collaterale assolutamente intollerabile.

*Diego Fassa, dottore in Relazioni Pubbliche ad indirizzo aziendale presso l’università di Udine, laureando in Economia e diritto per l’impresa e la PA, indirizzo International Business and Law presso l’università di Modena e Reggio Emilia, si occupa di consulenza aziendale di direzione

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Obama e la bufera delle elezioni di mid-term

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I più recenti sondaggi pubblicati sul New York Times vedono un Obama in netta caduta, sia in termini di popolarità che di consensi. Brutta storia se si pensa che le elezioni di mid-term sono prossime e che i Democrats stanno cercando in ogni modo di dare vita a una campagna elettorale efficace.

Secondo l’eminente testata il partito democratico potrebbe perdere, al Senato, fra i 6 e i 7 seggi: stando ai dati elaborati dal FiveThirtyEight forecasting model il gruppo del presidente avrebbe approssimativamente il 20% di possibilità di perdere 10 o più posti nella Camera Alta, cosa che costerebbe ai democratici il controllo della stessa. Le statistiche prevedono l’11% di possibilità di perdere 9 seggi, così da scendere a soli 50 voti favorevoli e renderli molto vulnerabili. La media delle oltre 100 mila proiezioni ha dato come risultato di 6,5 seggi in meno al Senato. Il 2 novembre è sempre più prossimo e recuperare un 5% di perdite di consensi, visto anche il fatto che non vi sono più molti indecisi dell’ultimo minuto, sembra poco plausibile.

Le proiezioni si basano su un modello statistico che mette a paragone gli attuali consensi politici nonché i dati demografici, con quelli dei passati sei cicli di elezioni. L’attendibilità?

I risultati che sono stati proposti mostrano come, in tempi recenti, un candidato al Senato che fosse in vantaggio di 7 punti a 10 settimane dal voto, abbia poi vinto circa l’80% delle volte; altrimenti, un candidato con ben 12 punti di vantaggio è stato rilevato vincente il 95% delle volte. Il modello, dunque, risulta molto attendibile considerando anche che, nel 2008 ha previsto correttamente i risultati di tutte e 35 le elezioni della Camera Alta. Inoltre, ad ogni nuova elezione il modello viene ricalibrato, affinché ‘impari’ a calcolare anche il grado di approssimazione con cui effettua le previsioni e si migliori.

Gli Stati in cui è quasi certa la sconfitta sarebbero: North Dakota, Arkansas, Indiana e Delaware. Intanto, però, l’ombra di John McCain riappare alle spalle di Obama, poiché il senatore repubblicano ha vinto le primarie del suo partito in Arizona e si appresta a presentarsi per il rinnovo del Senato. A fronte del vertiginoso calo di consensi che sta sperimentando il presidente nordamericano, c’è da chiedersi se questa non sia una nuova nota dolente.

A cosa può essere dovuto tale calo? Nelle ultime settimane si sono susseguiti diversi avvenimenti rilevanti per la politica statunitense. In primis, il famoso Financial Bill: grande riforma del sistema economico e bancario statunitense che avrebbe dovuto dare una spinta rinvigorente ai conti del Paese, ma anche aiutare quelli dei cittadini. Ebbene, nel momento in cui, per la prima volta dopo le sue elezioni, Obama si trova ai minimi storici di popolarità, arriva la notizia che la banche avrebbero ancora un ampio margine per continuare a speculare. In effetti, la riforma finanziaria prevede che gli istituti di credito non possano rischiare capitali propri, ma questo non impedisce loro di utilizzare fondi dei clienti per fare investimenti ad alto rischio.

La consulente finanziaria Janet Tavakoli ha commentato dicendo: “Puoi usare l’attività del cliente come copertura praticamente per qualsiasi cosa” – e ha continuato – “ecco un aspetto in cui il Financial Bill non agisce”. Dal canto suo, il presidente ha riunito il suo team per continuare a discutere dell’economia del Paese: dal luogo di villeggiatura Obama fa sapere che si stanno tracciando nuovi interessanti progetti, quali quello di consentire finanziamenti sia pubblici che privati per favorire progetti di infrastrutture per i trasporti.

Abbiamo bisogno di progetti infrastrutturali del ventunesimo secolo, che possano portare alla creazione di centinaia di migliaia di nuovi posti di lavoro” ha fatto sapere il presidente da Seattle.

E non solo le pessimistiche previsioni di una nuova recessione economica hanno fanno colare a picco i consensi dell’ inquilino della Casa Bianca, ma anche la sua intenzione di costruire una moschea a Ground Zero.

Tale proposta è giunta a poco più di un mese dal nono anniversario della strage delle Torri gemelle, e ha trovato i dissensi di circa il 60% degli americani. Per superare lo sgomento delle famiglie delle vittime, Obama ha affermato: “gli attacchi dell’11 settembre sono stati un evento profondamente traumatico per il nostro Paese. Il dolore e la sofferenza vissuta da chi ha perso i propri cari è inimmaginabile, quindi capisco le emozioni che questa vicenda provoca. Ground Zero è, per queste ragioni, un territorio sacro”.

Il presidente ha poi ribadito che al-Qaeda e Islam non sono la stessa cosa, e che la libertà religiosa negli Stati Uniti sarà sempre tutelata. Il gesto presidenziale voleva probabilmente dare un senso storico di pacificazione e unione fra culture e religioni diverse, e chiaramente lo scopo non era quello di andare contro gli interessi del proprio partito.

Nonostante ciò, è indubbio il senso di patriottismo e attaccamento alla radici culturali e storiche della Nazione degli statunitensi; l’evento del World Trade Center è stato così traumatizzante ed è così profondamente radicato nelle coscienze dei cittadini da non permettere un tale tipo di proposta, almeno per il momento. Obama non ha forse saputo ben comprendere i tempi con i quali questo tipo di approccio potrebbe essere fatto, e questo è andato al suo discapito. Proporre una così forte presenza islamica sul terreno in cui migliaia di statunitensi sono morti (a causa di estremisti islamici) è stato ovviamente un brutto passo falso.

Di fronte, quindi, a repubblicani che accusano gli avversari di voler imporre nuove tasse, analisti scettici sulla ripresa economica ed elettori sgomenti di fronte alla proposta presidenziale della moschea a Ground Zero, è chiaro il perché i Democrats siano in netto svantaggio nelle proiezioni di voto. La situazione è decisamente complicata e molto delicata, l’unico modo per cercare di risalire la china per il Partito democratico sarebbe quello di fare marcia indietro sulla questione moschea, e spingere invece su iniziative economiche che aiutino l’occupazione. Solo così, di fronte a una crescita occupazionale quasi pari a zero, si potrebbe riconquistare la fiducia di molti elettori perplessi. Una migliore condizione economico-sociale risolleverebbe gli animi e gli umori dei nordamericani, e potrebbe essere d’aiuto al partito democratico.

Il tempo stringe e il 2 Novembre è vicino, vedremo se Obama sarà in grado di aggiustare la situazione ed evitare una bruciante sconfitta alle elezioni di mid-term.

* Eleonora Peruccacci è dottoressa in Relazioni internazionali (Università di Perugia), collabora frequentemente al sito di “Eurasia”

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