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Roberta Morosini, Boccaccio geografo

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Wake Forest University / Ente Nazionale Giovanni Boccaccio
Boccaccio geografo
Un viaggio nel Mediterraneo tra le città, i giardini e. il ‘mondo’ di Giovanni Boccaccio
a cura di Roberta Morosini

Mauro Pagliai Editore
Via Ponte alle Riffe, 43 – 50133 Firenze – Sede operativa: Via Livorno, 8/32 – 50142 Firenze – Tel. 055 7378.736 – Fax 055 7378.762
e-mail: press@eventipagliai.com – http: www.eventipagliai.com

Il libro
Dopo i rivoluzionari studi di Manlio Pastore Stocchi sul De Canaria, innovativo contributo alla letteratura di scoperta ed esplorazione oceanica, per la prima volta storici, geografi e letterati si fermano a discutere di Boccaccio geografo. Il testo, unico nel suo genere, ripercorre le tappe umane e intellettuali dei viaggi di Boccaccio, indaga sulle sue conoscenze geografiche, descrive la sua vivace curiosità per il mondo e per culture e popoli lontani dalle coste mediterranee.
Boccaccio geografo, corredato da un accurato indice dei luoghi e da preziose mappe e portolani custoditi nei manoscritti delle biblioteche italiane e straniere, si interroga anche sul modo in cui il narratore Boccaccio racconta ‘quegli’ spazi e ‘quei’ viaggi. Ne emerge un racconto geografico a più tappe, un ‘vocio’ filtrato continuamente dalla memoria letteraria e biografica. La Napoli di Virgilio poeta dell’Eneide e la Lunigiana di Dante esule, il giardino che sa di Oriente e di Occidente, la vite toscana che incontra l’arancio, gli odori e i sapori di terre lontane nel cuore di un Mediterraneo più immaginato che vissuto, spazio di un’alterità letteraria più che topografica, come quelle lontane Isole Fortunate che non sembrano poi così diverse da Berlinzone, nella contrada che si chiamava Bengodi, in cui Calandrino spera di trovare l’elitropia. Geografia fisica e geografia umana si incontrano in quest’opera e gli ‘spazi’, dal giardino alla città, dal Mediterraneo all’Oriente, diventano veri e propri percorsi conoscitivi non solo strettamente geografici, ma letterari e culturali.

Contenuti:
Andrea Cantile, Fantasia e misura nella imago mundi
Claude Cazalé Bérard, Il giardino di Fiammetta
Michelina Di Cesare, Il sapere geografico di Boccaccio tra tradizione e innovazione
Claudio Greppi, Il dizionario geografico di Boccaccio. Luoghi e paesaggi nel De montibus
Nicolò Budini Gattai, La percezione del mondo greco del XIV secolo
Janet Levarie Smarr, Altre razze ed altri spazi nel Decameron
Luca Marcozzi, Raccontare il viaggio: tra Itineraria ultramarina e dimensione dell’immaginario
Roberta Morosini, Napoli: Spazi rappresentativi della memoria
Theodore J. Cachey jr., Petrarca, Boccaccio e le isole fortunate. Lo sguardo antropologico
Indice dei luoghi
© Mauro Pagliai 2010, cm 15×21, pp. 272, 31 tavv. col., br., € 24,00
ISBN: 978-88-564-0102-8
Collana: Storie del mondo, 4
Settore: DSU1 / Storia
Altri settori: L1 / Studi, storia della letteratura, S3 / Scienze, SS4 / Antropologia, TL7 / Natura, ambiente

L’autore

Roberta Morosini è professore associato di Lingua e Letteratura italiana presso la Wake Forest University, negli Stati Uniti.
Ex vice-presidente dell’American Boccaccio Association, è autrice di numerosi saggi su Boccaccio, sulle leggende di Alessandro Magno e di Maometto in Italia nel XIV secolo e di Per difetto rintegrare. Una lettura del Filocolo di G. Boccaccio (2004). È anche curatrice di Mediterranoesis. Voci dal Medioevo e Rinascimento mediterraneo (2007) e dell’unica edizione in italiano delle Fables del XII secolo di Maria di Francia (2006).

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Il Venezuela rompe le relazioni con la Colombia e decreta “massima allerta” lungo il confine

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Fonte: http://www.20minutos.es/imprimir/noticia/772777/ 22.07.2010

Il presidente del Venezuela, Hugo Chávez, ha annunciato che rompe le relazioni con la Colombia per la “gravità di quanto accaduto” nella sessione dell’Organizzazione degli Stati americani (OSA), attualmente in corso a Washington.

Non possiamo che, per dignità, rompere completamente le relazioni diplomatiche con la sorella Colombia, e questo mi fa sanguinare il cuore. Mi auguro che la razionalità s’imponga nella Colombia che pensa“, ha detto Chavez.

Ha anche annunciato di aver ordinato la “massima allerta” lungo la frontiera, dicendo che il presidente colombiano Alvaro Uribe, per il suo “odio del Venezuela“, potrebbe scegliere l’azione militare in quella regione.

Decisione “sbagliata”

L’Ambasciatore di Colombia all’OSA, Luis Alfonso Hoyos, ha descritto come “erronea” la decisione del governo venezuelano di rompere le relazioni con la Colombia, e rimpiangeva di non fare lo stesso con la “bande criminali” come le FARC.

Devono rompere i rapporti con le bande criminali, la decisione del Venezuela è erronea. “Con chi deve rompere i rapporti, è con le bande criminali, e non con il legittimo governo della Colombia“, ha detto Hoyos.

Il Segretario Generale dell’OSA, José Miguel Insulza, ha invitato i due governi a “calmare gli animi” e trovare “un modo” per superare la crisi e la rottura dei loro rapporti al più presto.

Denuncia all’OSA

Poche ore prima dell’annuncio di Chavez, la Colombia si è lamentata con l’Organizzazione degli Stati americani a Washington, la presenza “consolidata”, “attiva” e in “crescita”, di circa 1.500 combattenti in 87 campi in Venezuela, e ha chiesto all’organizzazione di creare una commissione internazionale per verificare la presenza di campi delle FARC in territorio venezuelano.

La richiesta è stata presentata dall’ambasciatore colombiano alla sessione speciale del Consiglio permanente dell’organismo, dove ha chiesto a Caracas perché non fare controllare in loco le affermazioni colombiane, se “sono menzogne e invenzioni di Hollywood”, come le autorità del Venezuela le hanno etichettate.

L’ambasciatore venezuelano all’OSA, Roy Chaderton, ha definito le prove presentate una “menzogna chiara” e “maligna”.

Dopo l’annuncio di Chavez, il ministro degli Esteri venezuelano, Nicolas Maduro, ha annunciato che ha “dato 72 ore” al personale dell’Ambasciata della Colombia a Caracas, di lasciare il paese e ha ordinato la chiusura dell’ambasciata venezuelana a Bogotà.

Da parte loro, gli Stati Uniti hanno ritenuto che la rottura dei rapporti “non è il modo corretto” per ridurre le tensioni tra i due paesi, ha detto il portavoce del Dipartimento di Stato, Philip Crowley.


Traduzione di Alessandro Lattanzio
http://www.aurora03.da.ru
http://sitoaurora.altervista.org
http://sitoaurora.xoom.it/wordpress/
http://eurasia.splinder.com

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Africa Occidentale: il Nuovo Centro di Transito della Cocaina verso l’Europa

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I recenti rapporti pubblicati dall’UNODC (l’Ufficio delle Nazioni Unite contro la droga ed il crimine) rivelano come l’Africa Occidentale sia, ad oggi, l’imprescindibile rotta di transito dei traffici di cocaina dall’America Latina verso l’Europa.

Se tra il 1998 ed il 2003 i sequestri annuali di cocaina per l’intero continente ammontavano in media a 0,6 tonnellate e i trafficanti dell’Africa Occidentale erano dediti soprattutto ad attività di import e marketing della droga verso l’Europa su piccola scala, a partire dal 2004 si è registrato un esponenziale aumento dell’importanza della regione – una tra le più povere ed instabili del pianeta [1] – come area cruciale di transito e di stoccaggio della cocaina. Dal 2004 le confische totali cominciarono, infatti, a superare le 2,5 tonnellate, nel 2006 si stima toccassero quota 2,8 tonnellate, mentre durante i primi sei mesi del 2007 si è raggiunta la cifra record di 5,7 tonnellate, il 99% delle quali requisite proprio nei paesi dell’Africa Occidentale. La parziale riduzione dei traffici documentata nel 2008, attribuibile ad una maggiore consapevolezza ed attenzione internazionali in merito al problema, non pare abbia, tuttavia, indebolito il business della cocaina. In effetti, esso, che rappresenta, in alcuni casi, un valore che supera addirittura il PIL degli stessi Stati, continua a destabilizzare l’area e ha presumibilmente iniziato a crescere nuovamente nel 2009, sia in volume che in efficienza dei mezzi di trasporto.

Entrata, dunque, nella mappa del finanziamento del crimine mondiale e sostanzialmente bersagliata dalle mafie internazionali dedite al contrabbando di armi, droghe, sigarette, esseri umani, rifiuti tossici, medicinali contraffatti e risorse naturali, l’Africa Occidentale pare garantire sul proprio territorio un traffico annuale di cocaina commisurabile in circa 50/60 tonnellate e stimato in entità prossime al miliardo di dollari.


Perchè l’Africa Occidentale?

Le ragioni che rendono l’Africa occidentale la piattaforma ideale per il traffico e lo stoccaggio di cocaina proveniente dall’America Latina e diretta verso l’Europa, dove la domanda dell’”oro bianco” si fa sempre più pressante, sono riconducibili a tre fattori.

Innanzitutto, il successo delle operazioni di sequestro sull’Atlantico e lungo le coste europee (Spagna e Paesi Bassi in testa), l’inasprimento delle misure di carattere finanziario introdotte dall’amministrazione Bush dopo l’11 settembre e il declino del mercato nordamericano resero necessari, per i trafficanti, la sperimentazione di nuove rotte, più sicure e vantaggiose, ed un inevitabile spostamento del centro di gravità del mercato globale di sostanze stupefacenti.

In secondo luogo, l’Africa Occidentale gode di una posizione geografica e strategica che permette ai narcos di ridurre i rischi e massimizzare i profitti. I carichi inviati verso l’Africa, infatti, attraversano il decimo grado di latitudine nord, dove minore è la distanza dai paesi latinoamericani, e, poiché solo residualmente sospettati di contenere la cocaina, hanno una maggiore possibilità di sfuggire ai controlli, garantendo un trasporto rapido e più efficiente. Porto sicuro di collegamento tra le organizzazioni criminali sudamericane ed europee, la regione è, insomma, diventata testa di ponte dei cartelli dei narcotrafficanti, i quali operano in Paesi deboli o in crisi, quindi più facilmente permeabili all’illegalità e incapaci di arginare un problema diffuso così capillarmente.

Infine, ciò che prepotentemente alimenta il fenomeno è la corruzione e la palese debolezza delle strutture di controllo e di polizia. Il valore del traffico di cocaina è, come accennato, enorme rispetto a quello delle deboli economie locali e questo permette ai narcos di insinuarsi, con notevole facilità e senza diffuso ricorso alla violenza grazie ai colossali mezzi di cui dispongono, ai livelli più alti della compagine governativa e militare, da cui ottengono evidenti complicità [2]. Questo evidenzia la drammatica vulnerabilità degli Stati africani rispetto alla criminalità organizzata e i rischi in termini di governabilità e stabilità regionale inevitabilmente intrinseci. Inoltre, l’indigenza finanziaria e materiale in cui versano le forze di polizia rende sterile l’attività di contrasto al crimine internazionale. Paradigmatico è il fatto che i sequestri realizzati dalle autorità locali sono decisamente esigui se comparati con quelli effettuati dalle marine europee al largo delle coste africane: se, ad esempio, nel 2006 i paesi africani confiscarono complessivamente 2,8 tonnellate di cocaina, la marina spagnola ne totalizzò ben 9,8. Le statistiche di molti paesi della regione sui sequestri, dunque, lungi dall’essere rappresentative dell’ampiezza reale del traffico, attestano piuttosto le deficienze delle agenzie di vigilanza e la mancanza di mezzi adeguati.


Gli Attori Coinvolti

Il business del narcotraffico testimonia l’esistenza di una grande rete di complicità a vari livelli e, in quanto anello fondamentale nelle maglie del finanziamento delle organizzazioni criminali internazionali, è indice di uno stretto legame tra droghe, crimine e terrorismo.

Le gang di narcos hanno basi prevalentemente in Sud America. Secondo un rapporto della NATO, oggi sono soprattutto i colombiani a dominare i traffici: la Colombia produce, infatti, da sola, più della metà della cocaina mondiale e da essa, nel 2007, proveniva circa il 40% dei trafficanti stranieri arrestati in Spagna (prima tappa dell’ingresso della droga in Europa). I narcotrafficanti, proprietari di aerei, navi, sommergibili, armi avanzate ed esorbitanti quantità di denaro, si appoggiano a prestanome, prevalentemente colombiani, venezuelani e messicani, che aprono società di copertura, acquistano i mezzi per il trasporto della cocaina [3] e poi si occupano del trasferimento dei soldi riciclati. Una volta giunti in Africa Occidentale, i carichi di droga vengono trasferiti e distribuiti da collaboratori locali, che svolgono un ruolo dall’indubbia importanza. Tali spalloni africani hanno, infatti, sviluppato delle collaudate reti di corrieri aerei – in particolare si tratta di nigeriani (57%) e guineani (20%) – che viaggiano su voli commerciali provenienti soprattutto dal Sénégal, dalla Nigeria, dalla Guinea e dal Mali, diretti verso il vecchio continente. In Europa, poi, sono generalmente dei residenti africano – occidentali, ancora una volta in prevalenza nigeriani, ad occuparsi della distribuzione in loco della cocaina. Baroni impuniti della droga, essi sono spesso remunerati in natura (si pensa ritengano fino ad 1/3 della merce) e questo ha permesso loro di aprire anche dei mercati locali, contribuendo notevolmente al sorgere di nuovi problemi sociali: tossicodipendenza, schiavitù, prostituzione, sieropositività. Ma sono soprattutto le connivenze ad alto livello (governi, magistratura, polizia, esercito) che fluidificano i traffici di cocaina e garantiscono ai narcotrafficanti un peso determinante nell’economia dei paesi coinvolti, acuendo le difficoltà in merito alle prospettive di sviluppo, di democrazia e di pace dell’intero continente.

La droga è, inoltre, lo strumento più efficace, redditizio ed utilizzato per finanziare i gruppi terroristici e i gruppi armati anti-governativi locali, coinvolti nei traffici verso l’Europa. Le grandi organizzazioni criminali si appoggiano, infatti, a gruppi di trafficanti locali che, conoscendo il territorio, guidano sulle rotte transahariane i traffici stessi. Luogo principale di smistamento della droga verso il vecchio continente e, a tutti gli effetti, strada africana della cocaina è l’arida zona del Sahel, che si estende lungo tutto il nord Africa, proprio a sud del Sahara, dove notoriamente operano diversi gruppi militanti, tra cui cellule di Al Qaeda e il Gruppo AQUIM (Al Qaeda del Maghreb Islamico), specializzato nei sequestri di cittadini occidentali. Il Sahel è una fascia di territorio caratterizzata da forti instabilità, da povertà estrema, dalla presenza ingente di profughi di vari Stati dell’area e disseminata di basi usate dai terroristi per le loro losche attività e per l’addestramento dei guerriglieri. Attraverso il Sahel, crocevia dei traffici di stupefacenti, transitano tonnellate di droga verso l’Europa, grazie ai proventi del cui smistamento i terroristi finanziano le loro operazioni e acquistano equipaggiamenti.

Le droghe, dunque, non arricchiscono solo il crimine organizzato internazionale, ma garantiscono la prosperità anche di terroristi e forze anti-governative, potenzialmente in grado di trasformarsi in temibili eserciti privati e di inaugurare un’ulteriore spirale di violenza e di conflitti interstatali.


Le Rotte della Droga

Secondo le stime dell’UNODC, l’80% della droga arriva in Africa Occidentale via mare, stipata in grandi containers o in battelli da pesca. Essa è trasportata in “navi-madre”, modificate per contenerne diverse tonnellate, e poi trasbordata, lungo le coste atlantiche, in navi più piccole la cui provenienza non risponde ai criteri di rischio in materia di traffico di droga, garantendo in tal modo una riduzione dei pericoli legati ai controlli delle autorità marittime. I canali privilegiati sono due: quello meridionale, ossia la Baia di Benin, per poi proseguire verso il Togo, il Benin e la Nigeria, e quello settentrionale, ovvero le due Guinee e presumibilmente anche la Sierra Leone e la Mauritania. Il restante 20% della cocaina giunge tramite connessioni aeree dirette, appoggiandosi a piste d’atterraggio clandestine, numerose soprattutto in Guinea-Bissau, ma anche a voli di linea. Tali mezzi aerei sfruttano la debole copertura radar dell’Atlantico e spesso sono dotati di serbatoi aggiuntivi che permettono rifornimenti in volo.

Il 60% della droga che transita attraverso l’Africa Occidentale arriva, così, in Europa seguendo – allo stesso modo – i canali marittimo (in prevalenza) ed aereo. I trafficanti utilizzano dei battelli con cui percorrono le vie di navigazione più frequentate, mescolandosi ad altri mezzi, e, a testimonianza dell’uso di strumenti sempre più sofisticati, possono usufruire anche di nuovi ed efficienti sistemi di vedette. Le organizzazioni criminali trafficano la cocaina verso l’Europa anche tramite aerei (Boeing 727, 707 e DC9), piccoli jet in versione cargo che possono trasportare 10 tonnellate di droga oppure bimotori ad elica. Soprattutto i corrieri nigeriani si avvalgono pure di aerei di linea, sui quali trasportano, ognuno, piccole quantità di cocaina, nascoste o ingerite, paralizzando i controlli agli aeroporti sia di partenza che di arrivo.


L’Emblematico Caso della Guinea-Bissau: il Narco-Stato

La Guinea-Bissau rappresenta il caso più evidente del crescente utilizzo dell’area come zona nevralgica del traffico di cocaina verso l’Europa ed è, con i suoi 350 km di costa frastagliata da 82 isole controllate da un’unica nave, il punto chiave d’ingresso della cocaina in Africa. Tra i sei paesi più poveri al mondo, essa risponde perfettamente alle esigenze dei narcotrafficanti che, trasferendosi fisicamente a Bissau ed insinuandosi nella sua precaria economia, l’hanno de facto trasformata nel primo narco- stato al mondo. Forti di un clima di diffusa corruzione ed aberranti complicità istituzionali, di palese inefficacia delle forze di polizia e di debolezza dell’apparato giudiziario, i narcos hanno, infatti, creato in Guinea-Bissau una sorta di potente e sovrano stato nello stato, che le classi politica e militare [4], perennemente in lotta e ingabbiate nei meandri del cospicuo flusso di denaro garantito dal traffico di cocaina, non possono e non vogliono contrastare. La progressiva perdita del controllo del territorio da parte delle autorità centrali e le lotte interne tra fazioni etniche rischiano, inoltre, sempre più plausibilmente, di sfociare in un’altra drammatica guerra civile. È lo stesso Segretario ONU Ban Ki Moon a lanciare l’allarme, ammonendo che “il traffico di droga influisce negativamente sugli sforzi di peace-keeping in Guinea-Bissau”.

Il coinvolgimento indiretto dell’amministrazione pubblica nel business della droga consente, così, ai narcotrafficanti di ridurre drasticamente i costi di trasporto e di smercio, di sfruttare impunemente le numerose piste di atterraggio disseminate nel paese e di operare pressoché indisturbati. Inoltre, la fragilità politica ed economica del paese aggrava ulteriormente le nefaste conseguenze interne dell’attività dei narcos e rende la Guinea-Bissau un fertile terreno di coltura del terrorismo internazionale e dell’ideologia fondamentalista. Gruppi come Al Qaeda, Hezbollah e le Farc colombiane hanno, infatti, investito – con successo – nel paese e il ruolo dell’estremismo islamico risulta in forte crescita: vi è, in particolare, una potente rete illegale libanese che gestisce i proventi del commercio di droga per sovvenzionare le attività della sciita Hezbollah. Il paese appare, altresì, talmente vulnerabile al crimine organizzato che, come sostiene il direttore dell’UNODC Antonio Maria Costa, ora si teme che i narcos abbiano intenzione di fare della Guinea-Bissau non più solo zona di transito di sostanze stupefacenti, ma anche di produzione di droghe sintetiche.


Conclusioni

L’utilizzo dei paesi dell’Africa Occidentale come privilegiate vie di transito del traffico internazionale di cocaina rappresenta un ulteriore ostacolo allo sviluppo dell’intero continente e, in virtù degli inevitabili impatti di lungo periodo che tale fenomeno produce, rischia di gravare in modo preponderante sulla pace e sulla prosperità economica, sociale e politica dell’area. Il drammatico aumento di crimini violenti, della corruzione, delle frodi bancarie, la progressiva, ma inesorabile, disintegrazione del tessuto sociale e l’espandersi dell’influenza di gruppi terroristici esacerbano i problemi già presenti in una regione come l’Africa occidentale, incapace, per la scarsità di mezzi, di risorse e di coordinazione, di fronteggiare tali serie minacce al proprio avvenire.

Nonostante l’elevato numero di missioni ONU nella regione (UNOCI in Costa d’Avorio, UNMIL in Liberia, UNOGBIS in Guinea-Bissau, UNIPSIL in Sierra Leone e UNOWA per l’Africa occidentale nel suo complesso), risultati degni di nota tardano ad arrivare. Gli sforzi nazionali o bilaterali profusi dai diversi paesi coinvolti dal narcotraffico rischiano, inoltre, semplicemente di spostare i flussi di stupefacenti verso le zone più povere, dunque più fragili e meno controllate, e di generare situazioni paragonabili a quelle della Guinea – Bissau. Anche alla luce degli inviti provenienti dal Consiglio di Sicurezza dell’ONU a sollecito di una più forte cooperazione regionale, è dunque opportuno sottolineare come, probabilmente, solo la creazione di un network africano e un’efficace azione coordinata a livello globale, unite a rigorose misure preventive, possano davvero combattere un traffico che è, a tutti gli effetti, quanto mai globale e le cui conseguenze si riversano – direttamente o indirettamente – sulla sicurezza e sulla stabilità internazionali.


[1] Nella lista ONU dei sedici “paesi meno sviluppati” a livello globale, ben tredici provengono dall’Africa Occidentale
[2] Tristemente noti a tal proposito sono soprattutto la Guinea-Bissau, il Gambia e la Sierra Leone (rapporto UNODC 2010)
[3] Per quanto riguarda i mezzi aerei il mercato privilegiato è quello nord-americano.
[4] Il rapporto UNODC del 2010 sottolinea come il traffico di droga in Guinea-Bissau sia sostanzialmente monopolizzato dall’esercito e controllato dai più alti gradi militari, pronti a mettere sotto silenzio ogni voce in merito a connivenze con i narcos

* Valentina Francescon è Dottoressa in Scienze Internazionali e Diplomatiche (Università di Trieste)


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Chavez e Israele: il Medio Oriente in America Latina

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In mezzo a tutto il fiorire di reazioni (o meglio, di mancate reazioni…) della comunità internazionale al sanguinoso attacco israeliano contro la Striscia di Gaza di fine 2008-inizio 2009, è passato in secondo piano l’atteggiamento assunto dal Venezuela di Chavez.

La Repubblica Bolivariana, infatti, ha deciso, in data 6 gennaio, l’espulsione dell’ambasciatore d’Israele Shlomo Cohen, in risposta a quella che il presidente ex-parà ha definito la “barbarie” di Gaza. Decisione destinata prevedibilmente ad avere parecchie ripercussioni sul futuro degli equilibri geopolitici dell’America Latina. Intanto, già il giorno successivo, è arrivata immediata e scontata la risposta di Tel Aviv: l’espulsione dell’Incaricato d’Affari del Venezuela in Israele, Roland Betancourt. Il Venezuela infatti non aveva alcuna rappresentanza diplomatica in Israele, ma appunto un Incaricato per il disbrigo di Affari diplomatici. Relazioni di basso livello, insomma. Già in netto peggioramento da quando Chavez espulse una prima volta l’ambasciatore israeliano durante la guerra al Libano dell’estate 2006, e anche in seguito all’inesorabile avvicinamento politico ed economico all’Iran di Ahmadinejad.

Come dicevamo, la notizia è passata molto in sordina, almeno sui nostri media: trafiletto fra le vittime di un bombardamento e l’altro, e un atteggiamento come per indicare che un atto del genere rientri piuttosto nel folklore della politica sudamericana, tanto lontana dal teatro mediorientale.

Lettura decisamente superficiale: in America Latina, infatti, non solo gli Stati Uniti (con la loro storica politica di ingerenza nel cortile di casa dettata dalla dottrina Monroe), ma anche Israele stesso ha sempre giocato una partita decisiva per la propria influenza internazionale.

Premessa: il principale fronte di scontro (per ora fortunatamente solo politico, ma che occasionalmente rischia di sfociare in guerra vera e propria) che si gioca attualmente nel subcontinente americano è ormai da diverso tempo sull’asse Colombia-Venezuela.

Due Paesi vicini, per certi versi fratelli (entrambi devono la loro indipendenza a Simon Bolivar e furono protagonisti del suo grande progetto politico, facendo anche parte della stessa nazione, la Grande Colombia, dal 1819 al 1831) ma al tempo stesso divisi da una rivalità storica e da due destini politicamente agli antipodi.

In realtà il ruolo di Israele nelle aree di crisi sudamericane ha radici ancora più lontane, ed è soprattutto legato alla funzione di immenso deposito di armi, di cui gli Stati Uniti sono sempre stati generosi fin dalla sua nascita, nel 1948.

Avendo quindi il governo israeliano guadagnato ben presto la fama di immensa armeria e di Paese più militarizzato al mondo, soprattutto a causa della sua storia di guerra semi-permanente con i vicini arabi nel corso di tutti questi decenni, non deve sorprendere che durante la Guerra Fredda esso fosse divenuto un punto di riferimento per tantissimi regimi che aspiravano ad entrare nell’area di influenza statunitense nelle regioni più delicate del globo. Il Sud America fu, come noto, una delle principali vittime della contrapposizione USA-URSS. Per niente disposti a perdere la loro storica zona di controllo a sud, gli statunitensi non persero tempo a reprimere con la forza tutti quei partiti e movimenti popolari che, anche quando non comunisti o filo-sovietici, reclamavano giustizia sociale per le masse del continente, da sempre sottoposte a sfruttamenti e vessazioni da parte di ristrette oligarchie gradite agli interessi di Washington. Atteggiamento che, si sa, si spinse anche al rovesciamento di governi democraticamente eletti, come quello del socialista Allende in Cile, con la successiva installazione del regime di Pinochet.

Questo fu solo il primo passo di una catena che vide, a partire dagli anni ’70 e con un picco nel decennio successivo, l’irruzione sulla scena della famigerata counter-insurgency, la politica di controguerriglia eterodiretta dagli USA contro i movimenti di liberazione nazionale della regione. Lo schema si ripeteva meccanicamente in quasi ogni Paese del Centro e Sud America: laddove la popolazione richiedeva più libertà e giustizia, ecco che i governi venivano affidati a giunte militari o comunque ad ambienti di apparati legati a Washington. Naturale che, in diversi casi, le opposizioni popolari ricorressero alla guerriglia armata. Ed è proprio a quel punto che interveniva Israele: armi, addestramento e consiglieri militari, di concerto con l’alleato nordamericano. A decenni di distanza, con molti segreti scoperchiati (e con tanti altri di cui invece non sapremo mai nulla) è certo che il principale fornitore di armi per regimi brutali come quelli di Haiti, Argentina, Brasile, Paraguay, Panama, Perù, Costarica, Repubblica Dominicana, Honduras e Guatemala fu proprio Israele, assieme al reclutamento e addestramento dei Contras in Nicaragua in funzione anti-sandinista, ingrassando al tempo stesso la dittatura di Somoza di ingenti carichi di armi. I contratti di vendita e collaborazione con questi regimi erano mascherati da innocui aiuti tecnici e da non meglio definita “pacificazione rurale”, da intendersi in realtà come liquidazione di massa e sistematica di campesinos in odor di guerriglia. Scendendo nel dettaglio, si possono ricordare episodi della Guerra Sporca in El Salvador che videro protagonisti gli squadroni della morte  freschi di addestramento israeliano: la tristemente famosa polizia segreta dell’ANSESAL, capeggiata dall’ufficiale Roberto D’Aubuisson, che non molto tempo dopo entrò anche in politica alla guida del movimento reazionario ARENA, da lui stesso fondato, e che mandò addirittura il figlio a studiare in Israele. D’Aubuisson che si macchiò tra le altre cose dell’omicidio dell’Arcivescovo di San Salvador Oscar Romero. Il guadagno per Israele in El Salvador fu notevole: dal 1975 ala 1979 l’83% delle commesse militari del Paese centroamericano erano infatti stipulate con Tel Aviv, secondo lo Stockholm International Peace Research Institute. Va ricordato anche che Israele pagò il suo coinvolgimento nel conflitto salvadoregno con l’uccisione da parte della guerriglia del suo Console onorario, Ernesto Liebes.

Il quadro storico, dunque, è piuttosto pesante. Ma non si ferma qui, perché arriva ai giorni nostri e finisce per riguardare anche Chavez stesso. Come in occasione del fallito golpe dell’aprile 2002, quando Pedro Carmona tentò senza successo di prendere il potere a Caracas. Al suo fianco, secondo diverse fonti, si muovevano personaggi non estranei ad addestramento militare israeliano, interessati a instaurare un regime amico in un Paese, il Venezuela, membro dell’Opec (organizzazione da sempre monopolizzata da stati arabi e musulmani e verso cui Israele nutre una storica diffidenza). Il colpo di Stato, però, fallì, e da allora le relazioni israelo-venezuelane conobbero un rapido declino, a cominciare da un accordo militare bilaterale per la revisione e vendita congiunta alla Cina di jet F-16 di produzione statunitense, che fu fatto annullare proprio da… Washington, a cui evidentemente una mano troppo libera di Tel Aviv in America Latina non piace molto.

In seguito a questo episodio, le attenzioni israeliane iniziarono a distogliersi sempre più da Caracas e, fra una polemica e l’altra, si sono via via indirizzate alla vicina Colombia. La quale, per Israele, è da sempre un ottimo cliente sia ufficialmente che… ufficiosamente. In quest’ultimo ambito rientra infatti l’appoggio logistico, l’addestramento e il rifornimento di armi di cui, sin dalla loro nascita, hanno goduto i tristemente noti paramilitari delle AUC (Autodefensas Unìdas de Colombia), tramite agenzie di sicurezza private come quella dell’ex colonnello di Tsahal Yair Klein (noto mercenario internazionale, implicato a suo tempo nella strage di Sabra e Chatila). Prova incontestabile di questo legame è addirittura un intero capitolo che Carlos Castano, fondatore delle AUC, dedica nella sua autobiografia alla sua formazione israeliana.

All’appoggio agli squadroni della morte si aggiunge, naturalmente, quello proficuo allo Stato colombiano: mitragliatrici Uzi, carichi di munizioni, ma anche materiale molto più sensibile e sofisticato, che dimostrano l’esistenza di un legame ideologico solido fra i due stati, prima ancora che semplici forniture belliche. Infatti attraverso le sovvenzioni statunitensi del Plan Colombia (ufficialmente destinato a combattere il narcotraffico, secondo certi maliziosi istituito piuttosto per mantenerlo sotto controllo statale…) l’esercito colombiano è anche all’avanguardia per jet, droni senza pilota e sistemi di intelligence (l’ultima contratto in materia è stato assegnato alla compagnia israeliana Global CST per un totale di 10 milioni di dollari). Nessuna sorpresa che un tale arsenale debba essere di tanto in tanto essere utilizzato sul campo, magari con la scusa dell’onnipresente terrorismo (in Colombia quello delle Farc e dell’Eln). In realtà il più delle volte la vittima di questi armamenti finisce per essere la stessa popolazione civile colombiana, o addirittura uno stato confinante, proprio come accaduto l’1 marzo scorso con l’impunita violazione della sovranità del vicino Ecuador (anche lì, obiettivo dichiarato un campo oltre confine delle Farc, evidentemente la parola magica “terrorismo” legittima ormai qualsiasi cosa in ogni angolo del mondo).

E ancora, nessuna sorpresa che, in seguito a quello che era stato a tutti gli effetti un atto di guerra contro l’Ecuador, Chavez arrivò a schierare i carri armati sul confine con la Colombia, definendola “Israele dell’America Latina”. Il governo di Bogotà aveva evidentemente ben appreso la politica dell’aggressione a freddo, e delle scuse successive, a fatto compiuto, dai suoi maestri di Tel Aviv.

Per la storia dei rapporti fra Israele e regimi del Centro e Sud America, si consiglia il libro di Jon Lee Anderson “Loose Cannon: On the Trail of Israel’s  Gunrunners in Central America”.

Alessandro Iacobellis, laureato in Scienze della Comunicazione con una tesi in Storia Contemporanea, si occupa di politica internazionale e geopolitica

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La Cina si concentra sulla “difesa in mare aperto”

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Fonte: “Asia Times Online”, 09.07.10


Un recente discorso riguardante la modernizzazione dell’Esercito di Liberazione Popolare (ELP) cinese, ha sottolineato più i progressi tecnologici che la trasformazione della dimensione umane dell’ELP. In particolare, riesaminandola, questa discussione ha rivelato l’assenza della disponibilità di una banca dati pubblica dei comandanti militari cinesi col grado di generale pieno (shangjiang).

Sullo sfondo dell’intenzione dichiarata dall’ELP di riorientare le forze armate nell’ambito del suo programma di modernizzazione, un’analisi delle carriere dei 118 generali(1981-2009) può fornici indicazioni significative sulla trasformazione dell’ELP.


ELP aumenterà le forze navali ed aeree

Una serie di recenti dichiarazioni di alti ufficiali militari cinesi che alludono a un riallineamento dell’ELP, indicano che potrebbero essere in vista significativi cambiamenti nella composizione delle forze armate.

Ad aprile, il portavoce del ministro della difesa cinese, il colonnello Huang Xueping, dichiarò durante un’intervista: “E’ naturale che si voglia costruire una forza militare efficiente [corsivo aggiunto] che sia incentrata più sulla tecnologia che sulla forza dell’uomo”. La dichiarazione di Huang, tenendo conto della crescente assertività della marina cinese nelle acque internazionali vicino al Giappone e nel Mar Cinese Meridionale negli ultimi anni, ha sollevato domande sulle intenzioni e sulle capacità dell’ELP.

Difatti, la direzione militare cinese sembra stia mostrando l’intenzione di allontanarsi dalla tradizionale priorità data all’esercito per concentrarsi sulla forza aerea e navale. Rafforzando il ruolo dell’aviazione e della marina, pare si voglia estendere la capacità di proiezione della potenza militare cinese nel Pacifico, pur riducendo le dimensioni numeriche complessive delle forze armate.

Secondo il colonnello anziano Yang Chengjun, ricercatore della forza strategica dell’ELP, la proporzione dell’esercito nelle forze armate cinesi è un “problema” radicato nella storia e dimostra il bisogno di “ottimizzare la composizione delle diverse armi” in modo che la macchina militare cinese possa sostenere le sfide della modernità.

Sulla stessa linea del ministro della difesa cinese, il direttore del Centro per il Controllo delle Armi e degli Studi sulla Sicurezza Internazionale presso l’Istituto Cinese di Studi Internazionali a Pechino,Teng Jianqun, il quale considera la concentrazione della Cina sullo sviluppo delle forze aeree e navali ormai inevitabile.

Prendendo l’analisi da un ulteriore punto di vista, Xu Guangyu, un maggiore generale dell’ELP in pensione, ora facente parte dell’Associazione Cinese per il Controllo delle Armi e il Disarmo (CACDA), un gruppo governativo di esperti, crede che la Cina possa realizzare queste evoluzioni distribuendo il bilancio tra l’esercito, la marina e l’aviazione con un rapporto di 50:25:25, anziché l’attuale rapporto di 60:20:20.

Xu non considera il rapporto di 40:30:30 poiché ritiene che la potenza navale ed aerea sarà “per lo più utilizzata per aumentare l’efficacia di combattimento delle nostre [della Cina] forze di terra.” L’affermazione di Xu sembra implicare che l’ELP – almeno per il momento – non stia tentando di emulare la proiezione della potenza globale americana, le cui capacità sono sostenute e rese possibili dai bilanci militari nordamericani che in questi ultimi anni hanno distribuito risorse tra esercito, marina e aviazione pressapoco pari ad un rapporto di 40:30:30. [1]


Strategia della “Difesa in mare aperto”

L’avvento della strategia della “difesa in mare aperto” (yuanyang fangyu, letteralmente “difesa nel mare lontano”) della Marina dell’Esercito di Liberazione Popolare (MELP), ideata per lo sviluppo a lungo termine delle capacità navali cinesi, sembra essere il motivo principale della spinta a trasformare la composizione delle forze armate cinesi.

Yin Zhuo, un contrammiraglio in pensione, attualmente ricercatore anziano presso il Centro di Ricerca ed Equipaggiamento della Marina, dichiarò in un’intervista al People’s Daily Online che la MELP è stata creata per assolvere a due missioni principali: preservare la sicurezza marittima (inclusa l’integrità territoriale) e proteggere i fiorenti ed estesi interessi economici e marittimi della Cina.

E se la prima rappresenta ancora la principale preoccupazione della MELP, si sta cominciando a dare maggiore importanza alla seconda. Il contrammiraglio Zhang Huachen, vice comandante della Flotta del mare orientale, sostiene che “con l’espansione degli interessi economici del Paese, la marina vuole proteggere le rotte di trasporto nazionali e la sicurezza delle più importanti rotte marittime”. La dichiarazione del contrammiraglio mostra una motivazione logica e legittima alla base della nuova strategia della MELP.

La strategia della difesa in mare aperto è significativa per due ragioni. Innanzitutto, mostra che le ambizioni navali della Cina si estendono oltre le tradizionali aree costiere o “mare vicino” (jinyang). In secondo luogo, amplia le responsabilità difensive della MELP, includendo la protezione degli interessi economici marittimi della Cina – che il precedente rapporto sulla difesa della Cina non prevedeva[2].

È logico, dunque, che una possibile motivazione chiave dietro il riorientamento delle forze armate della Cina deriva dal bisogno percepito da quest’ultima di proiettare la sua influenza oltre l’area costiera dove è richiesto alla MELP di mettere in atto le nuove mansioni previste.


CMC: il più elevato organo di comando militare della Cina

In qualità di organo di comando e politica militare più elevato, il CMC sorveglia e comanda le cinque branche delle forze armate cinesi: le forze di terra dell’ELP, l’Aviazione dell’Esercito di Liberazione del Popolo (AELP), i Corpi di Seconda Artiglieria (CSA [le forze nucleari, ndt) e la Polizia Armata del Popolo (PAP) (che rientra sotto la guida congiunta del CMC e del Consiglio di Stato).

Dal ristabilimento del grado militare (junxian) nel 1988, il CMC ha promosso a generale 118 comandanti militari: 17 sotto Deng Xiaoping (1981-1989), 79 sotto Jiang Zemin (1989- 2004) e 22 sotto Hu Jintao (2004 a tutt’oggi).

Le forze armate cinesi sono tradizionalmente influenzate dall’esercito, in virtù della storia della Cina come potenza continentale. Per di più, le forze di terra dell’ELP hanno radici negli anni ’20, prima ancora che nascessero la Repubblica Popolare e le altre armi.

Perciò, non sorprende che i generali delle forze di terra facciano la parte del leone coprendo il 71 % del totale. Tuttavia, Hu ha promosso più generali “non appartenenti alle forze di terra” (MELP, AELP, CSA and PAP) rispetto ai suoi predecessori. In termini percentuali, il 45% dei generali promossi da Hu non fanno parte delle forze di terra, in confronto al 25% e al 24% rispettivamente di Jiang e Deng.


Strategia del Corpo della Seconda Artiglieria

Il CMC sovrintende direttamente e comanda i CSA, che controllano l’arsenale nucleare e i missili convenzionali della Cina. Nonostante lo scarso organico (stimato a 100.000 unità, ossia il 3% del personale militare cinese), la CSA hanno prodotto un numero proporzionalmente più alto di generali.

Dei 118 ufficiali promossi a generale, 6 (il 5% del totale) provenivano dai CSA – il chè può essere indicativo della speciale reputazione che questa branca ha all’interno delle forze armate cinesi. Hu ha nominato, in termini percentuali, la maggior parte dei generali dei CSA (9%), rispetto a Deng (6%) e Jing (4%). Questa sproporzione riflette il rilievo da lui conferito alla forza strategica.


La Polizia Armata del Popolo, impiegata sul fronte interno

Mentre tutte le altre armi sono orientate all’esterno la PAP, rivolta all’interno, è incaricata del “fondamentale compito di protezione e sicurezza nazionale, del mantenimento della stabilità sociale assicurandosi che la popolazione viva in pace e soddisfatta”[3].

Jiang ha incorporato con successo la PAP nella struttura di comando del CMC promuovendo il primo generale della PAP nel 1998. Nel complesso, ha nominato 5 generali della PAP, rappresentanti il 6% del totale. Proseguendo sulla stessa linea, Hu ha nominato 2 generali della PAP, ossia il 9% del totale. Finché la stabilità interna rimarrà tra le maggiori priorità del PCC e di Hu, ci possiamo aspettare che egli prosegua a promuovere generali della PAP.


Hu promuoverà più ammiragli

Escludendo i CSA, forza strategica, e la PAP, votata alla sicurezza interna, scopriamo che il 33% dei restanti generali nominati da Hu non appartengono alle forze di terra; il valore assommava al 17% per Jing e al 19% per Deng.

In altre parole, i generali nominati da Hu appartengono per il 67% all’esercito, per l’11% alla marina e per il 22% all’aviazione; i generali nominati da Jiang erano per l’83% nell’esercito, per il 7% nella marina e per il 10% nell’aviazione, mentre quelli promossi da Deng appartenevano per l’81% all’esercito, per il 13% alla marina e per il 6% all’aviazione.

Sembra che Hu abbia iniziato un processo di riorientamento dei suoi generali, concentrando le promozioni nella Marina e nell’Aviazione. Date le ambizioni alla Marina ed il relativo sottorappresentamento degli ammiragli (in cui il punto di riferimento, malgrado le dichiarazioni di Xu, è raggiungere una proporzione del 25%), ci si può aspettare che Hu aumenti la promozione di ufficiali della MELP.

In qualità di presidente del CMC, Deng ha promosso 17 generali in un’unica “classe” nel 1988. Jiang ha promosso, in media, generali ogni due anni tra il 1989 e il 2004, con classi solitamente composte da dieci generali. Hu, in media, ha promosso generali ogni anno tra il 2004 e il 2009 con una classe composta mediamente da 4 generali. Mentre Jiang sembra aver istituzionalizzato il processo di promozione, Hu sembra averlo regolarizzato.


Implicazioni

Se Hu continuasse a promuovere generali più o meno allo stesso ritmo che ha avuto in passato, egli potrebbe ragionevolmente promuovere altri 10 generali entro la fine del suo mandato di presidente del CMC nel 2012 (anche se egli potrebbe reiterarlo oltre il 2012 seguendo l’esempio di Jiang). Dato il riorientamento delle forze armate cinesi, che rappresenta una priorità dell’ELP, ci si dovrebbe aspettare di vedere, durante il rimanente mandato di Hu, una sproporzione di neo-generali a favore delle forze non di terra.

Dei 10 prossimi generali di Hu, assumendo che CSA e PAP ne abbiano uno ciascuno, si potrebbe ragionevolmente pensare che gli altri 8 possano articolarsi così: 3 generali nell’esercito, 3 nella marina e 2 nell’aviazione.

Questa combinazione conferirà una proporzione finale dei generali promossi da Hu pari a 58% nell’esercito, 19% nella marina e 23% nell’aviazione – un risultato direzionalmente coerente se paragonato all’obiettivo dichiarato da Xu del 50% all’esercito, 25% alla marina e 25% all’aviazione.

È improbabile che il numero degli ammiragli della Marina abbia un aumento improvviso, mentre ci si aspetta che Hu continui in futuro il suo graduale e bilanciato approccio nella promozione dei generali, prendendo in considerazione gl’interessi di tutte le branche, come in passato. Questo riflette anche l’approccio piuttosto cauto di Hu alle forze armate, dato dalla mancanza di una formazione militare.

Ormai gli obiettivi sono chiari. Questo è solo l’inizio di una tendenza a lungo termine.


(Traduzione di Sabrina Cuccureddu)


* Joseph Lin Y attualmente studia presso l’Istituto universitario di Affari Internazionali e Studi Strategici di Tamkang University di Taipei, Taiwan. Ha ricoperto incarichi dirigenziali presso società multinazionali e società di investimento negli Stati Uniti, in Cina, Hong Kong e Taiwan. L’ articolo più recente di Lin è “Il mutamento del volto dei Generali Militari Cinesi: evoluzione delle pratiche di promozione tra il 1981 e il 2009″; è stato pubblicato nella Gazzetta coreana di Analisi della Difesa nel marzo 2010


Note

1. Todd Harrison, Analysis of the 2010FY Defense Budget Request (Washington DC: Center for Strategic and Budgetary Assessments, August 12, 2009): 38. Quando la voce “difesa a livello europeo” è esclusa dal bilancio militare degli USA, il relativo rapporto del bilancio tra esercito, marina (compreso il corpo dei marines) e aviazione è stato negli ultimi anni di circa 40:30:30 .

2. Information Office of the State Council of the People’s Republic of China, “China’s National Defense 2008″, January 2009, Section V: 7.

3. Ibid, Sezione VIII: 10

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La Serbia perde il Kosovo ma guadagna la FIAT

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Quanto accaduto nella giornata di ieri, pronunciamento della Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja (città non particolarmente amata a Belgrado …) e annuncio di Marchionne, sembrerebbero due eventi separati ma in realtà corrispondono alla stessa logica e allo stesso storico disegno, lo smembramento dell’ex Jugoslavia e la penetrazione nei Balcani dei potentati economico-finanziari sotto protezione atlantista.

Bisogna innanzitutto sottolineare il carattere solamente simbolico del pronunciamento sul Kosovo, in quanto l’ultima parola sulla questione spetterà all’Assemblea Generale dell’ONU, che a settembre dovrà confermare le conclusioni della Corte e indicare alle parti politiche la strada da seguire.

Stando a quanto riportato nelle scorse ore dalle varie agenzie, sarebbero tre gli scenari ora possibili:

uno scambio di territorio; la concessione di una larga autonomia alla parte nord del Kosovo – quella a maggiore concentrazione di popolazione serba; un assetto politico e territoriale analogo a quello esistente a Cipro.

Nel primo caso, si prenderebbe in considerazione un eventuale passaggio alla Serbia del Kosovo settentrionale, che ha continuità territoriale con la Serbia e che è teatro delle tensioni maggiori fra la comunità serba e quella albanese, in cambio dell’annessione al Kosovo della regione di Presevo, nel sudest della Serbia al confine col Kosovo, caratterizzata da una massiccia presenza di popolazione albanese.

Se una parte dei serbi non sono disposti a vivere nella parte nord del Kosovo e pensano di potersi separare, allora gli albanesi della regione di Presevo sono pronti a unirsi al Kosovo”, ha detto di recente il presidente del Parlamento kosovaro Jakup Krasniqi.

Un’alternativa meno traumatica potrebbe essere la concessione al nord del Kosovo di uno statuto di forte autonomia e alcuni citano come possibile modello l’Alto Adige-Suedtirol.

Una larga autonomia al nord e’ una soluzione possibile, ma purtroppo modelli non ce ne sono e bisogna trovarli sul terreno”, ha però osservato ieri l’ambasciatore d’Italia a Pristina Michael Giffoni, che e’ anche rappresentante speciale con il ruolo di ‘facilitatore politico’ dell’Unione europea a Kosovska Mitrovica, la citta’ del nord Kosovo letteralmente divisa in due in un settore serbo e uno albanese, e simbolo per questo della persistente contrapposizione etnica in Kosovo.

Giffoni, che ritiene difficile un ripensamento sull’indipendenza, esclude un possibile scambio di territori fra Belgrado e Pristina e sostiene di propendere piuttosto per uno statuto di forte autonomia per il nord, dove la Serbia continua a sostenere economicamente le strutture parallele.

”Tutto però va fatto guardando innanzitutto ai problemi concreti della popolazione, sia quella serba che quella albanese, a cominciare dalla regolamentazione del commercio, dal funzionamento delle dogane e delle forze di polizia, dall’erogazione dell’energia elettrica” e via dicendo.

Una terza ipotesi potrebbe ricalcare la situazione di Cipro, l’isola mediterranea divisa in due, della quale tuttavia é entrata nella Ue solo la parte greca, mentre quella sotto controllo turco fa come dire vita a sé.

Il nostro ambasciatore si e’ mostrato peraltro fiducioso e sostanzialmente ottimista sulle prospettive di soluzione della disputa in Kosovo.

Al nord io vedo notevoli segnali di miglioramento e a Mitrovica si nota un inizio di integrazione fra serbi e albanesi”, ha detto Giffoni, per il quale gli ultimi, recenti incidenti registratisi nella zona non sarebbero il frutto di azioni organizzate.

Del resto, anche la gente comincia a essere stanca”, ha aggiunto.

Molto dipenderà dal primo passo che farà Belgrado dopo il pronunciamento della Corte internazionale, visto che sono stati i serbi a chiedere il suo parere”.

Ma la Serbia, per ora, non sembra intenzionata ad abbandonare la partita diplomatica e per bocca delle sue più alte cariche istituzionali ha dichiarato che “non riconoscerà mai l’indipendenza del Kosovo”, pur dichiarandosi disponibile a trattare per una soluzione condivisa e forte del sostegno di Russia e Cina (ma anche di Spagna, Argentina, Venezuela, Cipro, Romania ecc.) che hanno già ribadito come “il rispetto per la sovranità e l’integrità territoriale degli Stati sia uno dei principi fondamentali della legge internazionale”.

Questo nutrito gruppo di Stati (ricordiamo che il Kosovo è stato riconosciuto indipendente finora da 69 paesi su 192 membri appartenenti alle Nazioni Unite), hanno ribadito che la separazione non consensuale di una regione da uno Stato membro dell’Onu fomenterebbe i secessionismi di tutto il mondo.

Già oggi i serbi di Bosnia Erzegovina hanno alzato la voce ed annunciano l’intenzione di proclamare la propria indipendenza sulla base del parere espresso ieri dalla Corte Internazionale di Giustizia all’Aja sul Kosovo.

La Repubblica serba di Bosnia – ha dichiarato il premier serbobosniaco Milorad Dodik citato dai media belgradesi – potrebbe adottare subito una dichiarazione di indipendenza che non viola il diritto internazionale. Il caso rappresenta un segnale positivo per proseguire la lotta per il futuro status della Republika Srpska. E’ parecchio tempo che non ci piace più far parte della Bosnia”.

E’ per questo timore che paesi con problemi di minoranze etniche al loro interno (tra i quali ad esempio cinque stati membri dell’Unione europea) si sono schierati contro il riconoscimento del Kosovo.

Sul piano giuridico, poi, non esistono norme che consentano una secessione, se si escludono quelle scaturite dal contesto coloniale.

Infine, la risoluzione 1244 del Consiglio di Sicurezza, unico organo internazionalmente riconosciuto capace di deliberare su una secessione, prevede il rispetto dell’integrità territoriale della Serbia, pur ammettendo per il Kosovo una sostanziale autonomia.

Secondo i giudici della Corte, invece, la 1244 ”non preclude” la proclamazione dell’indipendenza fatta dal Kosovo il 17 febbraio 2008, in quanto i due strumenti “operano su livelli diversi”.

Al contrario della 1244, la dichiarazione di indipendenza ”é un tentativo di determinare lo status del Kosovo”.

Per i giudici, la 1244 ”non contiene proibizioni” alla dichiarazione di indipendenza e non può essere quindi interpretata come un ostacolo all’indipendenza.

Proprio su questi aspetti, il pronunciamento della Corte dell’Aja appare grottesco, fino a sfiorare il ridicolo.

Grottesco perché non tiene nemmeno conto di quanto scritto in una Risoluzione delle Nazioni Unite, il cui contenuto fu decisivo per porre fine alla guerra (molto più efficace certamente dei bombardamenti della NATO, che intaccarono solo in modo minimo l’operatività dell’esercito serbo).

Ridicolo perché tiene conto solo dei pronunciamenti di una parte, quella albanese, dimenticando l’adozione della nuova Costituzione serba, confermata da un referendum popolare, secondo la quale il “Kosovo deve rimanere, per sempre, parte integrante della Serbia” e che, quindi, allo stesso modo della dichiarazione unilaterale di Pristina “costituisce un tentativo di determinare lo status del Kosovo”.

A chiarirci le idee è arrivato tempestivamente Sergio Marchionne, che ha annunciato l’intenzione della FIAT di spostare la propria produzione in Serbia, dove la “tassazione sarebbe minore”.

Non a caso, uno dei rari autori a scrivere con cognizione di causa sulla vicenda kosovara, diversi anni fa notò come: “l’obiettivo mancato di allontanare Milosevic dal potere, non fa che ritardare un programma occidentale che vede nella Serbia un formidabile fornitore di manodopera, oltretutto una manodopera molto qualificata e a buon mercato, Secondo studi recenti, la manodopera serba, con un salario doppio di quello che percepisce attualmente, costerebbe dieci volte meno di quella immigrata in Europa. Inoltre la sua vicinanza con i mercati europei ridurrebbe enormemente le spese di trasporto. In questo modo per il mercato mondiale del lavoro la Serbia diventerebbe molto più appetibile dell’Estremo Oriente” (1).

Come giustamente rilevato nell’ultimo importante discorso tenuto dallo stesso Milosevic, le potenze occidentali fecero guerra al presidente jugoslavo come pretesto per colpire la Serbia e trasformarla in un paese del Terzo Mondo: oggi questo concetto dovrebbe essere chiaro anche a quei lavoratori italiani che nei prossimi mesi verranno lasciati a casa, grazie alle “munifiche” opportunità offerte dalla delocalizzazione produttiva degli stabilimenti FIAT.

Come in un gioco ad incastro, la questione serba e quella del Kosovo e Metohija, in particolare, rappresentano un esempio significativo della strategia globalizzatrice a guida statunitense, che vorrebbe uniformare tutti i popoli del pianeta ai dettami del nuovo ordine mondiale-multinazionale, perché ne riassume le principali motivazioni di carattere economico (dominio del libero mercato), geopolitico (occidentalizzazione del mondo) e militare (influenza atlantista).

Vedremo nei prossimi mesi se le potenze eurasiatiche saranno in grado di bloccare questa offensiva e quali saranno le loro mosse, aldilà delle inevitabili dichiarazioni di condanna per il pronunciamento della Corte giunte in queste ore.

1. Sandro Provvisionato, “UCK: l’armata dell’ombra”, Gamberetti, Roma, 1999.

Stefano Vernole è redattore della rivista “Eurasia”; è autore dei libri La lotta per il Kosovo e La questione serba e la crisi del Kosovo.

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Il Baluchistan tra terrorismo, narcotraffico e diplomazia

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Lo scorso 19 luglio, l’Iran chiedeva con fermezza al Pakistan la consegna di alcuni terroristi appartenenti al gruppo sunnita Jundullah, in caso contrario l’esercito della Repubblica Islamica avrebbe attraversato legalmente i confini pakistani.

La minaccia di un raid, segue l’ultimo attacco terroristico avvenuto a Zahedan, capoluogo della provincia sud-orientale iraniana del Sistan-Baluchistan, il 15 luglio, in una delle due moschee shi’ite più importanti della città, e che ha visto  27 morti e centinaia di feriti.

L’attentato, è stato rivendicato proprio da Jundullah, come reazione alla recente esecuzione del leader ‘Abd al-Malik Rigi (l’impiccagione risale al 20 giugno scorso), la cui cattura era avvenuta il 23 febbraio in circostanze e con modalità non ancora chiarite.

Jundullah (L’Esercito di Dio), è un’organizzazione di matrice sunnita che inizia ufficialmente la sua attività sotto questo nome nel 2002. Guidata da ‘Abd al-Malik Rigi, si dichiara movimento armato per la rivendicazione dei diritti della minoranza balucha. La sua principale area di azione, è la sopraccitata provincia iraniana del Sistan-Baluchistan.

Nel corso degli anni, l’Iran ha ciclicamente accusato gli Stati Uniti di sostenere e finanziare Jundullah in un gioco atto a destabilizzare la Repubblica Islamica dall’interno. Nonostante situazioni analoghe si siano già verificate in passato, come nel caso dei finanziamenti ai Taliban, e di quelli dell’amministrazione Bush figlio al PJAK (Partito per la libera esistenza del Kurdistan, gruppo militante kurdo), queste accuse sono sempre state rigettate.

Circa il Sistan-Baluchistan, ci sono alcuni elementi da prendere in considerazione nell’analisi del recente e ciclico acuirsi delle tensioni in quest’area:

a)  La storica regione del Baluchistan si divide tra Iran, Pakistan e Afghanistan. Si tratta, non solo di aree estremamente povere e arretrate, ma, nello specifico caso di Iran e Pakistan, di province tra le più ampie e popolose.

b)  La popolazione della Repubblica Islamica dell’Iran è per il 92% di fede shi’ita. È in questo contesto che si inserisce la questione della popolazione dei baluchi, minoranza sunnita con una propria lingua e strette relazioni con i vicini baluchi del Pakistan.

c)  Secondo i report del UNODC ( United Nation Office on Drugs) l’Afghanistan detiene, già da anni, il primato della produzione mondiale di oppio (si parla di oltre il 90%), e i confini tra Afghanistan, Pakistan e Iran, sono uno dei principali teatri per crimini legati a traffico di droga, armi, riciclaggio di denaro sporco e business legato ai rapimenti. L’Iran in particolare, è un corridoio ideale per il passaggio attraverso la Turchia  e verso i mercati europei.

d)  Infine, l’area del Sistan-Baluchistan, è protagonista di un grande gioco strategico che ruota intorno allo storico progetto del gasdotto IPI (Iran-Pakistan-India), meglio conosciuto con l’evocativo nome di Gasdotto della Pace.

Questo ambizioso progetto vede la luce intorno al 1994, e prende lo pseudonimo di cui sopra in virtù del fatto che  in origine avrebbe previsto la stretta collaborazione di due potenze storicamente in conflitto come Pakistan e India. Tensioni politiche, pressioni esterne e conflitti sui costi complessivi dell’opera, hanno fatto slittare il tutto sino ad oggi.

Il 25 giugno dell’anno corrente, proprio due settimane dopo che il Consiglio di Sicurezza dell’ONU si è trovato a votare favorevolmente per l’imposizione di nuove sanzioni all’Iran, la Repubblica Islamica e il  Pakistan, hanno firmato un accordo per avviare una versione ridotta del gasdotto (1100 km rispetto agli inizialmente previsti 2600). Nel frattempo infatti, l’India si è, almeno per il momento, chiamata fuori dal progetto, lasciando libero il campo, oltre che a un panorama fatto perlopiù di incertezze, a possibili trattative per il subentrare della Cina.

È in questo contesto estremamente instabile e in un’area oggetto degli interessi più disparati, che opera Jundullah. Certo, non solo. È infatti il Pakistan area nota per la presenza di gruppi terroristici, dai Talebani, ai Lashkar-e Tayba, o Esercito del Bene, responsabili degli attentati del 2008 a Mumbay.

Quanto alle azioni dell’Esercito di Dio, alcune tra le più clamorose, hanno avuto luogo proprio nel corso dell’ultimo anno e mezzo. Ricordiamo le esplosioni e i 25 morti nella Moschea di Zahedan del 28 maggio 2009, e le 42 vittime, di cui sei alti ufficiali dei Pasdaran (i Guardiani della Rivoluzione) del 18 ottobre dello stesso anno. In entrambi i casi si trattava di occasioni simboliche (i festeggiamenti per il compleanno di Fatima, la figlia prediletta del Profeta Muhammad, e un’assemblea tra capi tribù shi’iti e sunniti), in cui poter colpire non solo civili comuni, ma anche obbiettivi di più alto livello.

Così come nel più recente caso del 15 luglio, a seguire sono state sollevate accuse dirette a ovest, accuse secondo le quali Stati Uniti e Gran Bretagna sarebbero complici del tentativo di minare una presunta unità tra shi’iti e sunniti.

Come già accennato, L’esecuzione, avvenuta il 20 giugno scorso, del capo di Jundullah, è seguita a un arresto dai contorni poco chiari. Fonti ufficiali riferiscono che la presa in consegna da parte delle autorità di Rigi, sia stata opera di un Iran solista. Affermazione non verificata e rispetto alla quale sembra più credibile l’ipotesi di un’azione coordinata tra servizi segreti iraniani e pakistani, (forse anche statunitensi e inglesi). L’agenzia Fars riferisce infatti che Rigi, intercettato su un volo Pakistan-Dubai, e fatto atterrare a Bandar Abbas, sarebbe stato precedentemente ospite di una non meglio specificata base militare statunitense.

Tornando agli ultimi fatti, se è vero che il 19 luglio le agenzie stampa di tutto il mondo diffondevano la notizia delle richieste e minacce di sconfino dell’Iran al Pakistan, è anche vero che un’ansa dell’agenzia ufficiale IRNA, appena due giorni dopo, parlava di una telefonata del Primo Ministro pakistano Sayyed Yusuf Raza Gilani al vice segretario del Primo Ministro iraniano. Argomento della comunicazione, il rinnovato impegno per una collaborazione nello sviluppo dei sistemi di sfruttamento di gas e petrolio, impegno per la presa in consegna dell’Iran del progetto per la costruzione del settore Noshki-Dalbandin di una via di collegamento tra i confini dei due paesi, impegno per gettare le basi di una maggiore collaborazione tra le regioni del Sistan-Baluchistan iraniano con il Baluchistan pakistano.

Le minacce del 19 luglio rimbalzate da un’agenzia stampa all’altra non sono da sottovalutarsi, ma non è da escludersi  l’ottica di un gioco diplomatico finalizzato ad ottenere non tanto la consegna di alcuni membri del Jundullah, quanto l’ulteriore assicurazione di una stretta collaborazione per la costruzione del gasdotto, il cui progetto resta comunque fortemente incerto per molteplici questioni.

* Ginevra Lamberti è laureanda in Lingue e Culture dell’Eurasia e del Mediterraneo (Università Ca’ Foscari di Venezia)

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La Germania: un nuovo binario per la modernizzazione della Russia.

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L’estate 2010 sarà ricordata per un rafforzamento dei rapporti tra la Germania e la Russia. Nel giro di un mese, il presidente russo Dmitri Medvedev e la cancelliera tedesca Angela Merkel si sono incontrati per ben due volte.

Il primo incontro è avvenuto il 5 giugno nel castello di Meseberg, quaranta km a Nord di Berlino: momento proficuo per lavorare intorno ad una nuova proposta russo-tedesca di sicurezza europea.

Il secondo, invece, si è tenuto il 15 luglio ad Ekaterinburg, in occasione del decimo forum per il dialogo tra i due Paesi.

La Russia e la Germania da nemici storici sono divenuti grandi alleati, determinando che le due visite aprono nuove prospettive su scenari diversi: dagli equilibri internazionali con la rinascita dell’asse Mosca – Berlino ed il progetto di una Mitteleuropa, fino alla politica interna, cioè nel cuore del sistema russo.

La Germania oggi è un treno su doppio binario, capace, da un lato, di condurre la Russia e l’Unione Europea verso una gestione comune del problema della sicurezza, e dall’altro, di spingere verso una modernizzazione della Federazione Russa.

Scegliamo di porre la nostra attenzione sul secondo aspetto, perché crediamo che la Russia uscirà da una posizione periferica nel discorso della sicurezza in Europa, solo quando sarà dotata di una solida base economica e democratica, pronta a reggere grandi obiettivi.

Il dialogo di Pietroburgo

Le relazioni tra la Russia e la Germania in generale hanno iniziato ad avere un impianto stabile, a partire dal 2001, anno di fondazione del cosiddetto “Dialogo di Pietroburgo”. Il forum è nato su iniziativa dell’allora presidente russo Vladimir Putin e del precedente cancelliere tedesco Gerhard Fritz Kurt Schröder.

Gli scopi principali di questa piattaforma sono la promozione di un dialogo costruttivo tra i rappresentanti di tutte le sfere della vita pubblica, al fine di avviare una serie di progetti comuni in vari settori: dall’economia alla cultura e la salute.

Ogni anno, si svolge una conferenza generale, a turno in Russia ed in Germania, per discutere intorno ad un tema comune da diversi punti di vista. I rappresentanti del forum, infatti, in base alle proprie competenze sono suddivisi in gruppi di lavoro tematici: Politica, Economia, Educazione e Scienza, Media, Società civile, Chiese di Europa, Laboratorio del Futuro e Cultura.

L’ultima conferenza di luglio ha riguardato “la società russa e tedesca nei prossimi dieci anni”.

Il dialogo di Pietroburgo, come è possibile rilevare dai gruppi di lavoro e dalle tematiche, non è una forma istituzionale che interviene nel campo della sicurezza, ma in quello della cultura. Non ha apportato, infatti, alcun progresso nella definizione delle aree di controllo o di interesse sullo scacchiere internazionale, ma è riuscita nel tempo a divenire la sede di trattative economiche interessanti.

Nuovi investimenti tedeschi a sostegno del piano “Go, Russia!”

Nel contesto del dialogo di Pietroburgo è stato firmato l’ultimo accordo di Ekaterinburg che porterà in Russia un investimento da parte della compagnia Siemens, pari a 2,2 miliardi di euro. La Germania rifornirà la Russia di oltre 200 treni regionali, creerà una joint-venture per la costruzione di turbine eoliche, contribuirà alla logistica dei prossimi giochi invernali a Sochi e parteciperà al nuovo progetto di una Silincon Valley a Skolkovo, vicino Mosca. Mentre gli investimenti russi saranno alquanto minimi e meno importanti: l’Aeroflot acquisterà una serie di aerei dall’Airbus e Gazprom entrerà nel campo dell’energia rinnovabile e del mondo automobilistico tedesco.

Il fatto che gli investimenti tedeschi in Russia raggiungono circa 20 miliardi di dollari ogni anno, non deve apparire una semplice voce tra le tante, che contribuiscono al profitto economico del paese. Basti pensare ai proventi che ottiene la Russia esportando il 33% del gas in Germania.

Quest’ultimo accordo risulta interessante per il settore a cui sono destinati i nuovi investimenti tedeschi. La compagnia Siemens, infatti, parteciperà nell’implementazione del progetto russo a favore della nascita di un centro di innovazione tecnologica. Scegliere di sostenere questo obiettivo piuttosto che un altro, significa appoggiare il nuovo piano di Medvedev dal titolo Russija, Vperёd! (Avanti, Russia!).

Medvedev si propone cinque priorità per avviare un processo di modernizzazione nel Paese. Vuole puntare sull’efficienza nella produzione, nel trasporto e nell’energia. Crede, in special modo che sia arrivato il momento di sostenere una crescita tecnologica di qualità collegata ad una serie di infrastrutture terrestri e spaziali destinate al trasferimento di tutti i livelli di informazione. A questi obiettivi si aggiunge la volontà di assumere un ruolo leader nella produzione di alcuni tipi di attrezzature mediche.

Angela Merkel diventa, così, un forte alleato del nuovo progetto di uscita dalla crisi economica di Medvedev e del raggiungimento di nuove strade di sviluppo economico, che vadano oltre l’esportazione di energia in Europa.

La Germania è cosciente, infatti, che sia preferibile stringere un’alleanza strategica con un forte e sicuro partner economico, piuttosto che uno debole. La crescita economica è consigliata come l’unica strada per assicurare la stabilità interna ed evitare il sorgere di caos sociali. Obiettivo che nella stessa esperienza tedesca ha permesso di superare i ritardi tra le diverse zone geografiche del Paese e diventare una grande potenza, pronta ad assumere il ruolo di guida dell’intera Unione Europea.

Il presidente russo così, è richiamato ad introdurre una serie di meccanismi di rinnovamento nel proprio sistema interno per assicurarsi una partnership economica nel tempo. Il primo obbligo è impegnarsi per un pieno rispetto dello stato di diritto e dei diritti umani, mentre il secondo è garantire un aumento della mobilità degli operatori in economici dall’Europa alla Russia e viceversa.

Un’economia forte senza democrazia ed apertura delle frontiere non è possibile.

La notizia di un’uccisione di un giornalista o attivista per i diritti umani in Russia rappresenta, ogni volta, motivo di sospetto verso le istituzioni statali.

I ritardi nella tutela dei diritti umani e delle libertà personali se non risolti in tempo breve, potrebbero incidere contro produttivamente sul progresso economico generale e sulla gestione delle relazioni diplomatiche.

Il presidente Dmitri Medvedev è cosciente del fatto che un semplice pregiudizio possa infangare tutti i suoi sforzi per assicurare un ruolo di potenza alla Russia, giacché potrebbe chiudergli la strada all’appoggio internazionale.

Le ultime dichiarazioni di Medvedev alla stampa rispetto all’uccisione dell’attivista Natalia Esterimova, in occasione dell’anniversario della sua uccisione, rappresentano un impegno di trasparenza in materia di giustizia ed un reale richiamo alla magistratura affinché svolga pienamente il suo dovere senza alcuna intromissione o deviazione dall’alto.

Ad un’ampia mobilità presente nel territorio dell’Unione Europea, inoltre, si contrappone una chiusura delle vie di accesso in Russia soggetta a saldi vincoli burocratici discordanti con la velocità richiesta dagli scambi economici.

Per aprirsi ad una partnership europea, la Federazione Russa dovrebbe mettere in discussione, perciò, il proprio sistema di visti che limitano fortemente i contatti nel mondo degli affari.

Una maggiore flessibilità nella concessione dei visti è attesa dalla Germania, ma non è richiesta da tutti i paesi dell’Unione Europea.

I Paesi baltici, in particolare, dopo essere riusciti a svincolarsi dalla precedente storia sovietica, hanno paura di una nuova intromissione della Russia nei propri affari interni, giacchè sono i primi nell’UE a confinare con la Federazione Russa.

Conclusioni

La difesa dei diritti umani ed il problema dei visti costituiscono delle questioni importanti per la cancelliera Angela Merkel, tanto da far dipendere da queste molte delle scelte future rispetto alla conduzione delle relazioni con la Russia.

Nello stesso tempo, una gestione positiva delle relazioni internazionali per Medvedev è essenziale, giacchè da esse deriva la forza del Paese e della sua stessa posizione.

La Russia è cosciente che lo sviluppo è direttamente collegato alla presenza sui mercati esteri ed è pronta a fare dei sacrifici per conservare il proprio progetto di partnership con la Germania, ma senza rinuciare alla propria natura di democrazia sovrana

I passi lenti di Medvedev in materia di visti, prima di tutto, sono direttamente collegati alla volontà di non inimicarsi i paesi baltici. La Russia e la Germania sono, infatti, partner del progetto “Nord Stream” che prevede la fornitura diretta di gas al territorio tedesco ed al resto dell’Unione Europea, passando sotto il Mar Baltico e non attraverso l’Ucraina.

Il riconoscimento internazionale di Medvedev come leader, indipendentemente dall’esistenza del tandem governativo con Putin, è importante ma per essere accolto completamente, serve una piena conoscenza dello schema di “democrazia sovrana” esistente in Russia.

Lo sviluppo della Russia come potenza mondiale ed il risollevamento dopo l’era di Eltisin è direttamente collegato ad una centralizzazione del potere. Il sostegno estero è importante, ma il polmone vitale russo è nella legittimazione popolare di Edinaja Rossija ad ogni tornata elettoriale.

Le modalità per spingere avanti il Paese, fino a che sarà applicata l’idea progettuale di Surkov, sono affidate al partito, e Vladimir Putin come segretario di esso svolge un ruolo di programmazione e non di offuscamento dell’operato di Medvedev.

Qualsiasi aggiustamento o nuova scelta economica proveniente, ma non dettato dall’esterno, capace di apportare benefici aventi natura positiva per lo sviluppo democratico ed economico del Paese sono ben visti. Una cosa certa è che fino ad ora, l’unione del concetto di autocrazia a quello di democrazia sta garantendo almeno l’equilibrio interno e la capacità di resistere su uno scenario globale.

* Luciana Marielle Ranieri è dottoressa in Scienze Politiche (Università l’Orientale di Napoli)

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Il Giappone fra normalizzazione e richiesta di sovranità

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La scorsa settimana dopo aver appreso la notizia del ritorno in auge dell’ideologia dell’ombrello nucleare ho visto me stesso seduto nel mio studio in piena notte…Un vecchio immobile sotto il peso di un immenso sdegno” Kenzaburo Oe – scrittore Premio nobel nel 1994 – il 7 agosto 2010

L’occasione del 65° anniversario delle stragi di Hiroshima e Nagasaki ci offrono l’opportunità di concentrare l’attenzione sulle ultime configurazioni della politica giapponese. Alla presenza dell’ambasciatore Usa alle commemorazioni – la prima volta nella storia per un rappresentante statunitense – si sono accompagnate numerose polemiche, per esempio ad opera del presidente dell’associazione dei sopravvissuti Kazushi Kaneko, in quale ha accusato l’ambasciatore John Ross di non aver accennato a scuse per quel “gigantesco errore umanitario” e di non aver “nemmeno deposto un omaggio floreale”.

Evidentemente tali dichiarazioni si pongono sulla scia degli sviluppi recenti del dibattito sui rapporti Usa-Giappone. Come si può ricordare l’elezione del premier Yukio Hatoyama fu accompagnata dalla volontà dell’esecutivo di ripensare la decennale sudditanza militare e politica nei confronti di Washington; dalla commissione d’inchiesta sui trattati segreti, alle polemiche sul peso economico per i giapponesi delle istallazioni militari Usa, fino alle proteste – appoggiate da gran parte delle istituzioni – per il riposizionamento della base di Okinawa fu un crescendo di rivendicazioni di sovranità.

Tutto questo portò però alle dimissioni dello stesso Hatoyama (impossibilitato a raggiungere i propri obiettivi) ed alla “normalizzazione” del governo con la nomina a premier di Naoto Kan. Quest’ultimo, ai primi di agosto, ha avuto modo di richiamare l’importanza per il Giappone di continuare a posizionarsi sotto l’ombrello (nucleare) Usa in modo da intergare le “forze di autodifesa” in una sorta di nato estesa fino al Pacifico(1); ciò comporterebbe fra l’altro l’autorizzazione formale nei confronti degli Stati Uniti a immagazzinare le atomiche in Giappone: in realtà è una certezza che dal 1945 gli Usa controllino atomiche presenti nell’arcipelago nipponico, ma illegalmente, o meglio, secondo il dettato dei trattati segreti dovuti firmare da Tokio dopo la sconfitta nella seconda guerra mondiale.

Quindi la parabola della ricerca di sovranità sembra in fase discendente, gli Stati Uniti infatti non possono permettersi di perdere (o di veder messo in discussione)  l’utilizzo del Giappone e in particolare dell’isola di Okinawa  fondamentali per il controllo del Pacifico. (2)

Però se i ripensamenti del rapporto privilegiato con Washington sono stati possibili a causa di un crescente multipolarismo che porta i “Paesi emergenti” a cercare maggiore libertà di manovra, ciò significa che non sarà facile per il governo Usa troncarli, anche perché mentre il governo giapponese per ora sembra essere stato “normalizzato”, varie istituzioni locali e l’opinione pubblica continuano a chiedere la fine di un rapporto evidentemente sbilanciato in favore degli Stati Uniti. Lo confermano le numerose presenze – anche da parte dei vari partiti – alle manifestazioni di Okinawa (3) e per esempio le parole dello stesso sindaco di Hiroshima Tadatoshi Akiba che invita l’esecutivo ad “abbandonare l’ombrello atomico Usa e guidare il movimento internazionale per il disarmo”. In realtà la seconda parte di questa dichiarazione ha più un sapore populista e paga dazio ai decenni di programmi culturali decisi oltre-oceano essendo proprio l’amministrazione Usa a propagandare il disarmo atomico ( lo stesso ambasciatore Ross ha auspicato “un mondo senza armi nucleari”), ma allo stesso tempo aumentando il bilancio militare per acquisire un vantaggio ancora maggiore sulle armi convenzionali, le uniche oggi utilizzabili nei vari scenari di guerra creati proprio dagli Usa. In realtà le armi atomiche a parte il loro funesto utilizzo da parte degli Stati Uniti, hanno avuto una funzione di deterrenza ed equilibrio, ma nel caso giapponese – essendo tali armi controllate da Washington – sanciscono la sovranità limitata e la dipendenza di Tokyo.

In definitiva continua in tutta evidenza lo sforzo nord-americano al mantenimento del Giappone in un ruolo subordinato evidenziato dal cambio di premier e rinforzato dallo spauracchio rappresentato da Cina e Corea del Nord; l’obiettivo – legittimare e legalizzare ed assicurare una situazione di dipendenza di fatto esistente da 65 anni – continuerà però ad incontrare sulla propria strada gli ostacoli rappresentati dagli sconvolgimenti geopolitica in atto, attraverso la definizione di nuovi equilibri tendenti ad un multipolarismo, che porteranno naturalmente i dirigenti scrupolosi e l’opinione pubblica giapponesi a ripensare le situazioni ormai non convenienti e anti-storiche.

Note:

1) Kan vuole riarmare il Giappone a fianco degli Stati Uniti http://www.eurasia-rivista.org/5401/kan-vuole-riarmare-il-giappone-a-fianco-degli-stati-uniti

2) Okinawa: la “chiave di volta” del Pacifico http://www.eurasia-rivista.org/4756/okinawa-la-chiave-di-volta-del-pacifico (da qui è possibile ricostruire seguendo i links la situazione da settembre 2009 ad oggi)

3) Okinawa in piazza contro la base USA http://www.eurasia-rivista.org/3960/okinawa-in-piazza-contro-la-base-usa

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Sudamerica: il problema dell’acqua dolce

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Nel sistema mondiale possiamo distinguere almeno sei regioni che acquistano una grande importanza geopolitica per la presenza di alcune risorse strategiche tra le più ambite dalle potenze. Queste sono: l’Artico, l’Antartide, il Sudamerica, l’Europa con il Mare del Nord, l’Asia Centrale con il Golfo Persico e il Mar Caspio, e il Mare della Cina Meridionale.

Attualmente, il Mare del Nord non è uno scenario conflittuale, anche se potrà diventarlo in futuro, così come l’Artico. In quest’ultimo, sebbene si creda, a ragione, che nei suoi fondali marini si trovino grandi riserve di petrolio e gas naturali, gli studi sono ancora all’inizio e le profondità troppo grandi per sfruttare in vaste quantità le risorse lì presenti.

Ad ogni modo, non si può negare che al momento questa regione stia acquisendo un’importanza sempre maggiore per le potenze, dovuta al disgelo e alla possibilità, con questo fenomeno causato dal surriscaldamento globale, non solo di sfruttare le risorse dei fondali su vasta scala nel futuro, ma anche di aprire nuove rotte commerciali marittime. Le potenze del Nord, come il Canada, gli Stati Uniti, la Norvegia, la Russia, etc., stanno già facendo dei progetti su quest’area geostrategica. Tale è l’atto simbolico della Russia di piantare la sua bandiera nel letto marino dell’Artico, dimostrando così i suoi interessi con un vero atto di sovranità che provocò non poca agitazione nei circoli nordamericani. 1

Per quanto riguarda l’Antartide, in questa regione si trovano grandi risorse fossili, ma il Trattato Antartico ne proibisce lo sfruttamento e dichiara il continente bianco patrimonio dell’umanità. Questo territorio fu, e continua ad essere, oggetto di dispute e di reclami di sovranità, mettendo in risalto i contrasti tra Argentina, Cile e Regno Unito. Al riguardo, bisogna considerare che è una delle principali ragioni per la quale le isole Malvinas ricoprano una tale importanza geostrategica, non solo per la presenza di (rilevanti) quantità di combustibile, ma anche per l’utilizzo delle stesse come proiezione verso l’Antartide e il controllo dell’Atlantico del Sud (che relazione ci sarà stata con la decisione presa nel 1982 di recuperare le isole Malvinas?).

Nel Mare del Nord, benchè sia una regione ricca di risorse energetiche, non si riscontra una sovranità già stabilita, per la quale non ci sono dispute nè rischi di conflitti improvvisi, come invece accadono in altre zone, quali il Medio Oriente o l’ Asia Sud Orientale.

Sudamerica

Attualmente la nostra regione rappresenta senza dubbio un importante scenario geostrategico e continuerà ad acquisire maggior rilevanza in futuro, principalmente nel corso di questo secolo, grazie alla qualità delle risorse e al decollo del Brasile come potenza regionale (e mondiale verso la metà di XXI secolo) essendo uno dei componenti del BRIC (Brasile, India, Russia e Cina).

L’ America del Sud ha una popolazione pari a più di 360 milioni di persone, un PIL di 970.000 milioni di dollari, una delle principali riserve d’acqua dolce e biodiversità del pianeta, e una produzione di alimenti ed energia veramente considerevole, il chè non solo ci farebbe diventare un gran mercato ma anche la quinta potenza mondiale, sempre che le politiche applicate non producano ciò che gli economiste chiamano il “male olandese” o la “maledizione delle risorse”. 2

Per quanto riguarda le sue caratteristiche geografiche, conosciamo l’importanza che hanno molte delle risorse presenti nella regione, come il petrolio, il gas e l’acqua dolce. Per quest’ultima è necessario sottolineare che è, tanto quanto le prime due, non rinnovabile e in via di esaurimento a livello mondiale. D’altra parte molti Paesi non si sono resi conto di questo problema, nonostante sia probabile, per non dire certo, che il possesso dell’ “oro azzurro” sarà causa di molti conflitti.

Il Sudamerica dispone nel suo territorio della terza falda acquifera più grande del mondo, quella di Guaranì, divisa tra Brasile, Argentina e Uruguay. Molti scienziati non sono sicuri della sua vera dimensione, però ci sono delle ipotesi che fanno pensare che finisca addirittura in Patagonia.

Non sono da meno le nuove dottrine militari adottate dai Paesi del cono del Sud , basate sulla difesa delle risorse contro uno Stato invasore avente maggiori capacità.

Mentre l’85% dell’ acqua dolce è consumata dall’ 11% della popolazione, l’America del Sud, con il 6% della popolazione possiede approssimativamente il 26% del totale delle risorse idriche mondiali.

Il rapporto tra gli altri continenti è il seguente:

  1. America del Nord e Centrale: 8% della popolazione, ha il 15% dell’acqua;
  2. Asia: 6% della popolazione, ha il 36% dell’acqua;
  3. Europa: 13% della popolazione, ha l’8% dell’acqua;
  4. Africa: 13% della popolazione, ha l’ 11% dell’acqua.

Secondo queste stime, il continente asiatico è quello che ha una minore proporzione tra densità demografica e risorse di acqua disponibili. Nondimeno, la situazione dei Paesi sviluppati non è migliore, perchè solo 5 dei 55 fiumi europei non sono contaminati.

Da parte loro, gli Stati Uniti “sopportano la virtuale disperazione di vedere che le loro risorse finiscono, e vedono davanti a loro un orizzonte sterile e secco”. Secondo la ricercatrice argentina Elsa Bruzzone , “il 40% dei fiumi e dei laghi degli Stati Uniti sono contaminati, portata paragonabile all’acquifero di Ogallala, che si estende lungo 8 Stati, dal Dakota del Sud fino al Texas e che in alcune zone ha visto diminuire la sua capacità fino a 30 metri”(citato da EISSA, 2005).

Già nel 1996, la Strategia di Sicurezza degli Stati Uniti riconobbe, tra i rischi non militari, l’esistenza di un emergente problema di risorse naturali e affari ambientali transnazionali, e dichiarò la necessità di dedicarsi ai problemi ambientali interni e internazionali. Per questo, l’allora Presidente, Bill Clinton, creò degli uffici il cui obiettivo era l’analisi della problematica ecologica e della protezione dell’ambiente nel Dipartimento di Stato e nel Consiglio di Sicurezza Nazionale .

In questo sfondo, nell’aprile del 1998, il Generale nordamericano Patrick Hughes, il capo dell’organo centrale delle informazioni delle Forze Armate, avrebbe dichiarato, durante una conferenza tenutasi nell’Istituto Tecnologico del Massachussets (ITM) riguardo le possibili minacce per gli Stati Uniti fino al 2018, che le Forze Armate di questo Paese intervengano in Brasile nel caso questo faccia un uso improprio dell’acqua dell’Amazzonia mettendo in pericolo l’ambiente (EISSA, 2005).

Nel 2000, nel Documento Santa Fe IV del Partito Repubblicano si stabiliva che uno dei princìpi geostrategici era garantire che i Paesi dell’emisfero non fossero ostili alle preoccupazioni di sicurezza nazionale degli USA. Inoltre, in un altro punto, (dichiarava) che gli Stati Uniti avrebbero dovuto assicurarsi che le risorse mondiali fossero disponibili per rispondere alle sue priorità nazionali.

L’America del Sud raffrontata agli altri continenti, sembra essere la regione con la maggior quantità d’acqua nel mondo e con la minore popolazione; da ciò si può dedurre che l’America Latina potrebbe essere un terriorio a rischio di conflitti mondiali.

Il subcontinente è la prima riserva bioetica terrestre del pianeta e la seconda marina, che immagazina fino al 26% dell’acqua potabile del mondo e conserva nel sottosuolo grandi quantità di petrolio e gas.

La falda acquifera Guaranì, considerata il terzo serbatoio più importante del mondo, ha una superficie di circa 1.194.000 km cubici che si estendono lungo i territori di Argentina, Brasile, Uruguay e Paraguay. Nel nostro Paese comprende le provincie di Misiones, Formosa, Chaco, Santa Fe, Corrientes e Entre Rìos. Stimando che contenga 55.000 km cubici di acqua potabile, essendo la sua portata tra i 160 e i 250 km cubici, vi sono ricercatori che ritengono persino che arriverà fino alla Patagonia. Al nord si collega con l’ Amazzonia e le paludi; a ovest con la Conca del Bermejo e, ancora oltre, con la laguna del Mar Chiquita, nella provincia di Cordoba; mentre, procedendo verso sud, si suppone che si unisca ai laghi della Cordigliera.

Oltre al sistema acquifero Guaranì, abbiamo un’altra fra le maggiori riserve di acqua potabile: i Campi di ghiaccio della Patagonia meridionale, (volgarmente conosciuti come ghiacciai continentali). Questi sono una riserva naturale di acqua dolce: ogni 100 metri di spessore ci sono 97.000 milioni di metri cubici di acqua, che riuscirebbero a:

a)sostentare la popolazione argentina per 15 anni;

b)approvvigionare l’area metropolitana di Buenos Aires per 71 anni;

c)irrigare 8 milioni di ettari per un anno (superficie equivalente alla provincia di Entre Rìos);

d)supportare le coltivazioni di erba medica per alimentare 32 milioni di bovini o 160 milioni di ovini, per un anno.

Questa situazione, acquisisce maggior rilevanza se la si considera come un’area geostrategica in relazione all’Amazzonia. Vale a dire che il disavanzo mondiale di acqua potabile e le grandi riserve idriche che possiede non solo l’Argentina ma anche il MERCOSUR (se consideriamo la conca amazzonica), nell’ambito di una nuova concezione della sicurezza, il nostro Paese in particolare e tutta la regione in generale, potrebbero trovarsi nella condizione di affrontare una situazione di conflitto nella quale dovranno difendere i loro diritti su queste risorse naturali contro un attore straniero.

L’origine di questa minaccia potrebbe provenire non solo da Paesi che soffrono di scarsità idrica, ma anche da un terzo attore extra- regionale che intervenga direttamente o indirettamente per sfruttare queste ricchezze naturali.

Nel novembre del 2004 durante il Seminario “La riserva acquifera Guaranì”, organizzato dal Consiglio Argentino per le Relazioni Internazionali (CARI), lo specialista in scienze ambientali Eduardo Pigretti, affermò: “Ciò che mi preoccupa è che l’acqua del Sistema Acquifero Guaranì possa essere commerciata. E non è chiaro sotto quali regole giuridiche, politiche e sociali. In quest’inizio di secolo tutti i beni, tutte le risorse naturali stanno perdendo la loro condizione superiore di non essere considerati normali merci. Gli organismi internazionali, come la Banca Mondiale, cercano di creare nella regione del Guaranì una nuova area industriale e competitiva a livello mondiale,senza prestare il minimo riguardo per la conservazione della falda acquifera nè per i reali interessi degli abitanti della regione. Il suo unico obiettivo è lo sviluppo industriale, proprio ciò che aumenta i rischi di qualunque processo di privatizzazione”.

Bisogna ricordare che la zona più importante per il carico e lo scarico del Sistema Acquifero Guaranì è la Tripla Frontera, dove confluiscono la maggior parte dei fiumi più abbondanti della Conca del Plata.

Molti sono gli autori, come ad esempio Andrès Repetto, con la sua opera “L’ultima crociata”, che affermano che le guerre del XXI secolo saranno combattute per “l’oro azzurro”. Per questo motivo, non possiamo dimenticare che il Sudamerica dispone di circa il 20% dell’ acqua dolce del pianeta ( senza considerare l’ Antartide ovviamente) e questo ci trasformerà in un territorio che sarà oggetto di disputa per le grandi potenze. In questo modo, non possiamo negare l’importanza dell’unione e dell’armonizzazione delle politiche, siano esse di difesa, economiche, sociali, etc., dei Pesi di questa regione, e di raggiungere un’intesa comune sui problemi che affliggono la nostra regione. L’ascesa del Brasile è cruciale per l’integrazione latinoamericana. In questa nuova situazione internazionale, è logico considerare il gigante latinoamericano come un attore regionale chiave e, potenzialemente, un attore globale prominente, se non lo è già. L’ economia brasiliana (il cui potenziale industriale e tecnologico spicca nella metallurgia, nella biotecnologia e nell’industria aeronautica, nei quali ha raggiunto i più alti standard internazionali di qualità) può costituire la base dell’integrazione regionale.

Prima di arrivare a questo, è necessario che il MERCOSUR migliori la sua attuale situazione politica e continui nel suo rafforzamento, rendendo possibile ai Paesi membri di poter pensare a questi temi in termini regionali e stringere alleanze strategiche.

(Traduzione di Sabrina Cuccureddu)

* Matias Magnasco è docente del Master in Relazioni internazionali dell’Università Internazionale Tres Fronteras, direttore dell’Osservatorio Guyana e Suriname del Centro Argentino di Studi Internazionali, membro del Centro Aeronautico di Studi Strategici della Forza Aerea argentina.

1. Consideriamo la rinascita della Russia nello scenario internazionale e la nuova dottrina della sua armata, basata sulla contesa di tutti i mari del mondo con Stati Uniti e Gran Bretagna, comprendendo l’Artico e l’Antartico. Da questo possiamo capire l’importanza del decollo russo nell’arena internazionale.

2. Ossia: il possesso di abbondanti materie prime produce l’arrivo di cospicui investimenti e monete; il chè causa un apprezzamento della moneta nazionale e quindi, una caduta della competitività dell’industria nazionale tanto nel mercato interno quanto in quello nazionale.

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Seyyed Nasrallah: Israele dietro l’assassinio di Hariri

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Traduzione a cura dell’Associazione Islamica Imam Mahdi (www.islamshia.org)

Il Segretario Generale di Hezbollah, Seyyed Hassan Nasrallah, ha accusato il nemico israeliano di essere implicato nell’assassinio dell’ex primo ministro Rafiq Hariri, presentando prove ed evidenze tangibili di un potenziale ruolo israeliano in questo crimine ed in altri che colpirono il Libano negli anni passati.

Seyyed Nasrallah ha svelato alcune immagini intercettate di apparecchi di spionaggio israeliani del luogo dove avvenne l’assassinio del primo ministro libanese, Rafiq Hariri, poco prima dell’omicidio. Diversi video, ognuno dei quali della durata di vari minuti, hanno mostrato immagini aeree della costa occidentale di Beirut vari giorni prima dell’assassinio di Hariri.

Il Segretario Generale di Hezbollah ha parlato nel corso di una conferenza stampa eccezionale tenuta nel “Complesso dei Martiri” del quartiere sud di Beirut lunedi 9 agosto. La conferenza, alla quale hanno partecipato giornalisti e direttori dei principali media, aveva come obiettivo quello di segnare un punto di cambiamento nel caso dell’assassinio di Hariri e aprire nuove prospettive che il Tribunale puo’ raccogliere e sviluppare “se vuole essere imparziale“.

AGENTE ISRAELIANO CERCO’ DI INGANNARE HARIRI

Seyyed Nasrallah ha iniziato il suo discorso ricordando che il nemico israeliano aveva cospirato per uccidere l’ex primo ministro Rafiq Hariri dal 1993 e per far credere che fosse Hezbollah a volerlo assassinare. “Nel 1993 Hezbollah stava organizzando una protesta nel sobborgo meridionale di Beirut contro la firma dell’Accordo di Oslo, nella quale ebbero luogo dei disordini. A quel tempo le tensioni tra Rafiq Hariri e Hezbollah aumentarono. Un agente israeliano disse all’epoca a Hariri che Hezbollah voleva assassinarlo e menziono’ il nome di Imad Mugniyeh.

Seyyed Nasrallah si riferiva alla spia israeliana Ahmad Nasrallah, che fu arrestata e interrogata dalla Resistenza nel 1996. “Dopo aver interrogato Ahmad Nasrallah e aver confessato di aver fotografato le case dei dirigenti di Hezbollah, egli ammise anche di aver ingannato Hariri. Egli disse che aveva tentato di determinare il percorso del convoglio del primo ministro facendogli credere che Hezbollah volesse assassinarlo“, ha detto Sua Eccellenza.

Il Segretario Generale di Hezbollah ha continuato rivelando che la spia Ahmad Nasrallah aveva ingannato il primo facendogli credere che Hezbollah aveva un piano per assassinare sua sorella, la deputata Bahia Hariri, con fine di obbligarlo a partecipare al suo funerale a Sidone e ucciderlo li’.

Noi consegnammo un membro di Hezbollah, Abu Hassan Salameh, ai siriani a causa di una falsa dichiarazione di Ahmad Nasrallah secondo la quale Salameh aveva complottato per uccidere Hariri, ma piu’ tardi verificammo che Salameh era innocente“, ha detto Seyyed Nasrallah.

Per documentare le parole di Seyyed Nasrallah e’ stato trasmesso un primo video che mostrava la stessa spia israeliana Ahmad Nasrallah fare queste rivelazioni. Nel video la spia confessava che quanto aveva detto ad Hariri, ovvero che Hezbollah volesse ucciderlo, era una menzogna. Egli ammetteva inoltre di lavorare per Israele e diceva che i suoi contatti israeliani gli avevano chiesto di avvertire gli uomini di Hariri di un “complotto per il suo assassinio.”


ISRAELE AVEVA LA CAPACITA’ DI REALIZZARE L’ASSASSINIO DI HARIRI

Il Segretario Generale di Hezbollah ha poi dato vita alla seconda parte della conferenza stampa, la parte nella quale ha accusato il nemico israeliano di essere dietro l’assassinio di Hariri.

Dopo aver mostrato un altro video di accuse israeliane contro Hezbollah di essere implicato nell’assassinio di Hariri, Seyyed Nasrallah ha affermato che Israele possiede la capacita’ di portare a termine un’operazione come quella diretta contro l’ex primo ministro il 14 Febbraio del 2005.

Israele possiede la capacita’ di realizzare questo tipo di operazioni, incluso l’assassinio di Hariri e di altri che hanno colpito il Libano negli anni passati“, ha dichiarato Seyyed Nasrallah, ricordando che la storia di Israele e’ piena di operazioni di assassinio contro leader e figure di alto rango.

Dopo aver ricordato come sia risaputo che Israele possieda molte spie in Libano, Seyyed Nasrallah ha detto che Israele aveva anche la motivazione, in quanto la Resistenza Islamica e’ il maggior nemico di Israele. “Israele ha animosita’ contro la Siria, cosi’ non poteva perdere un’opportunita’ di creare conflitti e utilizzare la morte di Hariri per cacciare la Siria dal Libano e isolare la Resistenza.”

In questo contesto, Seyyed Nasrallah ha citato il presidente siriano Bashar al-Assad, che gli disse personalmente che un capo arabo lo informo’ nel 2004, prima dell’approvazione della Risoluzione 1559, che gli Stati Uniti non avevano problemi che la Siria mantenesse forze in Libano, ma a condizione che disarmasse Hezbollah e le fazioni palestinesi in Libano. Assad rispose che Hezbollah costituiva parte della sicurezza nazionale del Libano e quindi rifiuto’ di accettare la richiesta statunitense. Si pose allora in marcia il progetto per estromettere la Siria dal Libano ed isolare Hezbollah.

Riferendosi ai metodi operativi di Israele, il Segretario Generale di Hezbollah ha dichiarato che il nemico sionista ha collocato strumenti di ascolto nelle reti telefoniche e mantiene apparati di spionaggio nelle zone aeree e sul terreno, oltre a contare sull’appoggio logistico per realizzare operazioni di assassinio all’interno del Libano.



ISRAELE INTERESSATO A REALIZZARE OPERAZIONI VICINO LA COSTA

Nella terza parte, il Segretario Generale di Hezbollah, Seyyed Nasrallah, ha parlato delle rivelazioni fatte dalle spie israeliane arrestate tra il 2009 e il 2010, in risposta ad una domanda sulle operazioni di intelligence israeliane condotte in Libano dopo il 2004.

Philippos Hanna Sadir e’ stata la prima spia ad essere menzionata durante la conferenza stampa. Egli ha iniziato a spiare per il nemico israeliano nel 2006 e fu arrestato nel 2010 dalle autorita’ libanesi. La sua missione era quella di raccogliere informazioni sull’abitazione del presidente Michel Suleiman e sulla sua distanza dalla costa, e sullo yacht del capo dell’Esercito Jean Qahwaji. “Israele e’ interessato a condurre le proprie operazioni vicino la costa“, ha detto Seyyed Nasrallah commentando i dati. “Una spia ispeziona un luogo solo per raccogliere informazioni o anche per programmare una certa operazione?”, si e’ chiesto Seyyed Nasrallah.

La seconda spia alla quale si e’ fatto riferimento nella conferenza stampa e’ Said Tanios Alam. Arrestato nel 2009, ha confessato di aver raccolto informazioni sul capo delle Forze Libanesi, Samir Geagea, e sul primo ministro, Saad Hariri. Egli inizio’ a spiare per il nemico israeliano nel 1990. Gli venne chiesto di controllare Geagea e quando Hariri lo andava a visitare, secondo le investigazioni condotte dalle autorita’ libanesi e non da Hezbollah. “Perche’ Israele vuole controllare Saad Hariri e Samir Geagea, che sono le guide della coalizione del 14 Marzo?”.

Questa e’ la risposta a coloro che chiedono perche’ furono i membri della coalizione del 14 Marzo ad essere assassinati. La risposta e’ semplice: Israele voleva far ricadere la colpa sulla Siria e Hezbollah“, ha detto il Segretario Generale di Hezbollah.

Altre spie menzionate durante la conferenza stampa sono state Nassir Nadir, Faisal Maqlad, Adib Alam e sua moglie Hayat. Nadir, che fu arrestato nel 2009, ha confessato la propria implicazione nell’omicidio di un responsabile di Hezbollah, Galib Awali, nel 2004. Maqlad confesso’ di aver ospitato militari israeliani in Libano e di aver trasportato armi. Ha confessato anche di aver spiato alcune regioni libanesi. Alam ha riconosciuto la propria implicazione, insieme a sua moglie, nella morte dei membri del Jihad Islamico Mahmud e Nidal al-Majzub nel 2006 a Saida.

Seyyed Nasrallah ha sottolineato come le confessioni realizzate dalle spie, sebbene costituiscano una dimostrazione, confermano che le operazioni dei servizi segreti israeliani in Libano non si fermarono agli anni passati. In questo senso egli ha chiesto che le confessioni delle spie siano raccolte e analizzate con il fine di tracciare un diagramma delle loro operazioni.

Quando Israele uccise Hariri ma non riusci’ a scatenare un conflitto civile, il nemico cerco’ di pianificare allora la morte del presidente sciita del Parlamento Nabih Berri per spingere il Libano verso uno scontro interno“, ha rivelato Seyyed Nasrallah.

DIMOSTRAZIONE DELLE PROVE: LE IMMAGINI INTERCETTATE AD UN VELIVOLO SPIA ISRAELIANO

Il segreto che voglio rivelare questa notte e’ che prima del 1997 Hezbollah fu capace di catturare un velivolo spia israeliano senza pilota che fotograva il sud del Libano e inviava le immagini ad un centro di operazioni israeliano“, ha continuato Seyyed Nasrallah.

La Resistenza riuscir’ a intercettare la trasmissione del velivolo e riuscimmo ad avere accesso alla stessa, riuscendo cosi’ a ricevere le immagini inviate dal velivolo nello stesso tempo del centro di operazioni del nemico“, ha spiegato il Segretario Generale di Hezbollah.

La ricezione delle immagini del velivolo israeliano senza pilota da parte del centro di operazioni della Resistenza permise a questa di respingere l’assalto anfibio nemico a Ansariyeh il 5 settembre del 1997“, ha rivelato il Segretario Generale prima di mostrare i dettagli dell’operazione di Ansariyeh e spiegare come questa tattica aiuto’ i combattenti della Resistenza a sventare il tentativo nemico.

IMMAGINI MOSTRANO CHE ISRAELE CONTROLLO’ ATTENTAMENTE I MOVIMENTI DI HARIRI

Il Segretario Generale di Hezbollah ha poi toccato la parte piu’ sensibile della conferenza stampa: le prove concrete che mostrano che il nemico israeliano controllo’ accuratamente i movimenti dell’ex primo ministro Rafiq Hariri e la loro collocazione.

A questo riguardo Seyyed Nasrallah ha mostrato le immagini intercettate di aerei spia israeliani nel luogo dell’assassinio del 2005 dell’ex primo ministro libanese poco prima che avesse luogo.

Gli aerei israeliani controllarono accuratamente i movimenti del convoglio di Hariri a Beirut e lungo la strada Farayya-Faqra“, ha affermato Seyyed Nasrallah. “Si tratto’ di una coincidenza?“, si e’ chiesto il responsabile di Hezbollah. “Questa copertura viene realizzata di regola generale come primo passo per l’esecuzione di una operazione.”

Altre immagini, ognuna delle quali della durata di vari minuti e che furono riprese vari giorni prima dell’assassinio, mostrano vedute aeree della costa occidentale di Beirut dove questo avvenne. “Esistono uffici di Hezbollah in queste aree che possono essere controllati da Israele? Perche’ Israele controllava queste zone?” si e’ chiesto nuovamente Seyyed Nasrallah.

HEZBOLLAH POSSIEDE INFORMAZIONI DEFINITIVE SUI MOVIMENTI AEREI ISRAELIANI IL 14 FEBBRAIO

Questo non e’ tutto: un’altra rivelazione e’ stata fatta da Seyyed Nasrallah: “Abbiamo informazioni definitive sui movimenti aerei del nemico israeliano il giorno in cui Hariri fu assassinato. Ore prima delle sua morte, un velivolo israeliano senza pilota sorvolava la costa Sidone-Beirut- Jounieh mentre aerei da guerra sorvolavano Beirut“.

Una registrazione video mostra a questo riguardo che gli aerei di riconoscimento israeliani sorvolarono Sidone il 13 Febbraio del 2005 mentre altri lo facevano su Beirut ore prima che Hariri venisse assassinato. Il 14 Febbraio del 2005 un aereo spia israeliano AWACS volo’ du Beirut insieme ad un altro velivolo spia.

Questo video puo’ essere acquisito da qualsiasi commissione di investigazione per accertarne l’autenticita’ . Siamo sicuri di questra prova, altrimenti non rischieremo nel mostrarla“, ha detto Seyyed Nasrallah che ha anche affermato che Hezbollah aspettera’ il momento appropriato per rivelare altre prove e segreti.


LA SPIA ISRAELIANA GHASSAN JEDD SI TROVAVA SULLA SCENA DEL CRIMINE

Abbiamo prove che Ghassan al-Jedd, una spia al servizio di Israele che ospito’ varie squadre operative israeliane, era presente sulla scena del crimine“, ha rivelato Seyyed Nasrallah. “Presentammo queste prove alle autorita’ libanesi, ma Jedd scappo’ dal Libano prima di essere catturato“.

Jedd nacque nel 1940 e divento’ una spia israeliana agli inizi degli anni novanta, prima di scappare dal Libano nel 2009. Egli ospito’ vari ufficiali israeliani in Libano. Nel marzo del 2004 ufficiali israeliani entrarono in Libano via mare e furono protetti da Jedd per 50 ore in una localita’ del Monte Libano.

IGNORARE LE PROVE DIMOSTREREBBE CHE IL TRIBUNALE E’ POLITICIZZATO

Alla domanda di quale sara’ la reazione di Hezbollah nel caso in cui il Tribunale Speciale per il Libano ignorasse le prove presentate, Seyyed Nasrallah che questo dimostrebbere la credenza del movimento di Resistenza che il Tribuale sia politicizzato.

Seyyed Nasrallah ha ripetuto che Hezbollah non confida nel tribunale internazionale. “Tuttavoa, se il governo libanese e’ disposto a formare una commissione libanese per investigare sul caso, coopereremo“, ha detto il Segretario Generale del movimento di Resistenza Islamica libanese. “Alcuni hanno speso 500 milioni di dollari in Libano per distorcere l’immagine di Hezbollah. E’ per questo che stiamo conducendo una battaglia per l’opinione pubblica, specialmente quando alcuni lavorano giorno e notte per difendere l’innocenza di Israele.”



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Da Santos a Uribe, cosa (non) cambia in Colombia

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La Colombia ha scelto la continuità. L’ultima tornata elettorale, le presidenziali 2010 svoltesi fra maggio e giugno per via del doppio turno, ha sancito la vittoria del candidato uribista del Partido Social de Unidad Nacional o Partido de «la U» (d’ora in poi indicato con l’acronimo PSUN), Juan Manuel Santos. Lo scorso sabato 7 agosto è stato il giorno dell’investitura ufficiale del nuovo presidente colombiano e del passaggio di consegne con Alvaro Uribe, suo mentore politico.

Santos sarà chiamato a governare uno stato che si dibatte nei problemi di sempre: criminalità e violenza in primis; senza dimenticare la corruzione e le diseguaglianze socio-economiche. Nonostante durante i due mandati presidenziali di Uribe (2002/2006 e 2006/2010), la Colombia abbia conosciuto un periodo di crescita economica e di relativo miglioramento delle condizioni inerenti la sicurezza, la situazione sul fronte del rispetto dei basilari diritti umani rimane critica. L’uso della violenza e dell’omicidio a scopi politici rimane una pratica frequente insieme all’alto numero di rapimenti e uccisioni di giornalisti, sindacalisti e membri di organizzazione che si battono per il rispetto della legalità e dei diritti civili o politici.

La questione di fondo che sottosta a tutti gli elementi di debolezza della realtà colombiana è comunque sempre rappresentata dalla produzione e commercio delle sostanze stupefacenti. La pervasiva presenza della criminalità organizzata (i cosiddetti carteles de la droga) ha rappresentato e continua indubbiamente a manifestarsi come un fattore di destabilizzazione altissimo, che per caratteristiche e dimensioni del fenomeno incide fortemente sulla vita politica ed economica del paese. Inoltre, la questione del narcotraffico si innesta ed alimenta a sua volta altri gravi problemi in cui si dibatte da decenni la Colombia: la corruzione dei politici e della classe dirigente in generale ma anche e soprattutto l’annoso confronto armato fra lo Stato e movimenti guerriglieri di sinistra (FARC, ELN, EPL); senza dimenticare la questione legata alle unità paramilitari di estrema destra (AUC). I vari aspetti sono così intrinsecamente interconnessi che si è arrivati a parlare di narcopolitica e narcoguerriglia.

I temi della sicurezza, della lotta alla criminalità organizzata e soprattutto alla guerriglia hanno rappresentato il nucleo centrale del programma elettorale di Santos, che da ministro della difesa si era contraddistinto per la sua risolutezza nella lotta contro le FARC. Adesso che è assurto alla guida del paese, il nuovo presidente ha richiamato più volte la necessità di creare un clima politico di unità nazionale per ridurre la violenza e gettare le basi per la costruzione di un paese migliore.

Indubbiamente i numeri con cui è stato eletto e i nuovi assetti partitici formatisi in seno alla Camera e al Senato dopo le elezioni legislative del marzo 2010, gli affidano un ampio appoggio politico oltre che un buon sostegno popolare. Ora bisognerà vedere se oltre ad una numericamente solida maggioranza di governo, esiste anche una reale volontà politica di procedere a quella trasformazione della società sbandierata in campagna elettorale.

I NUMERI DELLA VITTORIA

Secondo i dati ufficiali resi noti dalla Registraduria Nacional del Estado Civil de la Republica de Colombia(1) riguardanti il secondo turno delle elezioni presidenziali 2010 svoltesi in Colombia il 20 giugno scorso, Juan Manuel Santos Calderon, candidato del PSUN e vincitore delle elezioni, ha ricevuto 9.028.943 voti pari al 69,13% del totale dei voti validi. Considerando che gli elettori aventi diritto erano 29.997.574, significa che circa un colombiano su tre ha scelto di votare per Santos. Il suo sfidante al ballottaggio, Antanas Mockus del Partido Verde ha ottenuto 3.587.975 pari al 27,47%.

Questi dati testimoniano della grandezza del risultato ottenuto dal candidato uribista ma se guardiamo ad altre cifre il quadro appare meno roseo. Più di un colombiano su due non si è recato alle urne; disaffezione disillusione o paura hanno giocato un ruolo importante nel ridurre il numero degli elettori.

I risultati della partecipazione popolare alle elezioni presidenziali 2010 non sono esaltanti anche se leggermente in controtendenza rispetto ai dati relativi ai precedenti appuntamenti elettorali: durante il primo turno i votanti sono stati 14.781.020, pari al 49,27% del totale degli aventi diritto; la percentuale è scesa ancora al secondo turno attestandosi al 44,33% pari a 13.296.924 di voti. L’astensionismo caratterizzò in maniera maggiore le due precedenti tornate elettorali presidenziali del 2002 (votanti 11.249.734 pari al 46,47% del totale) e del 2006 (12.058.788 pari al 45,11%) che videro la vittoria di Alvaro Uribe; ma bisogna sottolineare che in quelle due occasioni Uribe fu eletto presidente della repubblica al primo turno.

Il NUOVO PARLAMENTO

Indubbiamente l’alto numero di voti ottenuti da Santos, mai nessun candidato presidenziale prima di lui ne aveva ricevuti tanti, rappresentano un ottimo biglietto da visita per un politico che oltre ad essere stato eletto presidente della repubblica di Colombia è chiamato anche a formare e guidare la compagine governativa; dato che secondo quanto detta la costituzione il capo di stato veste anche il duplice ruolo di capo del governo.

Gli assetti partitici frutto delle elezioni legislative svoltesi lo scorso marzo consentono al nuovo governo colombiano di godere di un’ampia maggioranza parlamentare. Gli esiti di quella tornata elettorale hanno sancito un avanzamento dei conservatori, che avevano già appoggiato Uribe precedentemente e che nel corso delle ultime settimane hanno apertamente dichiarato di voler sostenere il nuovo presidente e il suo governo; rispondendo positivamente alla chiamata di Santos all’unità nazionale.

L’alleanza parlamentare che appoggia il governo e la presidenza Santos è formata da: il Partido de la U dalle cui fila proviene lo stesso presidente della repubblica, che è risultato essere il primo partito sia alla camera sia al senato; il Partido Conservador, seconda forza politica del paese; e il Partido Cambio Radical. I rappresentanti parlamentari di questa forza tripartita garantiscono a Santos e il suo governo la maggioranza assoluta: alla camera 100 su 165 congressisti; al senato 58 su 100.

Completano il quadro relativo alla maggioranza alcune forze minori ma in ascesa, come per esempio il controverso Partido de Integración Nacional (PIN).

La compagine governativa presentata da Santos ha un profilo tecnocratico; un governo tecnico in cui spicca la folta presenza di uomini e donne provenienti dal mondo degli affari e da quello accademico e con alle spalle quindi un curriculum che non li vede vincolati ad alcun partito politico. Solo due ministri, quello degli interni e quello della difesa, possono vantare una militanza di lungo corso all’interno di formazioni politiche.

Questo aspetto ha probabilmente influenzato la decisione del Partido Liberal, altra grande storica forza politica colombiana di ispirazione socialdemocratica e quindi ideologicamente distante dalle posizioni del presidente neoeletto, di dichiarare la propria disponibilità a dialogare ed eventualmente appoggiare il nuovo governo in carica.

Gli unici due partiti che possono considerarsi all’opposizione e che però hanno riscosso consensi inferiori all’8% durante le legislative di marzo, sono il Polo Democrático Alternativo, di matrice socialista ma in cui si alberga anche una componente comunista, e il Partido Verde, un partito ambientalista di centro e dalle cui fila proveniva lo sfidante di Santos al ballottaggio, Antanas Mockus.

Mockus e il suo partito hanno rappresentato la vera novità nello scenario politico colombiano del 2010. Espressione di una nuova forza politica che ha visto i natali solo nell’ottobre del 2009, l’ ex sindaco di Bogotà si è comunque fin da subito scrollato di dosso l’etichetta di outsider e ha raccolto al ballottaggio quasi 3,6 milioni di preferenze.

Da sottolineare che durante la campagna elettorale e fino a pochi giorni prima delle elezioni molte società colombiane specializzate in inchieste e analisi elettorali prevedevano un empate tecnico fra Santos e Mockus; attestati entrambi intorno al 35% delle preferenze secondo la maggior parte dei sondaggi.

Le previsioni ottimistiche per il candidato verde sono state poi totalmente smentite già dal risultato del primo turno che seppur non ha conferito la vittoria a Santos nell’immediato, gli ha comunque concesso una dote di voti tale da poter affrontare tranquillamente la seconda tornata e ha lasciato chiaro che la corsa alla presidenza non era mai stata in discussione, a dispetto dei sondaggi.

CONCLUSIONI. CAMBIO DELLA GUARDIA AL PALACIO DE NARIÑO?

Sabato 7 agosto, Bogotà ha ospitato la cerimonia ufficiale di investitura del nuovo presidente della repubblica Juan Manuel Santos. La giornata del neoeletto capo di stato colombiano era cominciata molto presto e si era aperta con una liturgia indigenista. Infatti durante le prime ore della mattinata Santos aveva presenziato ad una cerimonia indigena con i leader spirituali dei quattro gruppi etnici che vivono nella Sierra Nevada de Santa Marta nel nord del paese. L’incontro ha rappresentato un’investitura simbolica, durante la quale gli è stato consegnato un baston de mando.

Questo atto ufficioso ha preceduto di poche ore il vero passaggio di consegne fra il nuovo presidente eletto della Colombia e quello uscente, Uribe. In realtà, di effettivo cambiamento non si potrebbe parlare, considerando che l’elezione di Santos non lascia presagire alcun cambio di rotta rispetto al passato uribista. Anzi vista la vicinanza ideologica fra i due leader e il ruolo preminente che l’ex presidente gioca nello scacchiere istituzionale colombiano, molti sono portati a considerare la presidenza Santos come una naturale prosecuzione del mandato presidenziale di Uribe.

Però le prime parole pronunciate da Santos come nuovo presidente il 7 agosto, soprattutto in merito alle questioni di politiche estera, hanno in parte smentito questi timori.

Ad assistere alla cerimonia di investitura a Bogotà c’erano numerosi capi di stato sudamericani, fra le cui fila spiccavano le assenze dei rappresentanti della cosiddetta ala izquierdista latinoamericana: Ortega, Morales e soprattutto Chavez. Proprio ai rapporti con gli altri paesi del continente e soprattutto con il Venezuela, Santos ha riservato un passaggio molto importante del suo discorso di investitura. In merito alla recente crisi e ai venti di guerra che hanno agitato il confine fra Colombia e Venezuela, il neopresidente colombiano ha pronunciato parole di distensione e ha manifestato la volontà politica di voler procedere alla instaurazione di un dialogo col proprio vicino occidentale su nuove basi.

Le parole di Santos sono state accolte con favore da Chavez che ha manifestato la stessa volontà di ricorrere alla diplomazia più che all’uso della forza nei rapporti bilaterali. Il tentativo di disgelo e riavvicinamento fra i due stati latinoamericani rappresenta un punto di discontinuità rispetto alla rotta che aveva impresso al paese Uribe.

Bisognerà comunque aspettare e verificare sul campo quanto effettivamente alle semplici dichiarazioni seguiranno i fatti. Considerando che durante l’ultima fase della seconda presidenza Uribe (2006-2010) Santos in qualità di ministro della difesa ha rappresentato l’ala oltranzista del governo nella lotta alla guerriglia e come tale ha contribuito non poco a far salire la tensione al confine col Venezuela, e che inoltre la Colombia negli ultimi tempi ha rinsaldato i propri vincoli politico-diplomatici con Washington attraverso la concessione di nuove basi militari all’esercito statunitense (attualmente sono sette le basi USA in territorio colombiano: Tres Esquinas, Larandia, Aplay, Arauca, Tolemaida, Palanquero, Malambo); si può facilmente immaginare che il tentativo di pacificazione col Venezuela appare più arduo di quanto si creda.

* Vincenzo Quagliariello è dottore in Scienze internazionali e diplomatiche (Università L’Orientale di Napoli)

1 http://www.registraduria.gov.co/index.htm#

2 http://www.cne.gov.co/



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La cooperazione internazionale e la sicurezza energetica

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La stabilità delle relazioni e della cooperazione globale con i paesi esterni all’Unione europea è una delle priorità strategiche della politica estera russa. Tradizionalmente, la Russia si sviluppa e rafforza i legami economici, scientifici e culturali con i paesi del Sud Europa. Oggi è necessario cercare soluzioni comuni volte a superare la crisi finanziaria globale che minaccia il benessere di tutti i popoli del continente europeo. 
Secondo il FMI, nel 1980 il debito complessivo del Gruppo dei Sette era del 40% del loro PIL totale. In vent’anni, il debito è salito al 65% del PIL. Dal 2008, quando ha cominciato a mostrare segni di una crisi sistemica del sistema finanziario globale, il processo di aumento del debito pubblico è aumentato in modo significativo. Gli esperti stimano che quest’anno il debito raggiungerà il 100%, ed entro il 2014 raggiungerà il 110%. 
È chiaro il motivo principale: il segmento virtuale, speculativo del sistema finanziario globale ha raggiunto un livello  tale che è diventato possibile, in termini di valori immaginari, determinare la ridistribuzione di tutti i tipi di risorse mondiali. In questo caso l’economia nazionale è intrappolata in una pericolosa servitù per debiti, e su alcuni paesi dell’Europa meridionale incombe il grave pericolo del fallimento. 
Il metodo per uscire dalla crisi consiste nel limitare le possibilità di sostituzione dell’economia reale e le sue risorse finanziarie, fornire tutti i generi di sostituti, ricerca di possibilità di utilizzo razionale e vantaggioso di risorse naturali insostituibili, partecipazione a progetti internazionali che sono il miglior modo per impegnare il potenziale intellettuale, tecnologico e industriale della comunità internazionale. Tale approccio, che è la base per la creazione di relazioni economiche eque, auspica la nascita di un vero multipolarismo geopolitico. 
Il luogo e il ruolo della Russia nell’economia globale e la sua influenza sui processi politici del mondo sono in gran parte determinati dalla sua energia e materie prime. 
La Russia cerca di creare un sistema internazionale stabile di Paesi consumatori, di Paesi produttori e di Paesi in cui vige il transito delle risorse energetiche, il che esclude la possibilità di conflitti per le fonti ed il trasporto delle risorse energetiche e il superamento della “povertà energetica”. 
Lo sviluppo di partenariati tra tutti i soggetti interessati è l’unico modo possibile per rafforzare la sicurezza globale dell’energia nel contesto di una crescente interdipendenza tra Paesi produttori, Paesi che forniscono energia di transito e Paesi consumatori. 
Nel corso di questa interazione a lungo termine ci sono non solo problemi economici che devono essere risolti. C’è il bisogno di lavorare nel campo della tutela ambientale, ad alta tecnologia, per sviluppare la cooperazione nel settore coinvolgendo l’opinione pubblica mondiale con informazioni obiettive sui problemi della sicurezza energetica. 
Oggi i bisogni energetici di base per l’economia globale sono petrolio e gas naturale. L’economia mondiale assiste a una separazione netta tra popolazione e indicatori energetici-economici, da un lato, ed i livelli di sicurezza delle risorse, dall’altro. Dal momento che gli Stati Uniti consumano circa un quarto delle risorse energetiche del mondo, con solo il 3-4% di riserve provate di petrolio e gas naturale e l’Europa occidentale detiene il 20% del consumo mondiale di energia ed ha solo il 4-7% di riserve di petrolio e gas. Tra gli Stati altamente industrializzati il Giappone è praticamente senza risorse energetiche indigene. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), il fabbisogno d’energia nel mondo entro il 2030 crescerà del 50-60%. Secondo l’AIE, nel 2020, gas e petrolio costituiranno i combustibili più importanti per i Paesi industrializzati. 
Nonostante gli sforzi per sviluppare e applicare tecnologie di risparmio energetico e nell’utilizzo di fonti alternative di energia, i combustibili idrocarburi nel prossimo futuro costituiranno ancora la base del bilancio energetico. La concorrenza per l’accesso alle riserve di energia primaria ed il loro controllo aumenterà ulteriormente. Non ridurranno il loro fabbisogno energetico gli Stati Uniti e i Paesi europei ed è in costante aumento il consumo di energia dei Paesi in pieno sviluppo dinamico economico come Cina e India. Crisi politiche e conflitti armati in varie parti del globo sono spesso le manifestazioni visibili della lotta palese e occulta per il controllo delle fonti di materie prime. 
La Russia si esprime sempre per una soluzione pacifica e per il dialogo energetico aperto e onesto con i suoi partner e, soprattutto, con i Paesi europei. 
La Russia ha riserve significative di risorse naturali, comprese quelle energetiche. Un Paese con meno del 3% della popolazione mondiale, detiene circa il 13% delle riserve accertate di petrolio del mondo, il 34% delle riserve di gas naturale, circa il 20% delle riserve accertate di carbone e il 32% delle riserve di carbone marrone e il 14% delle riserve di uranio. 
Con la sua politica energetica costante e stabile la Russia confuta i miti della “espansione energetica” e del “ricatto energetico”. Ma, naturalmente, il Paese ha una propria idea di sicurezza energetica, la propria strategia energetica. 
Una delle priorità principali della Russia è stata di garantire il fabbisogno energetico della crescente domanda interna, che nel suo complesso nel 2030 si prevede avrà un aumento superiore di 1,6 volte. L’esportazione di energia deve diventare più razionale. Entro il 2020 si prevede di stabilizzare le vendite al livello di 1000 milioni di tonnellate di carburante. Pur continuando a diversificare la composizione merceologica delle esportazioni e la direzione del suo approvvigionamento, la Russia cercherà di essere in grado di commercializzare prodotti a più alto valore aggiunto, nonché di promuovere le proprie tecnologie nel settore dell’energia, del risparmio energetico, il trasporto di energia e il trattamento degli idrocarburi. 
Il principio fondamentale della strategia energetica è stabile e prevedibile. I nostri partner tradizionali devono essere sicuri che tutti i contratti sottoscritti sono chiari e sono garantiti  nell’esecuzione. 
Con il suo vasto territorio che occupa una posizione strategica in Eurasia, la Russia è consapevole della propria responsabilità per lo sviluppo e la produzione affidabile di energia e di infrastrutture di trasporto tra i consumatori e i produttori di energia. Un’altra priorità è la stabilità e prevedibilità nel mercato energetico globale. 
Per rispettare incondizionatamente i suoi obblighi internazionali, la Russia ha bisogno di risolvere coerentemente i problemi di efficienza energetica in tutti i settori dell’economia russa. Oggettivamente è complicato per il problema delle condizioni climatiche estreme. Sono indispensabili l’alta tecnologia e l’esperienza dei Paesi più sviluppati. Gli esperti stimano che l’applicazione combinata di energia organizzativa e tecnologica e misure di risparmio potrebbe ridurre il consumo energetico di 420 milioni di tonnellate di combustibile all’anno. 

Al summit tra Russia e Unione europea sono stati definiti i principi di applicazione pratica di una partnership strategica nel settore energetico. La cooperazione si sta sviluppando in quattro aree fondamentali: il commercio di energia, gli investimenti, le infrastrutture energetiche e di sicurezza energetica. 
Le esportazioni di energia dalla Russia verso l’Europa aumenteranno. Nel mercato del petrolio europeo agli inizi del secolo ventunesimo, la quota della Russia si è attestata intorno al 18-20%, mentre la quota di gas russo è del 35-40%. È in atto una tendenza, da parte del gas, ad assumere una posizione dominante nel bilancio energetico. Negli ultimi 30 anni, la quota del gas naturale nel consumo complessivo di energia dell’UE è cresciuta di circa 2 volte. 
Gli esperti ritengono che entro il 2020 l’UE dovrà importare l’80% del totale degli impieghi di gas naturale. Ciò è dovuto principalmente al depauperamento delle riserve di gas nel Mare del Nord. Le previsioni degli esperti dell’Unione europea e degli Stati Uniti stimano l’inevitabile aumento del consumo di gas russo, perché la Russia possiede un terzo di tutte le riserve mondiali. 
Attualmente, il problema degli approvvigionamenti di gas dell’Unione europea sembra essere piuttosto complicato. Circa l’80% del gas russo passa attraverso l’Ucraina, che ha più volte creato complessità e situazioni di conflitto. 
Di conseguenza, al fine di ridurre i rischi e gli obblighi di partner stranieri, il governo russo e Gazprom hanno deciso di trovare un’alternativa al trasporto del gas in Europa. 
I progetti del South Stream e del Nord Stream – non sono solo un mezzo per raggiungere la sicurezza energetica, ma anche un vero e proprio strumento per l’integrazione economica eurasiatica. La diversificazione delle vie di trasporto, l’inclusione degli Stati europei contribuiranno a superare la crisi dell’economia, avranno un impatto positivo sul processo di integrazione europea, e quindi  rafforzeranno lo sviluppo economico regionale. 
Forse a qualcuno questo non piace. Infatti vengono diffuse informazioni distorte sulla presunta dipendenza dall’energia russa pericolosa per gli europei. Intanto, oggi non c’è alternativa economicamente fattibile per la cooperazione russo-europea nel settore dell’energia. 
Così, l’Italia ha confermato la sua partecipazione al progetto “South Stream”. Secondo i leader italiani, “South Stream” rispetto al progetto Nabucco ha vantaggi evidenti. 
L’Italia sostiene il progetto di gasdotto “South Stream” e si oppone al progetto Nabucco, ha detto il ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini nella sua intervista al quotidiano torinese La Stampa nel mese di agosto 2009. Egli ha sottolineato che nella sua decisione il paese e’ governato dai propri interessi, così come quelli di altri paesi europei. 
”Siamo contro Nabucco. Partecipiamo al gasdotto “South Stream”, che verrà dalla Turchia in Italia attraverso la Grecia, perché ha il gas, o lo avrà nel vicino futuro. Nabucco invece per poter funzionare dovrebbe avere il gaz azerbajgiano, che non ha ancora, oppure il gas iraniano, che ora è un problema”, ha sottolineato il capo del Ministero degli Affari Esteri. 
Inoltre, Frattini ha negato le accuse di crescente dipendenza dal gas russo. Questa linea è stata confermata dal Ministro dello sviluppo economico d’Italia, Claudio Scajola, interrogato a proposito della proposta di ridurre la fornitura di gas russo e di aumentare le importazioni da Algeria e Libia. 
”La dipendenza energetica d’Italia nei confronti della Russia è molto più piccola rispetto alla dipendenza di altri Paesi. Noi dipendiamo al 30% dalla Russia e il resto lo otteniamo da Libia, Algeria e dal Golfo. Siamo tra i Paesi europei, quello con le importazioni più diversificate, molto più di Germania e Polonia”, ha detto il ministro. 
Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni ottimistiche, la situazione attorno al “South Stream” al momento non è univoca. Il buon andamento del progetto richiederà un grande sforzo da parte di tutti coloro che sono interessati alla sua attuazione. Ovviamente, la partecipazione al progetto permetterà all’Italia e ad altri Paesi europei non solo di accedere alle fonti energetiche, ma si prevedono più commesse per gli imprenditori italiani, l’espansione della cooperazione reciprocamente vantaggiosa con la Russia, non solo  nell’energia, ma anche nelle industrie collegate.

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Venti di guerra tra Israele e Libano

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Dopo quattro anni dalla guerra del 2006, torna alta la tensione tra Israele ed il movimento sciita di resistenza Hezbollah. Secondo quanto riportato dai media nelle ultime settimane, il Partito di Dio sarebbe pronto ad affrontare Israele e si starebbe preparando per combattere nei villaggi del Libano meridionale, al confine con Israele, da sempre roccaforte della milizia Hezbollah.


Secondo l’intelligence israeliana, in particolare il servizio di controspionaggio delle Forze di difesa israeliane (IDF), vi sarebbe un incremento dell’attività militare di Hezbollah nel villaggio di al-Khiam: le aree circostanti le scuole e gli ospedali verrebbero utilizzate dalle unità del Partito di Dio per nascondere le armi contrabbandate attraverso il confine siriano.

I contrasti sono aumentati anche tra le forze di pace delle Nazioni Unite e i sostenitori di Hezbollah. Agli inizi di luglio, infatti, si sono verificati diversi scontri tra le truppe della Forza di Interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) e la popolazione locale nel sud del Libano, roccaforte di Hezbollah, al confine con Israele. Il contingente dell’ONU, preposto alla sicurezza della zona cuscinetto al confine tra Israele e Libano, da diversi mesi sta monitorando con maggiore intensità il traffico di armi verso il confine con Israele, ma è stato attaccato dagli abitanti dei villaggi sciiti, simpatizzanti di Hezbollah.

Il 3 agosto, invece, violenti scontri si sono verificati tra l’esercito israeliano e quello libanese nella zona al confine tra i due paesi: gli israeliani erano intenti a sradicare alcuni alberi oltre il loro reticolato, ma a sud della Linea Blu, il confine provvisorio tra i due paesi, il cui tracciato viene però contestato dal Libano. La Linea Blu segna la linea del ritiro israeliano dal sud del Libano nel dopo 22 anni di occupazione e, siccome è tracciata sul terreno solo in parte, non sempre è visibile per chi si trova dall’una o dall’altra parte del confine provvisorio. Un evento, questo, che rischia di degenerare, in quanto Hezbollah ha dichiarato, per voce del suo leader Hasan Nasrallah, che, in caso di nuova aggressione israeliana all’esercito libanese, agirà a fianco delle forze libanesi. La situazione si è risolta con l’intervento dell’esercito libanese, ma rimane preoccupante il futuro della sicurezza del paese.

Uno sguardo al passato

Da molti anni il Libano è tormentato da guerre e conflitti che avvengono dentro e fuori dai suoi confini, e i rapporti con il vicino Stato di Israele non sono mai stati facili. Risale al 1982 l’inizio dell’occupazione israeliana del Paese dei Cedri, che durò 22 anni.

Il 6 giugno di quell’anno venne avviata l’Operazione Pace in Galilea, guidata dal generale Ariel Sharon, con lo scopo di cancellare le basi della resistenza palestinese in Libano. Qui, infatti, i miliziani palestinesi si erano riorganizzati dopo l’espulsione dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dai vertici del governo giordano, ed avevano stabilito il loro quartier generale nella zona meridionale del paese. L’operazione israeliana prevedeva la creazione di una fascia di sicurezza, che si estendeva per 40 km, per difendere il nord dello Stato di Israele da eventuali attacchi.

Ma a fine giugno 1982 l’esercito israeliano attaccò diverse fazioni libanesi, tra cui la milizia sciita di Amal, le truppe del governo libanese e vari partiti di sinistra presenti nel paese. Alla fine dello stesso anno, da un’ala dissidente di Amal nacque Hezbollah (termine che in arabo significa Partito di Dio), una milizia appoggiata e finanziata dall’Iran e dalla Siria. Scopo del movimento era resistere all’invasione e ricacciare indietro le truppe di Israele.

Il gruppo si ispira ideologicamente ai precetti della rivoluzione islamica in Iran e agli insegnamenti dell’ayatollah Khomeini; mira a difendere gli interessi degli sciiti, e a sostenere un governo islamico fondamentalista, in chiave anti-occidentale e anti-israeliana. Nel corso degli anni, ha guadagnato consenso tra gli abitanti dei villaggi del Libano meridionale, costruendo ospedali, scuole ed offrendo altri servizi di prima necessità, in un contesto di incapacità del governo centrale libanese di organizzarsi in maniera efficiente. In pratica Hezbollah costituisce uno stato nello stato: partecipazioni finanziarie, imprese, alberghi, ristoranti, contributi mensili alle famiglie. Possiede un vero e proprio sistema di leggi ed un esercito professionale addestrato alla guerriglia, la cosiddetta Resistenza islamica.

Nel 1985 Israele si ritirò dal Libano, rimanendo soltanto in una “fascia di sicurezza” che liberò nel 2000. Tuttavia, non sono mai cessate ostilità tra Hezbollah e l’esercito israeliano, che spesso compiva azioni di rappresaglia in territorio libanese.

La crisi esplose nuovamente l’11 luglio 2006, quando un commando Hezbollah attaccò e distrusse un’unità militare israeliana in Israele, provocando una dura reazione. Gli scontri durarono circa un mese e cessarono dopo il voto della Risoluzione 1701 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, che fu approvata sia dal governo libanese sia da quello israeliano. La Risoluzione chiedeva il disarmo di Hezbollah ed il ritiro delle truppe israeliane dal Libano, con il dispiegamento di soldati libanesi e di una forza di interposizione in Libano delle Nazioni Unite (UNIFIL) nel sud del Libano.

La situazione attuale

Diversi fattori hanno contribuito a scatenare i contrasti delle scorse settimane. Innanzitutto, Hezbollah possiede ora una maggiore quantità di armamenti dall’ultima guerra tra Israele e Libano del 2006, nonostante le disposizioni contrarie della già citata Risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che aveva posto fine al conflitto. La tensione tra Israele ed Hezbollah è cresciuta sensibilmente negli ultimi mesi, in seguito alle accuse al Partito di Dio di aver ricevuto missili balistici Scud dalla Siria e dall’Iran. Secondo il servizio di informazioni israeliano, Hezbollah possiede attualmente un arsenale costituito da 100 missili Scud ed M-600 e 40 mila razzi a corto e medio raggio, armi nascoste nei villaggi e nelle case a sud del fiume Litani, dove si trovano 20 mila militanti sciiti, 8 mila dei quali sono stati addestrati nei campi iraniani. Inoltre, nella zona cuscinetto controllata dall’UNIFIL i miliziani di Hezbollah custodiscono anche una fitta rete di comunicazione e centri di comando.

Attualmente, però, il principale timore israeliano riguarda il programma nucleare iraniano. Israele ha cercato più volte di impedire alla Repubblica islamica di procurarsi gli armamenti nucleari, ma Hezbollah rappresenta per l’Iran un importante deterrente contro l’azione israeliana. Un eventuale attacco all’Iran provocherebbe indubbiamente una reazione di Hezbollah ed una conseguente guerra contro Israele.

Un’altra questione che complica ulteriormente i rapporti tra il governo israeliano e il movimento di resistenza sciita riguarda la recente dichiarazione del leader di Hezbollah, Hasan Nasrallah, che dietro l’omicidio dell’ex premier libanese Rafik Hariri, ci siano gli israeliani. Hariri fu ucciso in un attentato a Beirut il 14 febbraio 2005 e, fin dall’inizio, la responsabilità dell’accaduto è stata attribuita alla Siria. Durante il suo mandato, infatti, l’ex primo ministro tentò di indebolire l’egemonia siriana in Libano che per diversi anni aveva condizionato la politica del governo libanese. La sua morte scatenò una serie di manifestazioni di protesta della popolazione contro la presenza militare della Siria (la cosiddetta “Rivoluzione dei cedri”) e, di fronte alle pressione degli Stati Uniti, le truppe siriane si ritirarono dal territorio nazionale. Quello stesso anno, inoltre, fu istituito un tribunale internazionale con il compito di trovare e processare i mandanti dell’assassinio (secondo voci autorevoli, il tribunale internazionale a settembre emetterà una sentenza che incolperebbe alcuni membri di Hezbollah). Ciò indebolì il ruolo politico del Partito di Dio e degli sciiti e mandò al governo una coalizione presieduta da Fuad Siniora, indipendentista, democratico e filo-occidentale. Ma nelle ultime elezioni del 2009, Hezbollah ha ottenuto 14 seggi in Parlamento e, ad oggi, tiene sotto controllo il governo sia attraverso la presenza di alcuni suoi membri nell’esecutivo, ma soprattutto tramite la deterrenza del proprio esercito.

Una guerra per il controllo delle risorse

Al centro della storia di Israele e dei suoi conflitti con i vicini paesi arabi si trova la questione della gestione delle risorse idriche (si pensi al caso della Siria con le Alture del Golan), che è stata ed è tuttora una delle cause scatenanti delle controversie regionali. Tuttavia, esiste un altro elemento che rischia di innalzare le eventualità di uno scontro, cioè il gas naturale. Si tratta di una risorsa naturale di cui sono ricchi molti paesi mediorientali, come l’Egitto, il Qatar e l’Iran, ma non Israele e il Libano, che costituiscono due eccezioni nello scenario mediorientale, ricco di idrocarburi.

Gli attriti di queste ultime settimane deriverebbero dall’annuncio fatto da Israele che al largo di Haifa, a circa 90 Km dalla costa, vi sarebbero enormi riserve di gas naturale. Si tratterebbe dei giacimenti di Tamar e Dalit, contenenti circa 170 miliardi di metri cubi di gas, la cui produzione dovrebbe cominciare nel 2012. A ciò si aggiunge un terzo giacimento, ancora in via di esplorazione, il Leviathan (quasi il doppio del Tamar), che potrebbe portare le riserve nazionali a circa 450 miliardi di metri cubi. Sarebbe una vera e propria miniera per lo Stato di Israele, per il quale la dipendenza energetica è da sempre uno dei punti deboli. Infatti, il paese, a causa di una sempre maggiore richiesta interna, deve importare gas naturale e carbone, principalmente dall’Egitto, quindi lo sfruttamento dei giacimenti di gas sarebbe la soluzione ai problemi di sicurezza energetica. Inoltre, Israele potrebbe diventare esportatore di gas naturale verso l’Asia e l’Europa, anziché importatore, con rendite fino a 20 miliardi di dollari.

Da qui il disaccordo con il Libano, che ha rivendicato la sovranità su una parte dei giacimenti, i quali sconfinerebbero all’interno delle acque territoriali libanesi. In particolare, Hezbollah ha accusato Israele di sottrarre al Libano le proprie risorse naturali. A sua volta, il premier israeliano Benjamin Netanyahu, ha accusato Hezbollah di approfittare della scoperta di questi giacimenti per rivendicare diritti inesistenti su tali aree.

Un’altra zona calda al centro della questione tra Israele e Libano è la regione di Shebaa, un’area ricca di fattorie situata tra il confine libanese e le alture del Golan, parte dei territori occupati da Israele. Secondo i governi libanese e siriano, le fattorie di Sheabaa rientrano nel confine libanese, mentre per Israele si troverebbero al massimo entro i confini siriani (opinione che però non pregiudica il perdurare dell’occupazione sionista, ma anzi mira a giustificarla).

In conclusione, un conflitto tra Israele ed Hezbollah sarebbe grave sia perchè provocherebbe enormi perdite fra la popolazione civile, sia per le implicazioni a livello regionale ed internazionale, poiché lascerebbe irrisolte le questioni di fondo della pace e della sicurezza nella regione mediorientale.


* Silvia Bianchi è dottoressa in Editoria e giornalismo (LUMSA di Roma)

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La Rinascita del PKK fra legittimazione e violenza

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La Turchia sta avocando a sé e conquistando il ruolo di potenza regionale, punto di contatto fra oriente e occidente. A tal fine la sua politica estera si sta, nuovamente, spostando ad est verso i vicini paesi mediorientali, pur mantenedo aperta la porta ad occidente, verso gli USA e l’UE. La questione ancora aperta relativa ai curdi e alla lotta trentennale con il gruppo terrorista del partito dei lavoratori del Kurdistan (PKK) pesano, però, sulla crescita geopolitica della Turchia, tanto che gli interessi economici statunitensi ed europei nell’area, da una parte, e la volontà di Ankara di avvicinarsi all’UE, dall’altra, fanno sì che ci siano forti pressioni esterne per la stabilizzazione dell’area. Tale obiettivo non può che passare, però,  attraverso la soluzione della questione curda.

D’altra parte, la capacità  di Ankara di trovare una soluzione efficace in merito, é fortemente condizionata dall’inscindibilità di una questione curda  da una questione PKK. La ricerca di nuovi tentativi di una possibile soluzione si configura, così, come l’avvio di una nuova fase di scontri con il gruppo terrorista, uno scontro che si combatte parallelamente su due fronti, quello della politica interna e quello delle relazioni esterne.

Politica interna: legittimazione politica e ritorno alla violenza

Sul fronte interno i rapporti tra Ankara e il PKK si configurano come  contrapposizione tra la ricerca da parte di quest’ultimo di una legittimazione politica e la chiusura del governo al dialogo con esso o con soggetti ad esso legati.

Un anno fa,  il governo di Recepp Tayyp Erdogan lanciava quella che è stata battezzata come “apertura democratica” o “iniziativa curda”, ovvero l’avvio di un percorso finalizzato alla definizione di una strategia globale per la soluzione del problema curdo.

Come alcuni osservatori hanno messo in evidenza l’apertura del governo è arrivata, non casualmente, in seguito all’annuncio della stesura da parte di Ocalan, leader in arresto del PKK, di una roadmap contenente le condizioni per deposizione delle armi nella trentennale insurrezione etnica-curda nel sud est turco. “La questione [curda] sarà risolta ad Ankara, non a Imrali” ha affermato il ministro degli affari esteri Ahmet Davutoglu facendo riferimento al luogo in cui è detenuto Ocalan. Il governo, rilanciando una propria iniziativa ha dunque voluto evitare di trovarsi nella situazione di dover prendere in considerazione delle raccomandazioni provenienti dal leader del PKK, riaffermando così di non voler accettare Ocalan come negoziatore, e rappresentante del popolo curdo, e di non considerare il PKK come controparte per ricercare una soluzione concordata alla questione curda.

La roadmap, la cui comunicazione era prevista per la metà di agosto dello scorso anno, è stata sequestrata dalla Procura e non ancora resa pubblica. Nonostante ciò, anticipi e indiscrezioni ne hanno reso noto, per grandi linee, il contenuto. Le condizioni delineate da Ocalan sostanzialmente mirano alla reinstaurazione di un assetto costituzionale simile a quello della carta del 1921, nella quale si riconosceva alle province un’ampia autonomia locale, in particolare in materia di educazione, salute, economia, agricoltura, sviluppo e questioni sociali. La legittimità del modello cosidetto della “autonomia democratica” sarebbe inoltre, ad opinione della leadership del PKK e del presidente del Partito per la pace e democrazia (BDP) Bayik, assicurata dalla Carta sull’autonomia dei governi locali, firmata dalla Turchia con l’Unione Europea nel 1988, e da certe condizioni poste dalla legge del 1991.

La roadmap, delineata da Ocalan, ha reso piuttosto scomodo, agli occhi del Partito della giustizia e sviluppo (AKP), al governo, il ruolo del Partito pro-PKK della società democratica sociale (DTP), che ha fatto sua la posizione di Ocalan e ha presentato il proprio documento nell’ambito dell’iniziativa curda, basandolo su un’ottica molto vicina a quella della roadmap.

Il DTP era il principale partito di rappresentanza curda avendo conquistato, nelle politiche del 2007, un sostanzioso numero di seggi. Nelle elezioni amministrative dell’aprile 2009 il DTP ha riscosso un nuovo importante successo, a discapito delle aspettative dell’AKP. Due settimane dopo, il 14 aprile, il PKK ha proclamato un cessate il fuoco, ritenedo che il successo elettorale potesse essere un segnale che i tempi erano maturi per la definizione di una soluzione democratica al conflitto. Il giorno dopo la polizia turca ha avviato una operazione di arresti ai danni dei membri della confederazione democratica curda (KCK) , arrestando molti deputati e sindaci del DTP. L’operazione, portata avanti fino a settembre scorso, si è conclusa con l’arresto di circa 1500 fra intellettuali, giuristi, politici e operatori sociali curdi. L’attacco al DTP si è completato nel dicembre 2009, con la sentenza della corte costituzionale che ne ha sancito lo scioglimento e l’espulsione dalla vita politica per cinque anni di numerosi suoi membri fra cui del presidente Türk, uno dei politici curdi più moderati e rispettati (Osservatorio Balcani-Caucaso, 30 aprile 2009).

É difficile non leggere questi eventi come il tentativo del governo turco, e in particolare dell’AKP di tagliare fuori l’ala politica dell’attivismo curdo. Se è vero che la motivazione ufficiale è quella di non scendere a contrattazioni con il gruppo terrorista criminale, è altresì vero che l’assenza di un interlocutore, con il quale trattare la pace, ha significato e significa la morte dell’iniziativa avviata dal governo per risolvere la questione curda e, conseguentemente, il ritorno alla violenza. Le frange armate del PKK, hanno trovato, infatti, legittimazione per compiere nuovi attacchi terroristici. Il 21 giugno scorso il PKK ha, inoltre, revocato il cessate il fuoco, unilateralmente proclamato nell’aprile 2009. Da quel giorno si contano più di 50 vittime di attacchi terroristi e scontri con l’esercito.

A peggiorare ancora  la situazione di caos è l’ostracismo dei partiti nazionalisti di opposizione, verso l’avvio del dialogo nell’ambito dell’iniziativa curda. Il partito del movimento nazionalista (MHP) ed il partito del popolo republicano (CHP), hanno dimostrato infatti forte ostilità verso l’iniziativa di governo. I rispettivi presidenti di partito, Devlet Bahceli e Deniz Baykal, hanno a più riprese affermato il loro rifiuto di dialogare con il PKK e con i movimenti ad esso legati, accusando Erdogan di voler mettere sullo stesso piano terroristi e martiri (Eurasia Daily Monitor, 21 agosto 2009; Middle East Report, 4 agosto 2010). Rifiutando di prendere parte alla ricerca di una soluzione pacifica alla questione dei curdi, i partiti di opposizione sono fortemente sospettati di avere interessi nel mantenere alte le tensioni e ad aizzare la violenza, come recenti fatti di cronaca hanno messo in evidenza – il JITEM, un comparto di intelligence interno alla gendarmeria e legato al MHP, è sospettato di aver preso parte a un attentato terroristico avvenuto nelle scorse settimane nel distretto di Dortyol, simulandolo come atto del PKK (Today’s zaman, 2 agosto 2010).

Relazioni esterne e controllo regionale

Guardando alle relazioni esterne, i rapporti fra Ankara e il PKK possono essere analizzati come il tentativo di entrambi di mantenere, o conquistare, il controllo della regione dell’Anatolia orientale. L’intento di Ankara è di isolare il PKK tagliando i suoi principali contatti internazionali.

È noto che il PKK ha potuto condurre la sua lotta grazie a un forte sostegno esterno. In particolare, fra gli altri, dai vicini Iraq e Siria ha ricevuto soldi, armi, addestramento, protezione e supporto politico e morale (vedi: Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). La Siria ha ospitato fino alla fine degli anni ’90 campi di addestramento del PKK nella Valle della Bekaa dei territori occupati del Libano; per tutti gli anni ’80 e ’90 Iran e Iraq hanno offerto ospitalità a basi ed a guerriglieri PKK, in cambio di informazioni di intelligence circa le istallazioni militari USA in Turchia. Inoltre il PKK ha tratto forza dai legami con le minoranze curde presenti in questi Stati,  con le quali condivide l’obiettivo della creazione di un Kurdistan indipendente, come previsto nel trattato di Sévres del 1920. Particolarmente importanti sono i legami con il Governo Regionale Curdo (KRG) del nord Iraq, che offre basi e protezione ai guerriglieri del PKK, ed è, soprattutto oggi, il principale alleato del PKK nella regione.

Il forte radicamento sul territorio e i legami con gli Stati nell’area hanno permesso al PKK non solo di avere forti basi per organizzare le sue attività, ma anche di cimentarsi in proficue attività economiche legate a traffici di armi e droga. Soprattutto per quanto riguarda queste ultime, l’area in questione non è solo un crocevia di traffici, ma anche un importante punto di produzione, soprattutto di oppiacei. Secondo quanto riferiscono recenti ricerche, il PKK gestisce circa il 60-70% dei traffici di droga in europa, il che gli permette di ricavare, è stato stimato, circa 40 milioni di dollari l’anno (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). L’attacco USA in Iraq nel 2003, ha permesso al PKK di avvantagiarsi della situazione di caos politico, creando ulteriori importanti opportunità economiche e politiche legate al terrorismo transfrontaliero e ai traffici illeciti.

Dall’altra parte, a partire dai primi anni 2000 e con maggiore forza negli ultimi anni, la volontà di Ankara di affermarsi come potenza regionale ha fatto sì che essa intavolasse più strette relazioni con i suoi vicini mediorentali e stringesse accordi in chiave anti terroristica, privando sostanzialmente il PKK di importanti risorse logistiche ed economiche.

Nel corso degli ultimi dieci anni la Turchia ha siglato con la Siria nel 2000, con l’Iran nel 2004 e con l’Iraq nel 2007 dei memorandum d’intesa affinchè si sancisse il riconoscimento del PKK come gruppo terrorista e si adottassero misure per combatterlo. Nel memorandum siglato con l’Iraq sono inoltre incluse delle clausole che autorizzano incursioni militari turche nel nord del paese, effettuate nel 2008 e ripresi nei mesi scorsi.

Parallelamente Ankara sta lavorando per un ravvicinamento politico ed economico in particolare con Siria ed Iraq. Con tale obiettivo, a pochi mesi dal lancio dell’iniziativa curda, il 13 ottobre del 2009 è stato inaugurato il primo Consiglio di cooperazione strategica fra la Turchia, la Siria e l’Iraq (Eurasia Daily Monitor, 16 ottobre 2009). Il Consiglio si è svolto all’insegna dello slogan “destino, storia e futuro comune”. Durante gli incontri che hanno coinvolto diversi ministeri, come quello degli esteri, dell’energia, dell’agricoltura, dei trasporti, sono stati siglati più di 50 accordi, in ambito economico politico e commerciale. Fra  questi sono stati firmati anche accordi volti a rafforzare la lotta al terrorismo ed in particolare al PKK. Nell’occasione Erdogan ha inoltre annunciato un cambio di strategia nei confronti del Governo Regionale Curdo, decidendo di aprire un consolato a Arbil la capitale del Kurdistan iracheno, mirando a scoraggiare il governo curdo a dare sostegno politico e  logistico al PKK.

A sciolgliere i rapporti con i suoi vicini, sono state sostanzalmente  ragioni economiche, legate alla trasformazione della regione in uno strategico corridio energetico e ai forti interessi economici e politici degli Stati Uniti. Ne è un esempio la costruzione del gasdotto Nabucco che dovrebbe trasportare gas dalla regione caucasica in Europa tramite l’Iraq e la Turchia.

In ragione dell’evoluzione di tali relazioni, il PKK, ha subito l’arresto di centinaia di guerriglieri in Siria (Zaman, 16 luglio 2010) e la ripresa dei bombardamenti e dei rastrellamenti turco-iraniani delle proprie basi in Nord Iraq. Ha visto venir meno, dunque, il supporto esterno precedentemente assicurato.

La battaglia di rinascita del PKK

La lettura congiunta degli eventi sul piano delle relazioni esterne e della politica interna, permette di delineare un’analisi della strategia di lotta del PKK. La volontà di quest’ultimo di ricercare una legittimazione politica può essere letta, infatti, come consapevolezza circa il ruolo di corto respiro politico e strategico dell’uso dell’azione terroristica e criminale, soprattutto in relazione al cambiamento delle congiunture internazionali, ed in particolare dell’evolversi delle alleanze nella regione mediorientale ed al rafforzamento della lotta al terrorismo.

Tale processo è iniziato già da un decennio: quando Ocalan è stato arrestato, nel 1999, il PKK si è impegnato in quella che alcuni osservatori hanno definito “lotta per la rinascita”, ovvero il tentativo di costituirsi come pseudo partito politico, portando avanti le proprie istanze attraverso l’azione del movimento legale curdo (Lybov Mincheva e Ted Robert Gurr, 28 marzo 2008). Tale “lotta” significa, dunque, ottenere che i partiti pro-curdi trovino uno spazio consolidato di legittimazione. L’attivismo politico legale è sempre stato una componente importante dell’azione del movimento curdo. Nel corso degli anni ’90 sono nati una serie di partiti politici, relegati però al margine del gioco democratico proprio in ragione dei loro troppo espliciti legami con il PKK. In considerazione di ciò la stessa leadership del gruppo terrorista tenta di prendere, almeno ufficilmente, le distanze dalle rappresetanze legali del movimento curdo. In tal senso può spiegarsi perchè Ocalan ha raccomandato al partito nato dalle ceneri del DTP, il partito per la pace e democrazia (BDP), di non associarsi con il PKK e di non presentarsi come il suo portavoce, bensì di lottare sull’arena politica.

In termini di strategia, creare questo spazio di legittimità, permette al PKK di ritrovare un terreno di consensi sul quale portare avanti le istanze del movimento curdo. Non è casuale il fatto che la principale battaglia si stia al momento svolgendo nei termini di tutela delle minoranze e autonomia delle amministrazioni locali, tema che porta Ankara a confrontarsi – o scontrarsi- con l’UE circa gli obblighi imposti dal processo di integrazione.

Proprio in considerazione di tali interessi, sarebbe ingenuo pensare di poter effettivamente scollare il PKK dalla rappresentanza legale e politica curda. Una tale visione sottovaluta, inoltre, il grado di radicamento del PKK nella società civile. Tanto più che buona parte del bacino elettorale sul quale i partiti pro-curdi si sostengono sono persone che voterebbero, potendo, il PKK.  A sostegno di questa tesi è significativo notare che, nonostante le raccomandazioni di Ocalan e le dichiarazioni di intenti, il BDP abbia subito fatto propria la lotta per l’ “autonomia democratica” e che non abbia dato sin ora, significativi segnali di distacco dal PKK.

D’altra parte un atteggiamento troppo duro nei confronti dell’ala legale del movimento curdo, pur volta a colpire la sua ala armata, potrebbe rivelarsi un gioco troppo costoso. Infatti, gli atti di repressione e di chiusura del governo nei confronti del movimento curdo vengono utilizzati dal PKK, e dai suoi comparti più estremi, come pretesti per continare le azioni di guerriglia, come dimostra l’escalation di violenza degli ultimi mesi. Significative in tal senso sono le dichiarazioni rilasciate dal comandante in carica del PKK, nonchè presidente del KCK, Murat Karaylan il quale, in una intervista rilasciata al giornale Mylliet ha affermato che il KCK, pur avendo deciso di seguire la roadmap di Ocalan, ha allo stesso tempo deciso di prepararsi a continuare la resistenza armata contro lo Stato turco.

Potrebbe, dunque, essere miope da parte del Governo non riconoscere la sostanziale differenza che separa i politici dai guerriglieri, ovvero sottovalutare e lasciare cadere la volontà dell’attivismo politico curdo che mira al perseguimento dei fini politici attraverso mezzi non violenti. Si precluderebbe così la possibilità, difficile, ma possibile, di trovare un interlocutore con forti credenzialità per avviare a soluzione la “questione curda” e fare assurgere la Turchia a vera potenza regionale.

* Sara Bagnato è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Perugia)

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Ahmadinejad e la politica demografica: più nascite grazie agli aiuti statali

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L’Irannon è un paese per vecchi” o non deve diventarlo nel prossimo futuro. Sembra essere questa la massima di fondo che ha ispirato il discorso del presidente iraniano Mahmoud Ahmadinejad in occasione di una cerimonia d’inaugurazione di un piano per l’assistenza all’infanzia, organizzato il 27 luglio a Teheran. Dopo le critiche rivolte alla campagna per il controllo delle nascite, in atto in Iran da circa un ventennio, il leader iraniano ha annunciato la sua personale proposta al riguardo: incrementare il numero della popolazione. Come? Attraverso degli incentivi governativi destinati ai nuclei familiari in procinto di mettere al mondo dei figli o con un ridotto numero di figli a carico, ma propensi ad allargare la famiglia.

Nello specifico, il governo fornirà aiuti finanziari in termini di “compenso” a tutti coloro che metteranno al mondo dei figli durante l’anno in corso (cominciato secondo il calendario iraniano il 21 marzo). Ad ogni famiglia saranno versati 950 dollari in un conto governativo. A questo “sussidio” si aggiungeranno 95 dollari addebitati annualmente sempre dallo stato, fino a quando il bambino non avrà raggiunto i 18 anni di età. Una volta compiuti i 20 anni, il denaro potrà essere impiegato per finanziare gli studi o per sposarsi e mettere su famiglia, oppure per qualsiasi bisogno legato alla salute o per comprare una casa. Una certezza economica capace di coprire delle spese (ad esempio, quelle legate alla formazione scolastica e universitaria per i propri figli), che le famiglie iraniane allo stato attuale non sarebbero in grado di fronteggiare, a causa della crisi economica abbattutasi, seppur con riflessi minori, anche sulla Repubblica Islamica nell’ultimo anno.

La proposta avanzata dal Presidente, almeno nel suo impianto teorico non sembra fare una piega, giacché si rivolge in sostanza agli strati più poveri della società, gli stessi che lo hanno sostenuto alle elezioni del 2005 e del 2009. In poche parole, anche le famiglie meno abbienti, grazie agli aiuti di stato, potranno garantire un futuro alla propria prole. Ma la politica demografica propugnata dal presidente Ahmadinejad non si ferma qui. Fornire aiuti economici alle giovani coppie vuol dire, prima di tutto, incentivare le donne a mettere al mondo più figli senza incorrere nel rischio di possibili aborti dovuti a gravidanze indesiderate. Al di là di tutele e garanzie a vantaggio della salute pubblica, dietro la proposta si cela il progetto di dare avvio ad un processo di incremento demografico che, secondo le aspirazioni del suo stesso fautore, dovrebbe raggiungere punte elevate nei prossimi anni. Dai 75 milioni di abitanti attuali, l’Iran dovrebbe accogliere entro i suoi confini quasi il doppio della popolazione odierna: 150 milioni, secondo stime approssimative. Un vantaggio, oppure no?

È ormai noto che l’Iran sia un Paese dalla doppia anima: da un lato, la modernità che timidamente ricerca i suoi spazi vitali, popolata dai volti di 36 milioni di giovani – la cosiddetta “terza generazione” alla quale appartiene circa la metà della popolazione –dall’altro, la tradizione e le difficoltà legate ad un’economia instabile perché dipendente dalle risorse naturali di cui il sottosuolo dispone. Un deficit colmato in gran parte dalle relazioni commerciali con partner stranieri: Asia, Medio Oriente ed Europa che fungono da principali acquirenti di materie prime come gas e petrolio. Nulla toglie al fatto che, a dispetto di quanto si potrebbe pensare, l’Iran è un Paese non solo moderno (per alcuni aspetti) ma anche ricco (per altri). La sua modernità viene difatti soppesata sulla base di una serie di fattori. Uno dei principali indicatori “di sviluppo culturale e passi da gigante nel processo di civilizzazione” è senza dubbio il livello di istruzione raggiunto dalla popolazione, e l’Iran in questa direzione registra un’elevatissima percentuale, pari all’88%, il più alto tra i Paesi musulmani.

Il secondo fattore di modernità è la folta presenza di giovani e giovanissimi con un’elevata formazione scolastica e universitaria. Sono in prevalenza laureati o dottori con master e specializzazioni post laurea. Titoli acquisiti in patria oppure all’estero, presso le università americane o inglesi. E circa il 60% dei laureati sono donne. Ingegneri, informatici, avvocati che vanno ad ingrossare le fila della nuova borghesia iraniana. Una forza – lavoro, la loro, fatta non solo di braccia e mani, ma soprattutto di idee e progetti da applicare ai vari settori della vita pubblica, preziosi per imprimere un impulso ad un’economia nazionale spesso lenta e soffocata, anche per i continui e ripetuti limiti imposti dai pacchetti di sanzioni varati dalla comunità internazionale.

Il terzo fattore è rappresentato dallo stato dell’economia nazionale che influisce, non senza conseguenze, sulla fisionomia del tessuto sociale iraniano. A tal proposito, proprio il 2009 è stato per l’Iran un “annus horribilis”, a causa del crescente livello di disoccupazione che nel trimestre dicembre – marzo ha sfiorato picchi elevati. Secondo i dati forniti dal Centro di Statistica Iraniano, il tasso di disoccupazione ha raggiunto l’11,3% registrando così uno scarto pari all’1,8% rispetto all’anno precedente. Il 2009 ha registrato un calo del prezzo del petrolio e la conseguente diminuzione della produzione di “oro nero” (in seguito ai tagli imposti dall’OPEC). Ciò ha influito profondamente sulla crescita reale del PIL e ha limitato l’azione del governo pronto a varare una politica fiscale di espansione, a sostegno dei consumi privati e a vantaggio di una crescita nella sfera degli investimenti. A questo si è aggiunto il crescente livello di disoccupazione, il più alto registrato negli ultimi cinque anni (2005-2010).

Nonostante le forti limitazioni imposte all’economia nazionale e provenienti tanto dall’interno quanto dall’esterno (import ed export), l’Iran ha dimostrato per molti versi di essere un Paese dinamico, determinato a mantenere inalterata la sua posizione privilegiata di “produttore di oro nero”. Infatti, circa il 10% delle riserve mondiali di petrolio sono prodotte dal sottosuolo iraniano. I guadagni legati alla produzione del petrolio forniscono ancora l’80% dei guadagni connessi all’esportazione e il 40/70% delle entrate governative. Nell’anno relativo al 2008-2009, l’Iran ha registrato entrate pari a 98 miliardi di dollari USA. Inoltre, il governo iraniano sta compiendo enormi sforzi nel tentare di dare impulso ad una diversificazione economica, puntando su settori per i quali si prevedono buone possibilità di espansione: l’industria petrolchimica e l’industria dell’acciaio.

Tra alti e bassi in campo economico, il governo iraniano, come si è detto, ha comunque deciso di inaugurare una politica demografica, volta in sostanza a promuovere un aumento della popolazione futura quindi un incremento delle nascite. Anche in questo caso, si possono prevedere effetti a breve e lunga durata, traducibili da un lato in un aumento della spesa pubblica e, dall’altro, ad un futuro ricambio generazionale. L’Iran è un Paese giovane. Più della metà della popolazione attuale ha meno di 30 anni. Plasmare una “quarta generazione” composta da giovani di età compresa tra i 20 e i 30 con un elevato livello di istruzione e professionalità, significa imprimere un impulso maggiore all’economia nazionale, attraverso un accrescimento del livello di competitività che si può tradurre, in molti casi, nello sviluppo di nuovi settori come ad esempio il settore informatico o quello tecnologico.

È pur vero che la principale fonte di sostentamento per l’economia iraniana è costituita dalla produzione di petrolio, ma occorre menzionare come in Iran stia fiorendo un vero e proprio mercato delle tecnologie d’informazione. Tradotto sul piano pratico, ciò corrisponde ad un forte impulso nello sviluppo di infrastrutture e servizi on-line: e- commerce, e-government, e-sanità, e-banche, e-formazione. A ciò si deve aggiungere la preponderante diffusione di Internet e la crescita di industrie deputate alla realizzazione di strumenti tecnologici. Si è calcolato che circa 550 aziende iraniane hanno contribuito negli ultimi tre anni a fortificare un mercato in espansione, ossia quello logistico e tecnico, che ha registrato una crescita annuale del 40%.  Ma forse non basta.

La proposta di Ahmadinejad deve pur tenere conto del Paese reale e del suo stato di salute. Se da un lato, la crescita demografica può essere sinonimo di rinnovamento generazionale e spinta economica dovuta all’aumento della competitività, dall’altro non può tralasciare il fattore negativo, ovvero l’aumento della spesa pubblica e la conseguente crescita esponenziale del livello di disoccupazione, al di sopra della soglia del 7% fissato dal patto di sviluppo economico. Certo, la manovra presidenziale potrà attingere al reddito derivante dal petrolio – per poter sovvenzionare i vari programmi interni – ma anche questo potrebbe non essere sufficiente. Un aumento della popolazione comporta necessariamente una crescita dei bisogni collettivi e individuali e dunque un flusso continuo di denaro per alimentare le spese ed evitare un forte disavanzo (e dunque il deficit spending).

* Pamela Schirru è laureanda in Filosofia Politica (Università di Cagliari)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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La sorprendente politica del nuovo presidente colombiano: falco o colomba?

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Il 7 agosto scorso si è tenuta la cerimonia di insediamento del nuovo presidente della Colombia, Juan Manuel Santos. Il giuramento del nuovo Capo di Stato è stato preceduto da giorni di forte tensione tra la Colombia e il Venezuela, sfociati nello spiegamento di forze militari al confine tra i due Paesi e nella rottura dei rapporti diplomatici.

Il 22 luglio l’ambasciatore colombiano presso l’Organizzazione degli Stati Americani (OSA) aveva accusato il Paese vicino di supportare i narcoterroristi delle FARC (Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia), ospitando almeno 1500 membri dell’organizzazione in 87 basi dislocate sul territorio venezuelano, al confine con la Colombia. L’ambasciatore ha mostrato foto e video aerei con identificazione di coordinate, che inchioderebbero Caracas alle sue responsabilità, tra cui un’immagine di uno dei leader delle FARC disteso a prendere il sole su una spiaggia venezuelana con tanto di birra Polar (il marchio più famoso del Venezuela) in mano.

Poteva essere l’ennesima riproposizione di un copione già visto nei travagliati rapporti tra i due Paesi sudamericani: la Colombia accusa il Venezuela di ospitare narcoterroristi, Caracas risponde accusando Bogotà di essere “serva degli Stati Uniti”, si rompono le relazioni diplomatiche ed entrambi i Paesi spediscono un paio di divisioni alla frontiera a guardarsi in cagnesco.

In pratica è successo anche questa volta, ma un elemento di novità ha risolto rapidamente e efficacemente la crisi, con incoraggianti segnali che fanno sperare in una definitiva stabilizzazione nelle relazioni diplomatiche tra i due Stati.

Nel suo discorso inaugurale, infatti, il neo-presidente Santos ha pronunciato parole di apertura nei confronti del Venezuela, e ha dichiarato che “la parola guerra non è inclusa nel mio vocabolario”. Alla cerimonia è stato invitato anche Chavez, che tuttavia non ha partecipato, venendo rappresentato dal suo ministro degli Esteri, Nicolas Maduro.

Pochi giorni dopo l’insediamento, il nuovo presidente colombiano e il leader venezuelano si sono incontrati a Santa Marta, in Colombia, promettendo pace duratura, scambiandosi attestati di stima e lasciando completamente spiazzati analisti e diplomatici di tutto il mondo, che fino alla settimana prima temevano lo scoppio di ostilità tra i due Paesi. Cosa è accaduto? Cosa ha trasformato il “duro” ex ministro della Difesa del governo Uribe, che non aveva avuto remore nell’ordinare l’attacco contro le basi delle FARC in territorio equadoregno, in un araldo della pace? E come è stato possibile un così rapido mutamento del caudillo venezuelano, che fino a poche ore prima aveva pronosticato guerra e devastazioni per l’odiato vicino filoamericano, e che ora tiene una conferenza stampa congiunta con il suo presidente?

Un nuovo inizio con Caracas

Quando lo scorso 20 giugno Juan Manuel Santos vinse le elezioni presidenziali tutti gli osservatori e gli esperti della politica colombiana annunciarono che la linea dura contro le FARC e contro i Paesi vicini accusati di sostenere i narcoterroristi, portata avanti negli otto anni del governo di Alvaro Uribe, sarebbe diventata una linea durissima, viste le credenziali del neo-eletto presidente.

Santos, ministro della Difesa dal 2006 al 2010, considerato un “falco” dell’amministrazione Uribe, aveva portato avanti una lotta senza esclusione di colpi contro le organizzazioni terroriste e i narcotrafficanti colombiani (molto spesso due facce della stessa medaglia, cosa che ha fatto nascere il termine “narcoterroristi”). L’azione del governo si era concentrata in particolare contro le FARC, che all’inizio del primo mandato di Uribe, nel 2002, contavano oltre 20.000 effettivi e controllavano gran parte del territorio nazionale. Durante il suo mandato ministeriale Santos autorizzò numerose operazioni militari che decimarono la leadership del gruppo, come ad esempio la famosa “Operazione Fenix”, nella quale fu ucciso il numero due delle FARC Raul Reyes con un’incursione aerea sul territorio dell’Ecuador, provocando una crisi diplomatica ancora in corso tra Bogotà e Quito, e l’”Operazione Scacco”, che portò alla liberazione dell’ex candidata alla presidenza Ingrid Betancourt. A questi successi militari tuttavia si devono sommare anche scandali di abusi di potere da parte di membri delle Forze Armate Colombiane spesso coperti dal governo, e i numerosi casi dei “Falsi Positivi”, veri e propri omicidi di innocenti cittadini colombiani, per la maggior parte poveri contadini, che venivano presentati come guerriglieri caduti in combattimento.

La gestione della Difesa da parte di Santos non verrà ricordata per un esemplare rispetto della trasparenza o del diritto internazionale, ma è innegabile un consistente progresso nella lotta contro la guerriglia: oggi le FARC possono contare su meno di 8.000 uomini, il controllo del territorio è tornato solidamente nelle mani del governo e le azioni della guerriglia sono state arginate nelle sole aree di frontiera, nelle quali possono ancora operare, secondo Bogotà, soltanto grazie al supporto e alla copertura dei Paesi vicini, primo tra tutti il Venezuela. Per queste ragioni le aspettative del mondo nei confronti del nuovo presidente erano “fuoco e fiamme”, soprattutto nei confronti di Caracas. E invece il nuovo Primo Cittadino colombiano ha sorpreso tutti, mostrando un’inaspettata apertura, sia verso Chavez, ma anche, cosa ancor più sorprendente, nei confronti delle stesse FARC.

Durante il suo discorso di inaugurazione, Santos ha dichiarato che avrebbe portato avanti un dialogo “diretto e franco” con il Venezuela, senza mediazioni di altri Stati. Poteva essere la solita frase di rito, pronunciata da un presidente che vuole fare bella figura il suo primo giorno di lavoro, e invece come poche volte nello scenario politico internazionale, alle parole sono seguiti molto velocemente i fatti. A capo della diplomazia di Bogotà, infatti, è stata nominata l’ex ambasciatrice a Caracas, Maria Angela Holguin, che più volte si era scontrata con il presidente Uribe per la durezza della sua politica nei confronti del Paese vicino. Inoltre, il giorno dopo la cerimonia di insediamento, i ministri degli Esteri di Colombia e Venezuela hanno annunciato l’incontro tra i due Capi di Stato per il giorno seguente. Una rapidità che deve aver sorpreso Chavez, il quale ha interrotto il suo programma domenicale “Alo Presidente” per trasmettere in diretta la conferenza stampa dei due cancellieri, e ha dichiarato che quella notte sarebbe “andato a dormire felice”.

Ancora più sorprendenti sono state le parole pronunciate dal caudillo venezuelano pochi istanti dopo. Chavez ha attaccato duramente le FARC, bollando come “senza futuro” il proseguimento della lotta armata e affermando che l’organizzazione è un “problema anche per il Venezuela”. “Non ho approvato, né approvo, né approverò la presenza di forze guerrigliere. Questo territorio è sovrano”, ha sanzionato il leader bolivariano. Una lectio magistralis di Realpolitik sudamericana. Sin dai tempi della sua ascesa al potere, infatti, Chavez aveva sempre espresso solidarietà alle FARC, proclamando “rispetto per il loro progetto politico”, imputando a Bogotà le responsabilità del conflitto colombiano e auspicando che la rivoluzione conquistasse il potere anche nel Paese vicino. Inoltre il 23 luglio, il giorno dopo il “J’accuse” colombiano, l’ambasciatore venezuelano presso l’OSA aveva spudoratamente ammesso la presenza di membri delle FARC sul suo territorio.

Evidentemente le FARC sono diventate un ospite troppo ingombrante per il Venezuela, e Chavez non ha avuto remore a sacrificarle sull’altare dei rinnovati rapporti con la Colombia. Un cambiamento di rotta notevole, motivato non soltanto da ragioni di buon vicinato diplomatico. Dall’inizio della crisi tra i due Paesi, infatti, il valore degli scambi commerciali è crollato da 6,5 miliardi a 2,6 miliardi di dollari, con una previsione per la fine del 2010 di soltanto 1 miliardo di dollari. Con un’economia in negativo (il Venezuela sarà l’unico Paese sudamericano con un PIL negativo nel 2010), Caracas non è in grado di sopportare a lungo una guerra commerciale di questa portata. La prova della spegiudicatezza politica di Chavez sta nel fatto che il leader bolivariano non ha neanche lontanamente menzionato le ragioni che hanno portato alla crisi: l’autorizzazione all’utilizzo di basi militari colombiane alle forze armate statunitensi. Concessione negoziata peraltro durante il periodo in cui Santos era ministro della Difesa.

L’elezione del “duro” Santos ha portato quindi ad una inaspettata quanto rapida riconciliazione tra Colombia e Venezuela. L’incontro di Santa Marta, avvenuto all’interno del Mausoleo dedicato a Simon Bolivar, non poteva essere una location migliore per questa occasione storica, durante la quale Chavez e Santos, in una conferenza stampa congiunta sotto la statua del Libertador, hanno dichiarato di voler “girare pagina” e “dimenticare il passato”.

Carota e Bastone con le FARC

Il discorso inaugurale di Santos non ha risparmiato sorprese anche sul fronte della lotta al narcoterrorismo. “Ai gruppi armati illegali che invocano ragioni poltiche e oggi parlano ancora una volta di dialogo dico che il mio governo sarà aperto a qualsiasi discorso che cerchi di estirpare la violenza” ha dichiarato il neo-presidente colombiano, inviando un messaggio di apertura al dialogo alle FARC, a condizione che vengano liberati tutti gli ostaggi, deposte le armi e troncati i legami con il narcotraffico.

La risposta delle FARC non si è fatta attendere: l’11 agosto un’autobomba è esplosa al centro di Bogotà, di fronte alla sede dell’emittente “Radio Caracol” e dell’agenzia di stampa spagnola “Efe”, provocando il ferimento di 18 persone e danneggiando decine di edifici. Un attentato del genere potrebbe apparire come la dimostrazione che la guerriglia gode di pieno vigore e non ha la minima intenzione di sotterrare l’ascia di guerra, ma analizzando alcuni episodi che hanno caratterizzato le ultime settimane si delina una situazione molto diversa.

Una settimana prima della cerimonia di insediamento di Santos le FARC hanno divulgato un video in cui il loro leader maximo, Alfonso Cano, propone al nuovo presidente il ripristino del dialogo per una fine negoziale del conflitto armato che insanguina il Paese da decenni. Messaggi del genere erano già stati inviati al presidente Uribe, che li aveva sempre sdegnosamente rispediti al mittente. L’ex presidente era stato eletto nel 2002 anche grazie al fallimento dei negoziati con la guerriglia portati avanti più volte dai governi colombiani, come durante la presidenza Pastrana (1998-2002) e quella di Belisario Betancourt (1982-1986).

La richiesta di dialogo da parte delle FARC va letta alla luce dei risultati ottenuti nei due mandati della presidenza Uribe, caratterizzati da una dura e sanguinosa lotta alla guerriglia, ed è quindi da interpretarsi come il sintomo della debolezza dell’organizzazione. In quanto ex ministro della Difesa, Santos è perfettamente consapevole di questa situazione, e la proposta di dialogo fatta durante il suo discorso inaugurale con le tre specifiche richieste mette in chiaro che una trattativa è possibile, ma alle condizioni di Bogotà e non delle FARC. Il governo colombiano si trova ora in una posizione di forza negoziale e Santos non vuole farsi scappare la possibilità di chiudere una partita durata troppo tempo e costata troppe risorse e vite umane.

Inoltre, secondo diversi analisti, le FARC non sono più il gruppo unito e compatto che aveva messo la Colombia a ferro e fuoco per decenni. L’organizzazione ha perso il suo “slancio rivoluzionario”, si è legata a doppio filo al narcotraffico per ottenere finanziamenti ed armi e ha perso l’appoggio della popolazione a causa dei sequestri e delle mine terrestri posizionate sulle strade. I sondaggi sono impietosi: oggi il 90% dei colombiani sono contrari alle FARC, e sono stanchi di anni ininterrotti di violenze e morte. Il 69% dei voti con cui è stato eletto il presidente Santos, e il 75% dei consensi con cui Uribe esce di scena, sono la prova che il popolo colombiano appoggia saldamente la politica del governo e si aspetta che il nuovo Capo di Stato continui su questa strada. Infine è assai dubbio anche il reale controllo di Cano sull’intera struttura delle FARC: molte unità della guerriglia sarebbero diventate veri e propri gruppi autonomi, non rispondendo più agli ordini della leadership e dedicandosi ad attività illecite per meri fini economici.

L’autobomba esplosa nella capitale colombiana è da interpretare, quindi, come il tentativo del narcoterrorismo di dimostrare che non ha perso le sue capacità operative, cercando di rendere meno svantaggiosa la propria posizione in un’eventuale trattativa. Santos ha dimostrato di comprendere questo momento, e le sue dichiarazioni immediatamente successive all’attentato mostrano il sangue freddo del nuovo presidente. “Il governo, quando riterrà che le circostanze saranno favorevoli – e ora non lo sono – aprirà le porte al dialogo”. Traducendo: non ci facciamo intimorire, se volete trattare deponete le armi. Una politica del bastone e della carota a cui Santos non è nuovo: una delle strategie più efficaci per battere i narcoterroristi è stata quella di accompagnare alla dura repressione militare dei benefici monetari per chi avesse abbandonato le armi. Grazie a questo sistema le organizzazioni armate hanno subito un’inarrestabile emorragia di personale, vedendo drasticamente ridotta la loro forza militare.

Durante la campagna elettorale Santos ha promesso la creazione di posti di lavoro, il miglioramento delle condizioni di vita dei colombiani, e una solida crescita economica. Anche se la precedente amministrazione lascia in eredità una situazione economica positiva, con un PIL in crescita di oltre il 4% nel 2010 e miliardi di dollari di investimenti stranieri che si stanno riversando in Colombia, soprattutto dagli Stati Uniti, il nuovo presidente sa che la strada della crescita economica passa inevitabilmente attraverso la definitiva stabilizazzione politica, che la fine del conflitto colombiano porterebbe un indubbio beneficio economico al Paese, e che mai come ora vi è la concreta possibilità di porre fine a questo sanguinoso periodo.

Conclusioni

L’elezione di Santos alla presidenza della Colombia è stata interpretata come l’ascesa di un “falco” che avrebbe infiammato la politica sudamericana, in particolare nelle relazioni con Venezuela ed Ecuador. Il neo-presidente invece ha riallacciato i rapporti con Caracas, incontrandosi con Chavez, e ha notevolmente migliorato le relazioni con Quito, invitando alla cerimonia di insediamento il presidente ecuadoregno, Rafael Correa, e consegnando alle forze di sicurezza del Paese vicino i computer sequestrati alle FARC durante l’Operazione Fenix.

Gli analisti si aspettavano che il nuovo Capo di Stato avrebbe cercato di debellare definitivamente la guerriglia attraverso la forza militare, portando la lotta al narcoterrorismo ad un livello di violenza ancora più elevato di quello già visto in questi anni. Santos ha invece pronunciato parole di ferma apertura nel suo primo discorso alla Nazione, ventilando la possiblità di dialogo con i gruppi armati, ma alle condizioni imposte dal governo.

Gli esperti della politica colombiana vedevano nell’ex ministo della Difesa il delfino di Uribe, che avrebbe portato avanti in maniera rigorosa la politica della precedente amministrazione, e la presenza dell’ex presidente alla cerimonia di insediamento (una vera e propria rottura del protocollo voluta dallo stesso Santos) era il simbolo di questa continuità. E invece il nuovo presidente ha stupito tutti prendendo lentamente le distanze da alcune scelte fatte dal suo predecessore, soprattutto negli ultimi giorni della sua presidenza, e nominando suoi collaboratori alcune delle personalità che avevano mostrato disaccordo con le politiche di Uribe, dimostrando in questo modo originalità politica ed autonomia decisionale.

Tuttavia ancora molti elementi della politica colombiana devono essere ancora chiariti da Santos, in primis il rapporto con gli Stati Uniti, con i quali la Colombia gode di una special relationship a livello sudamericano. Da Washington bisognerà attendere il segnale verde prima di intavolare qualsiasi trattavia con narcos, guerriglieri e terroristi, anche in virtù degli accordi in materia militare, commerciale e giudiziaria firmati tra i due Paesi, come ad esempio quello sull’estradizione di trafficanti dalla Colombia agli USA.

La nuova presidenza colombiana potrebbe essere una sorpresa per tutti. Se questa linea politica dovesse essere mantenuta potrebbe portare ad una distensione del clima politico nel Cono Sud, dando nuovo impulso alla collaborazione tra Paesi latinoamericani e favorendo lo sviluppo economico e politico di tutta la regione. A prescindere da come verrà vinta, con le armi o con il dialogo, la guerra contro il narcoterrorismo è a un passo dalla fine, ed è un risultato storico che potrebbe essere raggiunto da questa amministrazione. In attesa di vedere se effettivamente sarà così, non si può che fare il tifo per questo nuovo orientamento positivo della politica colombiana e sudamericana.

* Carlo Cauti è laureando in Relazioni Internazionali (Università di Roma LUISS G. Carli)

Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autore e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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Il disgelo sino-giapponese

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Nel suo “The Geographical Pivot of History” del 1904, Sir Halford Mackinder teorizzò la presenza sul globo terrestre della pivot area, riferendosi in particolare al blocco eurasiatico, e spiegando che chi avesse conquistato quella fetta di dominio globale sarebbe riuscito a esercitare il potere sul resto del mondo. Nel suo saggio conferì una certa importanza anche alla Cina, nell’affermare che attraverso la costruzione di una politica di potenza tale Stato avrebbe potuto fungere da contrappeso allo strapotere euroasiatico. A più di un secolo di distanza, l’analisi di uno dei padri della geopolitica prende sempre più forma: la Cina, in queste ultime settimane, ha raggiunto il secondo posto nella classifica mondiale dei paesi più ricchi, dimostrando di essere una grande potenza non solo in campo finanziario ed economico, ma anche diplomatico e politico. A discapito di chi vorrebbe sfatare questo mito, considerando l’ingente numero di abitanti cinesi e le reali condizioni del paese, è necessario prestare attenzione allo scacchiere geopolitico asiatico, per notare quali siano i mutamenti nelle sfere di influenza. Il grande sconfitto è il Giappone, che slitta al terzo posto tra le economie mondiali e risente del pressing esercitato da parte degli Stati Uniti d’America, i quali continuano a voler usufruire dell’alleanza con il paese del Sol Levante come trampolino di lancio sull’intera regione. Il governo di Hatoyama si è dimesso il 2 giugno anche per via della questione della base militare statunitense stanziata ad Okinawa, divenuta ormai impopolare, mentre poco dopo l’attuale premier Naoto Kan, durante il vertice del G8 in Canada, avrebbe affermato di fronte ai grandi della terra di voler al prossimo tavolo delle trattative anche la Cina. Nonostante quest’ultima informazione non sia stata confermata da voci ufficiali, la tendenza ad un avvicinamento tra Cina e Giappone sempre più consolidato nel tempo lascia presagire la nascita di nuove alleanze e un’inversione di tendenza dei flussi finanziari e commerciali mondiali.


La Guerra Fredda tra Cina e Giappone

I rapporti politico-diplomatici sino-giapponesi sono stati fortemente segnati da episodi che, storicamente, hanno incrinato il già precario balance of power regionale. Gli scambi bilaterali tra i due paesi hanno tuttavia condotto a risultati positivi in vari settori, in particolare nello sviluppo e nella cooperazione. Giappone e Cina sono entrambi importanti interlocutori commerciali della controparte, e quest’ultima è ormai il secondo maggiore mercato per il Giappone. Il deterioramento delle relazioni bilaterali tra Tokyo e Pechino, avvenuto durante la Guerra Fredda e protrattosi negli anni successivi, non è dipeso solo da questioni storiche e dalla querelle su alcuni episodi che hanno coinvolto entrambi gli Stati, ma si è palesato con riguardo ad alcune istanze che potrebbero ben costituire un casus belli. Una di esse riguarda lo status dell’isola di Taiwan: la Cina non è contraria alla concessione di visti e ai flussi migratori con il Giappone, ma si oppone fortemente affinché non ci siano scambi ufficiali, e chiede a Tokyo di non includere Taiwan nel piano di sicurezza comune al quale lavora con gli Stati Uniti. L’arcipelago delle isole Diaoyu, situato nel Mar cinese orientale e appartenente fin dall’antichità alla Cina, che ne controlla anche le acque circostanti, rappresenta un’ulteriore questione spinosa. Tutto ciò ben si collega con la crescente preoccupazione cinese riguardante la forza militare giapponese.


Il Giappone oggi

Durante la Guerra Fredda, il Giappone si è reso promulgatore di una visione d’insieme che ha aiutato il paese ad uscire fuori da una crisi a tratti ingovernabile, dopo la sconfitta della seconda guerra mondiale che fu solo apparentemente militare. Ha inoltre cercato di entrare nell’orbita occidentale, conquistando un primato dal punto di vista monetario. Tuttavia, nonostante il rilancio effettivo del paese, ad oggi Tokyo non possiede una filosofia in grado di imprimere un nuovo indirizzo ed una nuova visione politica, culturale e sociale utile a risollevare le sorti di un paese impegnato a superare il difficile impasse della crisi finanziaria. L’attuale classe dirigente giapponese si trova a fronteggiare dinamiche che sembrano aver impresso al paese una pericolosa inversione di tendenza: l’invecchiamento della popolazione, l’impatto della globalizzazione e il tentativo di confrontarsi con una politica estera più stabile e sicura, hanno creato un vuoto di potere nient’affatto irrisorio, nonché una forte perdita di consenso da parte della popolazione. La crisi d’identità interna allo Stato di certo non giova alla sua competitività con il resto del mondo industrializzato, e anzi rallenta la soluzione ai problemi. Sebbene le capacità militari giapponesi siano considerevoli, anche più di quanto l’Occidente riesca a stimare, il suo bilancio per la difesa ha subito forti tagli negli ultimi anni.

L’economia giapponese è in controtendenza: nonostante abbia ricevuto un rallentamento, dopo un periodo in cui non sembrava vacillare, lo yen tende a rafforzarsi. La moneta giapponese è considerata internazionalmente una valuta rifugio in un contesto di incertezza che ancora aleggia sulla ripresa globale. Il quotidiano Nikkei ha riferito che la Dieta giapponese richiederà il prossimo 7 settembre al governo di attuare una politica monetaria espansiva, attraverso un intervento pubblico sui cambi che Tokyo non applica dal 2004, il quale dovrebbe essere utile anche per evitare una ricaduta nella recessione.


L’orizzonte asiatico all’ombra cinese

La struttura economica dei paesi dell’Asia dell’est dovrebbe puntare all’integrazione e al rafforzamento dei rapporti tra i singoli Stati. Nel tempo si sono susseguite diverse iniziative finanziarie: ad esempio, l’accordo commerciale tra la Cina e i paesi dell’ASEAN, firmato all’inizio del 2010, il quale, tuttavia, non potrà determinare da solo il prossimo corso economico regionale.

La crisi economica iniziata nel 2008 ha aiutato l’Asia ad imporsi nell’economia globale. I paesi asiatici emergenti (Cina, India, Indonesia, Malesia, Tailandia, Vietnam, Filippine) sono in testa alla ripresa dalla depressione, che ha impresso nel PIL un calo fortissimo.

La crisi attuale ha dimostrato quanto sia stratificato il contesto asiatico, ma anche il fatto che il mondo non può più dipendere dai consumatori americani che acquistano i prodotti asiatici. La sfida più grande per l’Asia è espandere la domanda all’interno della regione così da aiutare le fluttuazioni dell’economia globale. L’integrazione economica gioca un ruolo primario in questo caso: la Cina, dal canto suo, si sta imponendo sempre di più nell’orizzonte economico regionale, proponendosi come nuovo snodo nevralgico, stringendo accordi economici, ma soprattutto attraverso la diaspora della sua popolazione presente massicciamente in Africa, America Latina ed Europa.

A seguito di questi cambiamenti, il Giappone non può trascurare ulteriormente il suo ruolo di grande potenza regionale. La spesa militare cinese raddoppia annualmente, e la modernizzazione del suo arsenale è decisamente orientata all’estensione del proprio potere e della propria influenza. Il Giappone guarda alla crescita di tale forza con attenzione e con ansia per il controllo sul Mare cinese orientale, continuando a tessere relazioni diplomatiche con la Cina, e dando una risposta chiara agli Stati Uniti, dai quali continua ad allontanarsi dopo la questione di Okinawa. D’altro canto, rimane trincerato dietro la forza della sua moneta, e non può permettersi di cedere ulteriormente il passo alla valanga cinese.

L’economia globale potrebbe tornare a manifestare una tendenza positiva grazie agli accordi stipulati tra i tre grandi della finanza mondiale, ma per fare ciò il Giappone dovrebbe applicare una strategia economica maggiormente liberista. La Cina, dal canto suo, potrebbe giocare un ruolo determinante attraverso la liberalizzazione degli investimenti e dei prodotti di cui è previsto l’aumento della domanda da parte delle classi medie. Pechino, tuttavia, non agisce sul sistema dei cambi, e c’è chi ha ancora delle remore sulla sua forza e sulla sua stabilità economica per via del numero di abitanti e per l’economia sommersa.

L’equilibrio di potenza, non solo globale ma anche regionale, sta dunque cambiando radicalmente, e il Giappone ha un ruolo strategico determinante su entrambi i livelli. Pechino e Tokyo debbono far svanire la tensione nel Mar cinese orientale, senza dimenticare lo sguardo attento degli Stati Uniti.


* Alessia Chiriatti è dottoressa in Sistemi di comunicazione delle relazioni internazionali (Università per stranieri di Perugia)


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Dall’unipolarità alla multipolarità

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La geopolitica (scienza maledetta sin dalla II Guerra Mondiale), rinasce a partire dagli anni settanta, quando la politica internazionale si trasforma dal modello che si fondava nello scontro ideologico (capitalismo versus comunismo), poiché in quegli anni gli USA stabiliscono buoni rapporti con la Cina comunista di Mao, a quello in cui si dà inizio a una nuova fase nella geopolitica moderna. Ma fondamentalmente è a partire dallo schieramento capeggiato dagli USA contro l’ex URSS che la geopolitica si dispiega con tutta la sua potenzialità, trasformando gli Stati Uniti nella prima repubblica imperiale moderna e anche nell’iperpotenza militare che impone la globalizzazione per raggiungere il controllo planetario; per questa ragione uno dei suoi più dotati geopolitici, Henry Kissinger, affermò che “in realtà, la globalizzazione è un altro nome con il quale si esercita il ruolo dominante degli Stati Uniti”.

Quest’idea di controllo planetario, come più volte ribadito, si affida sull’appoggio mitico del destino manifesto dai dirigenti americani e dalle grandi corporazioni che integrano il modello, e che cerca di piegare la resistenza sollevata da regioni e stati nazionali per imporre un controllo all’espansione del modello economico capitalista neoliberale. Il modello che si è voluto fornire è un sistema di espansione economico vulnerabile che deve essere protetto militarmente nelle sue infrastrutture. Questo modello ha fornito un sistema militarmente unipolare (gli USA come grande potenza), e culturalmente ed economicamente multipolare (USA, UE, Giappone) che è riuscito a dividere in due correnti l’America latina, soprattutto a seguito dell’attuazione della globalizzazione asimmetrica. Anche se fondamentalmente trova sempre maggiore resistenza nel cuore del continente asiatico e, nonostante l’immenso sforzo messo in pratica dall’iperpotenza per imporsi totalmente, dopo una decade questo modello non ha avuto successo e ciò sta creandogli nuove sfide e condizioni che mettono in crisi quella politica dal destino manifesto.

Dopo il sistema bipolare (dal 1945 al 1991), è iniziata una nuova era geopolitica, quella del “momento unipolare”, nella quale gli Stati Uniti rappresentavano “l’iperpotenza” (“hyperpuissance”, secondo la definizione del ministro francese Hubert Védrine).

Ad ogni modo, il nuovo sistema unipolare avrebbe avuto una vita breve e si è esaurito agli inizi del secolo XXI, quando la Russia ricompare come sfidante strategica nelle faccende globali e, allo stesso tempo, Cina e India, i due giganti asiatici, si affacciano come potenze economiche e strategiche. A livello globale, dobbiamo anche prendere in considerazione il peso crescente rappresentato da alcune nazioni dell’America latina, come il Brasile, l’Argentina e il Venezuela. Gli importanti rapporti che intrattengono questi paesi con la Cina, la Russia e l’Iran, sembrano acquisire valore strategico e prefigurano un nuovo sistema multipolare, i cui principali pilastri si possono considerare costituiti da Eurasia e dall’America latina sudamericana.

Ma stiamo vivendo anche un nuovo momento in cui la supremazia imposta dal cosiddetto mondo occidentale sin dalla rivoluzione industriale, cessa di rappresentare l’asse portante dello sviluppo e della cultura del mondo moderno per ridefinirsi in nuovi equilibri con paesi e culture molto diversi da quelli dominati negli ultimi duecento anni (e che concerne anche la nostra storia, soprattutto adesso che stiamo festeggiando il Bicentenario).

Il grande cambiamento s’imposta in rapporto alla partecipazione e allo sviluppo dell’Asia, in particolar modo di Cina, India e Russia, i quali rispettivamente sono passati ad avere un PIL pro capite da 419 a 6800 dollari, 16 volte in più, da 643 a 3500 dollari, 5 volte in più, in Russia si è arrivati a 13173 e in Brasile si è passati da 3744 a 9080, quasi tre volte in più. Il potere economico tendenzialmente va accompagnato verso la regionalizzazione, il che rende più dinamici e danno maggiore potere agli emergenti che capeggiano questi processi. Gli scambi interregionali si accelerano e si attivano in Asia Orientale, passando negli ultimi anni da un 40% a un 60%, lo stesso sta accadendo con l’aumento delle possibilità di sviluppo nella regione sudamericana, di là dalle asimmetrie esistenti, come nel caso del Mercosur.

Autorevoli analisti economici prevedono che, nonostante la crisi mondiale e se questa non produce maggiori danni di quelli che ha prodotto fino a ora, nella cosiddetta triade (USA, UE, Giappone), la partecipazione nel prodotto lordo mondiale da parte delle regioni emergenti sarà nel periodo 2020-2025 di circa il 60%, spettandogli all’Asia il 45% di questo incremento.

Questo aumento della potenzialità economica e dello sviluppo sarà accompagnato da una maggiore autonomia politica.

Per questa ragione, il secolo XXI si caratterizzerà come un secolo decentralizzato e con molte zone di potere decisionale.

Questa realtà la nascosero molti studiosi di rapporti esteri, perché “occidentali”. E ancora adesso continuano a confondere i nostri popoli con informazione falsa, mediante i mezzi di comunicazione che sono proprietà di quel sistema di alleanze. L’iperpotenza americana deve negoziare con attori che prima non prendeva in considerazione o al massimo li considerava marginalmente. E questo non è poco.

Ricordiamo che questa dinamica del nuovo ordine in gestazione la stiamo sostenendo sin dall’anno 2001, e quelli che hanno partecipato nelle nostre conferenze, riunioni e seminari possono confermare ciò.

Con una globalizzazione severamente aggravata dall’unilateralismo degli Stati Uniti, nel 2001 sostenevamo una divisione del mondo schematicamente diviso in 4 livelli:

  1. Livello superiore. Supremazia assoluta (o quasi) degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si trovano solo l’Unione Europea e il Giappone.
  3. Livello di resistenza. Lì stanno la Cina, l’India e la Russia, le quali posseggono la capacità di limitare l’interferenza della globalizzazione nel loro territorio. Vale a dire, hanno autodeterminazione interna, ma molto limitata autodeterminazione esterna.
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Dopo il 1991 non c’è stato nessun altro tipo di negoziati tra le “potenze vittoriose”, come accadde alla fine della II Guerra Mondiale. Neanche ci fu “accordo di pace”, i nuovi rapporti politici ed economici sanciti tra le grandi potenze – e tra queste e il resto del mondo- da allora si stanno definendo in forma lenta, conflittuale, basati nel “caso per caso”. Gli Stati Uniti continuarono ad applicare le tesi Nicolas Spykman, per controllare ciò che lui definì il Rimland – principale oggetto della strategia per il governo mondiale -, il quale è pensato per il controllo dell’Europa occidentale, Medio Oriente, la Penisola arabica, Iran, Turchia, India e Pakistan, il Sudest asiatico, parte della Cina, Corea, Giappone e la parte costiera della Russia orientale. E, all’interno di questo quadro di controllo geopolitico “ha luogo” l’11 settembre (attentato alle torri gemelle), per mezzo del quale gli USA portano avanti la denominata “guerra infinita” contro i paesi che unilateralmente dichiara “Stati canaglia” con il suo famoso “asse del male” e con questa giustificazione mette in moto la parte finale del processo di dominio planetario che i suoi ideologi ed esecutori militari avevano pianificato sin dalla caduta dell’URSS (si vedano i documenti americani di Santa Fe per capire meglio questo modello).

Quello che in realtà si volle imporre fu una versione aggiornata del vecchio modello globalizzatore della rivoluzione industriale della fine del secolo XIX, nel quale il mondo si divise in centri dominanti (paesi sviluppati) e periferici (colonie dipendenti).

Ma il progetto non poté rendersi del tutto operativo nella sua totalità e la grande notizia è che l’attuale mutazione sta mettendo fine a una struttura storica di quasi duecento anni di dominazione da parte dell’occidente e con essa non è in crisi il modello capitalista, bensì tutto il sistema munito di strutture e di organizzazioni che si sono imposte dopo il trionfo degli USA nella II Guerra Mondiale (ONU, FMI, BM, OSA nel nostro caso specificamente latinoamericano, ecc.)

Attualmente, il sistema mondo 2010 si sta ridefinendo nella seguente maniera:

  1. Livello superiore. Supremazia non più assoluta degli USA.
  2. Livello a elevata autodeterminazione, dove si collocano l’Unione Europea, il Giappone, la Cina e la Russia.
  3. Livello di resistenza. In esso si collocano l’India, il Sudafrica e il Brasile (che cerca di irrobustire tutto un suo sistema regionale del quale l’Argentina rappresenta il nucleo forte dell’integrazione con strutture come: Gruppo di Rio, Mercosur, UNASUR, Consiglio di Difesa Sudamericano, Banco del Sud, ecc.), le quali consentono di avere una capacità di limitazione dell’interferenza globalizzatrice nel proprio territorio. Vale la pena ricordare che il livello di resistenza significa: autodeterminazione interna e con limitata autodeterminazione esterna).
  4. Livello di dipendenza. Tutti gli altri paesi.

Queste sono le tendenze geopolitiche del 2010, il come si definirà questo modello di sistema mondo lo vedremo tra qualche anno, il grande dubbio che rimane in sospeso è se gli attuali detentori dell’egemonia militare non tenteranno d’imporre il loro modello di controllo planetario di tipo bellico, perché se così fosse, l’umanità starebbe sull’orlo dell’estinzione in un olocausto nucleare.

I grandi mutamenti sono un’enorme sfida che devono affrontare gli attori politici e sociali d’America e, in particolar modo, quelli del nostro paese che si trovano davanti a un’alternativa molto forte, perché da questi esigono un livello di cooperazione pressante per evitare il trionfo dell’irrazionalità. Evidenziando che queste nuove circostanze danno al nostro continente la possibilità, vera e concreta, di ridefinire il nostro ruolo a livello globale e di non partecipare nuovamente come invitati di pietra nel ridisegnare il mondo, giacché siamo alla presenza di un mondo che racchiuderà molti centri di potere e la logica ci dovrebbe obbligare a pensare in grande, cioè in termini di regione e di continente per uscire dallo stadio di dipendenza periferica che ci aveva assegnato il sistema di globalizzazione avviato dagli USA. Dobbiamo ricordare, come lo abbiamo più volte detto, che il mondo che abbiamo conosciuto negli ultimi duecento anni si sta modificando nelle sue strutture basiche, paradigmi e miti, tanto nazionali, regionali e continentali, e ciò ci richiede una nuova insubordinazione che getti le fondamenta in questo Bicentenario.

Testo presentato alla Conferenza del III Seminario di Geopolitica organizzato dal Settore Cultura della Provincia di Córdoba il 12 agosto 2010.

Fonti:

La Insoburdinación Fundante, del Dott. Marcelo Gullo.

Le monde Diplomatique, edición latinoamericana.

Rivista EURASIA, del Dott. Tiberio Graziani.

Pensamiento de Ruptura, del Dott. Alberto Buela.

Diccionario Latinoamericano de geopolítica y Seguridad del Dott. Miguel Barrios y Carlos Pereyra Mele.

(trad di V. Paglione)

http://licpereyramele.blogspot.com/

* Carlos Pereyra Mele, politologo argentino e membro del Centro de Estudios Estratégicos Suramericanos, collabora con la rivista “Eurasia”.

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La cooperazione internazionale e la sicurezza energetica 



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La stabilità delle relazioni e della cooperazione globale con i paesi esterni all’Unione europea è una delle priorità strategiche della politica estera russa. Tradizionalmente, la Russia si sviluppa e rafforza i legami economici, scientifici e culturali con i paesi del Sud Europa. Oggi è necessario cercare soluzioni comuni volte a superare la crisi finanziaria globale che minaccia il benessere di tutti i popoli del continente europeo. 
Secondo il FMI, nel 1980 il debito complessivo del Gruppo dei Sette era del 40% del loro PIL totale. In vent’anni, il debito è salito al 65% del PIL. Dal 2008, quando ha cominciato a mostrare segni di una crisi sistemica del sistema finanziario globale, il processo di aumento del debito pubblico è aumentato in modo significativo. Gli esperti stimano che quest’anno il debito raggiungerà il 100%, ed entro il 2014 raggiungerà il 110%. 
È chiaro il motivo principale: il segmento virtuale, speculativo del sistema finanziario globale ha raggiunto un livello tale che è diventato possibile, in termini di valori immaginari, determinare la ridistribuzione di tutti i tipi di risorse mondiali. In questo caso l’economia nazionale è intrappolata in una pericolosa servitù per debiti, e su alcuni paesi dell’Europa meridionale incombe il grave pericolo del fallimento. 
Il metodo per uscire dalla crisi consiste nel limitare le possibilità di sostituzione dell’economia reale e le sue risorse finanziarie, fornire tutti i generi di sostituti, ricerca di possibilità di utilizzo razionale e vantaggioso di risorse naturali insostituibili, partecipazione a progetti internazionali che sono il miglior modo per impegnare il potenziale intellettuale, tecnologico e industriale della comunità internazionale. Tale approccio, che è la base per la creazione di relazioni economiche eque, auspica la nascita di un vero multipolarismo geopolitico. 
Il luogo e il ruolo della Russia nell’economia globale e la sua influenza sui processi politici del mondo sono in gran parte determinati dalla sua energia e materie prime. 
La Russia cerca di creare un sistema internazionale stabile di Paesi consumatori, di Paesi produttori e di Paesi in cui vige il transito delle risorse energetiche, il che esclude la possibilità di conflitti per le fonti ed il trasporto delle risorse energetiche e il superamento della “povertà energetica”. 
Lo sviluppo di partenariati tra tutti i soggetti interessati è l’unico modo possibile per rafforzare la sicurezza globale dell’energia nel contesto di una crescente interdipendenza tra Paesi produttori, Paesi che forniscono energia di transito e Paesi consumatori. 
Nel corso di questa interazione a lungo termine ci sono non solo problemi economici che devono essere risolti. C’è il bisogno di lavorare nel campo della tutela ambientale, ad alta tecnologia, per sviluppare la cooperazione nel settore coinvolgendo l’opinione pubblica mondiale con informazioni obiettive sui problemi della sicurezza energetica. 
Oggi i bisogni energetici di base per l’economia globale sono petrolio e gas naturale. L’economia mondiale assiste a una separazione netta tra popolazione e indicatori energetici-economici, da un lato, ed i livelli di sicurezza delle risorse, dall’altro. Dal momento che gli Stati Uniti consumano circa un quarto delle risorse energetiche del mondo, con solo il 3-4% di riserve provate di petrolio e gas naturale e l’Europa occidentale detiene il 20% del consumo mondiale di energia ed ha solo il 4-7% di riserve di petrolio e gas. Tra gli Stati altamente industrializzati il Giappone è praticamente senza risorse energetiche indigene. Secondo l’Agenzia internazionale dell’energia (AIE), il fabbisogno d’energia nel mondo entro il 2030 crescerà del 50-60%. Secondo l’AIE, nel 2020, gas e petrolio costituiranno i combustibili più importanti per i Paesi industrializzati. 
Nonostante gli sforzi per sviluppare e applicare tecnologie di risparmio energetico e nell’utilizzo di fonti alternative di energia, i combustibili idrocarburi nel prossimo futuro costituiranno ancora la base del bilancio energetico. La concorrenza per l’accesso alle riserve di energia primaria ed il loro controllo aumenterà ulteriormente. Non ridurranno il loro fabbisogno energetico gli Stati Uniti e i Paesi europei ed è in costante aumento il consumo di energia dei Paesi in pieno sviluppo dinamico economico come Cina e India. Crisi politiche e conflitti armati in varie parti del globo sono spesso le manifestazioni visibili della lotta palese e occulta per il controllo delle fonti di materie prime. 
La Russia si esprime sempre per una soluzione pacifica e per il dialogo energetico aperto e onesto con i suoi partner e, soprattutto, con i Paesi europei. 
La Russia ha riserve significative di risorse naturali, comprese quelle energetiche. Un Paese con meno del 3% della popolazione mondiale, detiene circa il 13% delle riserve accertate di petrolio del mondo, il 34% delle riserve di gas naturale, circa il 20% delle riserve accertate di carbone e il 32% delle riserve di carbone marrone e il 14% delle riserve di uranio. 
Con la sua politica energetica costante e stabile la Russia confuta i miti della “espansione energetica” e del “ricatto energetico”. Ma, naturalmente, il Paese ha una propria idea di sicurezza energetica, la propria strategia energetica. 
Una delle priorità principali della Russia è stata di garantire il fabbisogno energetico della crescente domanda interna, che nel suo complesso nel 2030 si prevede avrà un aumento superiore di 1,6 volte. L’esportazione di energia deve diventare più razionale. Entro il 2020 si prevede di stabilizzare le vendite al livello di 1000 milioni di tonnellate di carburante. Pur continuando a diversificare la composizione merceologica delle esportazioni e la direzione del suo approvvigionamento, la Russia cercherà di essere in grado di commercializzare prodotti a più alto valore aggiunto, nonché di promuovere le proprie tecnologie nel settore dell’energia, del risparmio energetico, il trasporto di energia e il trattamento degli idrocarburi. 
Il principio fondamentale della strategia energetica è stabile e prevedibile. I nostri partner tradizionali devono essere sicuri che tutti i contratti sottoscritti sono chiari e sono garantiti nell’esecuzione. 
Con il suo vasto territorio che occupa una posizione strategica in Eurasia, la Russia è consapevole della propria responsabilità per lo sviluppo e la produzione affidabile di energia e di infrastrutture di trasporto tra i consumatori e i produttori di energia. Un’altra priorità è la stabilità e prevedibilità nel mercato energetico globale. 
Per rispettare incondizionatamente i suoi obblighi internazionali, la Russia ha bisogno di risolvere coerentemente i problemi di efficienza energetica in tutti i settori dell’economia russa. Oggettivamente è complicato per il problema delle condizioni climatiche estreme. Sono indispensabili l’alta tecnologia e l’esperienza dei Paesi più sviluppati. Gli esperti stimano che l’applicazione combinata di energia organizzativa e tecnologica e misure di risparmio potrebbe ridurre il consumo energetico di 420 milioni di tonnellate di combustibile all’anno. 

Al summit tra Russia e Unione europea sono stati definiti i principi di applicazione pratica di una partnership strategica nel settore energetico. La cooperazione si sta sviluppando in quattro aree fondamentali: il commercio di energia, gli investimenti, le infrastrutture energetiche e di sicurezza energetica. 
Le esportazioni di energia dalla Russia verso l’Europa aumenteranno. Nel mercato del petrolio europeo agli inizi del secolo ventunesimo, la quota della Russia si è attestata intorno al 18-20%, mentre la quota di gas russo è del 35-40%. È in atto una tendenza, da parte del gas, ad assumere una posizione dominante nel bilancio energetico. Negli ultimi 30 anni, la quota del gas naturale nel consumo complessivo di energia dell’UE è cresciuta di circa 2 volte. 
Gli esperti ritengono che entro il 2020 l’UE dovrà importare l’80% del totale degli impieghi di gas naturale. Ciò è dovuto principalmente al depauperamento delle riserve di gas nel Mare del Nord. Le previsioni degli esperti dell’Unione europea e degli Stati Uniti stimano l’inevitabile aumento del consumo di gas russo, perché la Russia possiede un terzo di tutte le riserve mondiali. 
Attualmente, il problema degli approvvigionamenti di gas dell’Unione europea sembra essere piuttosto complicato. Circa l’80% del gas russo passa attraverso l’Ucraina, che ha più volte creato complessità e situazioni di conflitto. 
Di conseguenza, al fine di ridurre i rischi e gli obblighi di partner stranieri, il governo russo e Gazprom hanno deciso di trovare un’alternativa al trasporto del gas in Europa. 
I progetti del South Stream e del Nord Stream – non sono solo un mezzo per raggiungere la sicurezza energetica, ma anche un vero e proprio strumento per l’integrazione economica eurasiatica. La diversificazione delle vie di trasporto, l’inclusione degli Stati europei contribuiranno a superare la crisi dell’economia, avranno un impatto positivo sul processo di integrazione europea, e quindi rafforzeranno lo sviluppo economico regionale. 
Forse a qualcuno questo non piace. Infatti vengono diffuse informazioni distorte sulla presunta dipendenza dall’energia russa pericolosa per gli europei. Intanto, oggi non c’è alternativa economicamente fattibile per la cooperazione russo-europea nel settore dell’energia. 
Così, l’Italia ha confermato la sua partecipazione al progetto “South Stream”. Secondo i leader italiani, “South Stream” rispetto al progetto Nabucco ha vantaggi evidenti. 
L’Italia sostiene il progetto di gasdotto “South Stream” e si oppone al progetto Nabucco, ha detto il ministro degli Affari Esteri italiano Franco Frattini nella sua intervista al quotidiano torinese La Stampa nel mese di agosto 2009. Egli ha sottolineato che nella sua decisione il paese e’ governato dai propri interessi, così come quelli di altri paesi europei. 
”Siamo contro Nabucco. Partecipiamo al gasdotto “South Stream”, che verrà dalla Turchia in Italia attraverso la Grecia, perché ha il gas, o lo avrà nel vicino futuro. Nabucco invece per poter funzionare dovrebbe avere il gaz azerbajgiano, che non ha ancora, oppure il gas iraniano, che ora è un problema”, ha sottolineato il capo del Ministero degli Affari Esteri. 
Inoltre, Frattini ha negato le accuse di crescente dipendenza dal gas russo. Questa linea è stata confermata dal Ministro dello sviluppo economico d’Italia, Claudio Scajola, interrogato a proposito della proposta di ridurre la fornitura di gas russo e di aumentare le importazioni da Algeria e Libia. 
”La dipendenza energetica d’Italia nei confronti della Russia è molto più piccola rispetto alla dipendenza di altri Paesi. Noi dipendiamo al 30% dalla Russia e il resto lo otteniamo da Libia, Algeria e dal Golfo. Siamo tra i Paesi europei, quello con le importazioni più diversificate, molto più di Germania e Polonia”, ha detto il ministro. Tuttavia, nonostante tali dichiarazioni ottimistiche, la situazione attorno al “South Stream” al momento non è univoca. Il buon andamento del progetto richiederà un grande sforzo da parte di tutti coloro che sono interessati alla sua attuazione. Ovviamente, la partecipazione al progetto permetterà all’Italia e ad altri Paesi europei non solo di accedere alle fonti energetiche, ma si prevedono più commesse per gli imprenditori italiani, l’espansione della cooperazione reciprocamente vantaggiosa con la Russia, non solo nell’energia, ma anche nelle industrie collegate.

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