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Le cause geopolitiche dei recenti scontri etnici in Kirghizistan

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Gli scontri avvenuti in Kirghizistan qualche settimana fa hanno polarizzato l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sul piccolo Paese centroasiatico. L’attenzione dei media internazionali si è tuttavia concentrata prevalentemente sulle motivazioni, pur importanti, legate agli scontri interetnici tra uzbechi e kirghizi. In questo articolo si intende invece attrarre l’attenzione del lettore prevalentemente sul contesto geopolitico internazionale che ha, con tutta probabilità, influito in maniera significativa sugli scontri interetnici.

Vista l’importanza degli interessi in gioco nell’area è molto probabile, ma finora non oggettivamente comprovato, che gli scontri tra uzbechi e kirghizi avvenuti alcune settimane fa abbiano avuto una matrice non soltanto endogena, ma anche almeno in parte esogena dettata dagli interessi geopolitici dei Paesi più influenti della regione. E’ così evidente che gli interessi delle maggiori potenze dell’area hanno opportunisticamente acuito le già forti rivalità claniche ed etniche interne al Paese per raggiungere i propri obiettivi strategici.

Il Kirghizistan occupa una posizione geopolitica strategica grazie alla sua posizione geografica: è confinante con la Cina che vuole fare sentire la sua presenza nell’area, ma al tempo stesso non desidera una destabilizzazione della stessa a causa del timore che anche la sua regione occidentale di confine con il Kirghizistan,il Xinjang cinese, popolato da popolazioni turcofone ed islamiche, gli uiguri, possa esserne contagiata.

Il Kirghizistan è a sua volta importante dal punto di vista russo per ribadire il rinnovato interesse strategico di Mosca nei confronti dell’area centroasiatica e quindi l’essenziale contenimento di Cina e Stati Uniti che, nel corso degli ultimi decenni seguiti alla dissoluzione dell’Unione Sovietica, hanno promosso ed incoraggiato nell’area una serie di rivoluzioni democratiche “colorate” al fine di introdurvi la democrazia e contemporaneamente estromettervi la Russia. Nonostante l’indubbia oppressione politica durante l’epoca sovietica, in particolare durante l’epoca di Stalin che operò una sistematica propaganda ateista ed una scientifica frammentazione dei diversi gruppi etnici in repubbliche confinanti per poterli così controllare meglio secondo il noto principio del divide et impera, l’atteggiamento delle popolazioni centroasiatiche nei confronti dei russi non è generalmente ostile poiché durante l’epoca sovietica i russi hanno di fatto contribuito, nonostante la violenza esercitata a livello politico, al generale innalzamento del livello culturale e di vita delle popolazioni di quest’area. Così Mosca, sfruttando sia questo retaggio storico del passato sovietico, che attraverso la sua diretta presenza militare (e anche grazie alla sua parziale leadership, insieme alla Cina) nell’ambito dell’Organizzazione che prende il nome di SCO, ossia Shangai Cooperation Organization, può acquisire un ruolo progressivamente crescente in Asia Centrale che considera ancora zona di suo interesse privilegiato.

Il Kirghizistan è a sua volta importante per gli Stati Uniti sia come base militare per la guerra in l’Afghanistan che quale base logistica per il controllo della ricchezza energetica presente nell’area centroasiatica e caspita. La presenza statunitense in Kirghizistan si rivela quindi determinante per il controllo dell’area centro e sud-asiatica in cui si registra una forte crescita economica e quindi anche politica, in primis quella cinese che gli Stati Uniti tentano di contenere.

Infine, il Kirghizistan occupa un posto di rilievo anche per il contenimento dell’islamismo radicale proveniente soprattutto dall’Uzbekistan che ha delle ambizioni di potenza regionale nell’area centro-asiatica. Infatti, l’Uzbekistan è, tra le repubbliche dell’Asia Centrale, il Paese in cui è più radicata la presenza della tradizione islamica, come d’altronde testimoniano anche le splendide città di Bukhara e Samarcanda. Per questo motivo presso i governi dell’area esiste il ragionevole sospetto, ed anche il fondato timore, che all’interno dello Stato uzbeko alcune componenti politiche islamiche particolarmente radicali intendano esportare nella regione, per propri fini politici di destabilizzazione dell’area, un Islam militante che nuocerebbe gravemente alla stabilità dell’area, finora caratterizzata da una religiosità generalmente moderata e tollerante.

Proprio il timore del pericolo incombente rappresentato dal fondamentalismo islamico, rendono molto prudenti le maggiori potenze dell’area come Cina, Russia e Stati Uniti. Per motivi legati ai propri interessi geopolitici o alle concezioni politiche certamente non particolarmente liberali delle prime due, esse sono particolarmente caute nel promuovere la democrazia o perlomeno la transizione verso governi meno autoritari e corrotti rispetto a quelli che caratterizzano attualmente l’area in questione. Ciò, sul lungo periodo, non potrà però che facilitare la crescita del radicalismo islamico nella regione.


* Gregorio Baggiani attualmente si occupa d’un progetto di ricerca sulla guerra sovietico-afghana del 1979-89 presso la cattedra di Storia delle relazioni internazionali e dell’Europa Orientale all’Università Roma III. Svolge inoltre attività di ricerca e di analisi per le “Lettere Internazionali” de “Il Mulino”. Partecipa alle missioni di osservazione elettorale OSCE nell’area postsovietica per conto del Ministero degli Affari Esteri.

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Mosca, Berlino e la sicurezza in Europa

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Lo scorso 5 giugno il presidente russo Dimitri Medvedev ed il primo ministro tedesco Angela Merkel si sono incontrati nello splendido scenario del castello di Meseberg, 40 km a nord di Berlino, per una serie di discussioni bilaterali incentrate su un ampio ventaglio di temi politici ed economici. Si è discusso sia della questione del nucleare iraniano e delle possibili sanzioni contro Teheran sia dell’imminente riunione del G-8 senza dimenticare l’importante tema dei rapporti euro-russi con particolare attenzione alla questione dell’abolizione del regime dei visti e della sicurezza del Continente.

Proprio in materia di sicurezza europea i due statisti, sulla scia di un’idea russa elaborata nel 2008 hanno proposto, nel memorandum finale dell’incontro, la crezione di un nuovo comitato politico e di sicurezza. Comitato che, se realizzato, potrebbe avere delle ripercussioni geopolitiche importanti su tutta la politica mondiale.

Tuttavia, ci sembra che la sua creazione dipenda dallo scioglimento di molti nodi che attualmente si frappongono tra lo stato di cose presente e la realizzazione di questo ambizioso progetto.

Poiché la complessità che circonda il tema della sicurezza europea, e dei possibili modi con cui garantirla, è notevole, conviene muoversi con una buone dose di pragmatismo compiendo un passo alla volta al fine di disporre le tessere del mosaico nel modo corretto. Vediamo innanzitutto quali sono i punti salienti della proposta russo-tedesca.


I contenuti della proposta

L’idea contenuta nel memorandum delinea la possibilità di creare un nuovo Comitato composto dal capo della diplomazia europea (dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona la carica è ricoperta da Catherine Ashton) ed il ministro degli affari esteri russo (Sergej Lavrov).

Tale comitato, che nel memorandum viene definito con il nome di Comitato Politico e di Sicurezza Russia-UE, avrebbe il compito di:

– permettere uno scambio più agevole di opinioni e punti di vista sui maggiori temi politici e di sicurezza;

– sviluppare le linee guida per operazioni congiunte civili/militari;

– fare raccomandazioni sulle varie situazioni di crisi ed i conflitti alla cui risoluzione la Russia e l’UE stanno contribuendo all’interno delle varie cornici internazionali;

– mostrare celermente la propria utilità trovando una soluzione condivisa e duratura al conflitto congelato in Transnistria.

Al fine di mostrare che tipo di forma tale Comitato dovrebbe avere, Angela Merkel ha fatto notare che al momento a Bruxelles esiste già un comitato che si occupa di questioni legate alla sicurezza, ovvero il Comitato Politica e Sicurezza del Consiglio Europeo (CPS), e che esso potrebbe essere sviluppato al fine di permettere i contatti tra UE e Russia non solo a livello di ambasciatori ma pure di ministri degli esteri.

Il progetto russo-tedesco è senza ombra di dubbio molto interessante ed il fine che si pone, garantire maggior sicurezza agli uomini e alle donne che vivono nel grande spazio europeo, è non solo nobile ma soprattutto utile ad evitare che sorgano nuove fonti di tensioni o che quelle già presenti si protraggano all’infinito. Come è noto, le tensioni drenano molte risorse, risorse che potrebbero essere utilizzate in altri modi, ad esempio per finanziare la crescita economica ed il benessere dei cittadini.

Tuttavia, come ben sappiamo, la storia è piena di progetti politici interessanti che, per vari motivi, non sono mai stati implementati. Di conseguenza, in questa sede, non dovremmo domandarci solo se tale progetto sia utile ma se sia anche realizzabile. Sebbene l’utilità del progetto ci sembri fuori discussione, visto e considerato che l’architettura su cui si basa la sicurezza europea sembra sempre più obsoleta e scricchiolante, la sua realizzabilità dipende da tutta una serie di variabili indipendenti che potrebbero pregiudicarne la realizzazione. Queste variabili sono legate ai Paesi coinvolti, ai loro interessi nazionali ed alle loro rappresentazioni geopolitiche.

È tempo dunque di capire i motivi che hanno spinto, da un lato, la Russia e la Germania a proporre tale progetto e, dall’altro, di comprendere quali sono le reazioni degli interlocutori europei.


Mosca, Berlino, Bruxelles e la sicurezza in Europa tra equilibrismi e paure reciproche

Da molti anni gli esperti di politica europea si domandano se la politica estera dell’Unione debba essere considerata come la somma di 27 politiche estere differenti oppure se essa consista in qualcosa di più della somma delle singole parti. Ad oggi pare proprio impossibile mettere la parola fine a tale diatriba in quanto il processo di costruzione europea è un vero e proprio work in progess caratterizzato da una multi-level governance e per questo ci sembra saggio evitare di entare nel merito; tuttavia ci sembra innegabile che ogni qual volta si discuta di quale tipo di politica l’UE deve o dovrebbe tenere nei confronti dei vicini orientali, la Germania svolga un ruolo difficilmente sottovalutabile nel modellare le decisioni politiche al fine di metterle al passo con i propri interessi nazionali e con la propria rappresentazione geopolitica.

Dietro alla volontà tedesca di realizzare tale Comitato ci sembra di poter intravedere la consapevolezza che:

– essendo la Germania il Paese guida dell’Europa (è ormai chiaro a tutti che la Francia non può tenere il passo con Berlino) ha tutto l’interesse a trovare una soluzione credibile al problema della sicurezza del Continente, sicurezza che non può realizzarsi pienamente se la Russia continua ad essere esclusa e/o rilegata in posizione periferica;

– un’associazione strategica tra UE e Russia non può basarsi solo su materie economiche ma ha bisogno di essere inserita all’interno di un quadro politico-istituzionale;

– è necessario creare la stabilità e la fiducia necessaria a favorire il rafforzamento della relazione economica con la Russia, Paese che offre ai capitali tedeschi ed europei ottime opportunità di investimento ed un mercato molto grande;

– è irrinunciabile creare le condizioni necessarie all’implementazione di accordi volti a garantire la sicurezza degli approvigionamenti energetici in tutto il Continente che includano la Russia e non la scavalchino. Il progetto Nord Stream rappresenta un primo ed importante passo in tale direzione ma ve ne saranno probabilmente degli altri. Un banco di prova importante è la capacità di russi ed europei di trovare un accordo volto a modernizzare il sistema ucraino di trasporto del gas, la vera arteria energetica continentale d’Europa.

Per parte sua la Russia ha investito molte energie al fine di rafforzare la cooperazione con Berlino in quanto consapevole che la Germania rappresenta la chiave di volta della costruzione europea ed è il Paese che ha un ruolo centrale nel modellare le politiche europee verso i vicini orientali. Possiamo dunque affermare che le motivazioni che hanno spinto i russi a proporre la creazione del Comitato siano:

– la volontà di inserirsi a pieno titolo nel mantenimento della sicurezza europea accollandosi oneri ed onori e contibuendo, dal punto di vista di Mosca, a liberare l’Europa dalle divisioni imposte dalla guerra fredda e sopravvissute a quel periodo storico permettendo così alla Russia di dare il proprio contributo alla pace e alla sicurezza d’Europa;

– l’innalzamento del livello di sicurezza ai propri confini occidentali, confini su cui Mosca percepisce tutta una serie di minacce alla propria sicurezza nazionale;

– la volontà di liberare risorse politiche ed economiche da investire per: a)modernizzare il Paese; b) implementare politiche sociali che contrastino il problema del calo demografico; c) prestare più attenzione alle relazioni con la Cina, a partire dalla pressione demografica che questa pone sulle regioni scarsamente popolate dell’est della Russia. Se tale questione non viene affrontata per tempo ed in modo razionale rischia di avvelenare i rapporti tra Mosca e Pechino portandoli a percepirsi più come concorrenti che come interlocutori. All’interno del ceto militare e politico moscovita alcuni parlano già apertamente della Cina come maggior minaccia alla sicurezza della Russia. È chiaro dunque che bisogna agire in tempi rapidi per disinnescare una bomba che finirebbe con il danneggiare entrambi; d) mettere in sicurezza la propria sterminata frontiera meridionale contrastando in particolare la minaccia posta dall’slamismo radicale.

Dai punti che abbiamo succintamente elencato emerge chiaramente il fatto che tra Mosca e Berlino esistono delle basi tendenzialmente solide su cui costruire legami bilaterali ancora più forti e mutualmente vantaggiosi di quanto già non accada. Sarebbe tuttavia miope non prendere atto del fatto che esistono anche punti di attrito tra i due attori geopolitici che impediscono di procedere speditamente verso la realizzazione del loro progetto. All’origine di questi attriti vi sono vari motivi e soprattutto vari attori: mentre la Russia sembra godere di una maggiore libertà di manovra, la Germania deve fare i conti con le istituzioni esistenti di cui è parte e con i punti di vista, gli interessi e gli obiettivi geopolitici dei propri alleati europei e d’oltre oceano.

Inoltre riteniamo non si debbano sottovalutare gli attriti endogeni, quelli cioè che scaturiscono dalle differenze esistenti tra la visione geopolitica tedesca e quella russa nei confronti di molti temi di politica internazionale a cominciare dalle alleanze politico-militari esistenti di cui presto ci occuperemo.

Il fatto di essere il Paese guida in Europa non significa che ciò che la Germania dica e pensi vada bene per tutti, anzi. Berlino è consapevole del fatto che sia necessario prestare molta attenzione per evitare che nelle capitali europee riemergano timori mai sopiti nei confronti della sua condotta internazionale.

La reazione di Bruxelles di fronte alla proposta russo-tedesca è stata alquanto pragmatica. Innanzitutto, Commissione e Consiglio hanno fatto sapere che non erano stati preventivamente consultati né dalla Russia né dalla Germania prima dell’annuncio del progetto anche se da Berlino almeno da un paio di settimane arrivavano notizie che lasciavano intravedere qualcosa. Chiaramente questa scelta deliberata da parte di Berlino di non comunicare a Bruxelles la propria intenzione di presentare un progetto così importante per la sicurezza europea in accordo con la Russia non faciliterà il compito della Germania di ‘vendere’ il progetto agli alleati europei.

Sebbene a Bruxelles vi sia chi vede positivamente la volontà di Mosca di lavorare più a stretto contatto con l’UE per la risoluzione dei conflitti e loda i passi fin qui compiuti da ambo le parti nel creare un clima di fiducia e cooperazione, molti altri si interrogano su quale valore aggiunto avrà il nuovo Comitato rispetto a quanto già esiste. Gli scettici fanno notare che gli incontri russo-europei sono tutt’altro che sporadici, in quanto:

– l’UE e la Russia si incontrano 2 volte all’anno in un apposito convegno;

– Ashton e Lavrov si riuniscono almeno tre volte all’anno;

– il presidente del CPS si incontra con l’ambasciatore russo presso l’UE ogni mese;

– esistono numerosi incontri tra gruppi di esperti di ambo le parti;

Alla luce di tutto ciò la Germania sembra essersi impegnata in un grande sforzo di relazioni pubbliche verso i propri alleati europei al fine di spiegare loro che la prosecuzione dell’avvicinamento russo-tedesco con la realizzazione del Comitato Politico e di Sicurezza produrrà benefici tangibili per tutti i membri dell’UE. Chiaramente il compito non è semplice. È in tale ottica che deve essere letto l’ultimo incontro, tenutosi alla fine di giugno, del cosiddetto triangolo di Weimar, un club creato nel 1991 che riunisce Francia, Germania e Polonia. La regola stabilisce che il Paese ospitante ha il diritto di invitare il ministro degli esteri di un Paese terzo rispetto ai membri del club. La Francia, Paese ospitante, ha scelto, non del tutto casualmente, Sergej Lavrov.

Durante l’incontro si è discusso, senza grossi passi in avanti, di sicurezza europea, concentrandosi su due argomenti in particolare: il progetto russo-tedesco di creare un Comitato Politico e di Sicurezza e la proposta russa di sottoscrivere un nuovo patto per la sicurezza dell’Europa.

La scelta francese di invitare i russi deve essere letta probabilmente come il tentativo da parte della Francia di inserirsi tra la Russia e la Germania e mostrare così a se stessa ed al mondo che l’asse Parigi-Berlino esiste ancora. Insomma, un tentativo tardivo di salvare le apparenze che non riesce comunque a nascondere il fatto che in Europa la Francia, rispetto alla Germania, occupa ormai un ruolo secondario non più solo in ambito economico.

Molto più importante per la nostra analisi è il ruolo svolto dalla Polonia, Paese che detiente una grande influenza nelle scelte politiche compiute dall’UE verso i vicini orientali. Come tutti noi ben sappiamo, dopo il tragico incidente verificatosi il 10 aprile scorso in Russia in cui ha perso la vita il presidente polacco Lech Kaczynski, in Polonia si è assistito ad un riavvicinamento, visibile nelle azioni e nelle parole dei due governi così come nei sondaggi d’opinione su campioni rappresentativi delle due popolazioni, tra Mosca e Varsavia. Riavvicinamento che ha l’intento, almeno sulla carta, di portare ad un superamento dei contenziosi e delle divergenze del passato. È chiaro che se ciò si verificasse sarebbe uno dei mutamenti geopolitici più significativi verificatisi in quella parte del mondo. Non è certo nostra intenzione negare l’esistenza di tale mutamento nell’umore dei polacchi, visto e considerato che lo stesso Jarosław Kaczynski, fratello gemello del defunto presidente polacco, durante la campagna elettorale per le presidenziali vinte poi dal rivale Bronislaw Komorowski ,è stato costretto a mettere da parte la sua retorica anti-russa per non perdere voti e accattivarsi l’elettorato. Ciò che ci preme sottolineare è che ci sembra troppo presto per poter capire se questo processo di riavvicinamento durerà e se, soprattutto, sarà in grado di far compiere alle relazioni russo-polacche un salto qualitativo in avanti. Nel frattempo prendiamo atto del fatto che la Polonia continua a portare avanti, magari con meno clamore, scelte politico-militari che non possono certo far piacere alla Russia. In particolare la Polonia, pochi giorni fa, in occasione della visita del segretario di Stato USA Hillary Clinton, ha siglato un nuovo accordo per lo spiegamento di missili intercettori statunitensi a corto raggio (il piano Bush, rispetto all’attuale piano Obama, prevedeva invece missili a lungo raggio) nell’ambito del piano americano di scudo missilistico utile, ufficialmente, a proteggere gli USA e i suoi alleati da attacchi missilistici provenienti dai cosiddetti Stati canaglia, Iran in primis. Non solo, il ministro degli esteri polacco, Radoslaw Sikorski, ha affermato di non avere nulla in contrario alla rimozione del regime dei visti tra UE e Russia ma ha anche sottolineato che, essendo quella dei visti una leva importante nelle mani degli europei per influenzare la politica russa, essa deve essere usata con parsimonia per ottenere concessioni sostanziali da Mosca. Tenendo conto che la pressione russa sulla rimozione del regime dei visti si fa sempre più stringente, la Germania rischia di trovarsi stretta tra Varsavia e Mosca.

Alla luce di quanto affermato fin qui è chiaro che se il progetto russo-tedesco di creare un Comitato politico e di sicurezza, che non può non aver richiamato l’attenzione della Polonia, non viene gestito nel modo più inclusivo e trasparente possibile da parte della Germania rischia di far riemergere la paura mai sopita dei polacchi di essere accerchiati da tedeschi e russi e di spingere Varsavia su posizioni ancor più filo-atlantiste e filo-statunitensi di quanto già non sia, con grave danno per la politica europea, per la credibilità e la libertà di manovra della Germania e per la sicurezza russa.

Comunque sia, anche se la Germania agisse nel migliore dei modi verso gl’interlocutori europei, ciò potrebbe non bastare. Altri attori, come presto vedremo, potrebbero creare limiti insormontabili al progetto geopolitico russo-tedesco.


L’Alleanza Atlantica e Washington

Un altro importante elemento che condiziona e limita la libertà di manovra della Germania è l’Alleanza Atlantica ed il suo membro più importante, gli Stati Uniti d’America.

L’Alleanza, che viene creata agli inizi del periodo della guerra fredda, sopravvive all’implosione dell’URSS e comincia un difficile percorso di ridefinizione degli obiettivi e della sua ragione d’essere che non si è ancora concluso e che potrebbe anche non arrivare mai. Essa rappresenta, seppur criticata da più parti, una delle istituzioni su cui si regge la sempre più scricchiolante architettura della sicurezza in Europa.

È chiaro che gli USA, essendo il Paese più potente dell’Alleanza, imprimano ad essa un corso confacente ai propri interessi geopolitici, spesso anche a costo di creare attriti con gli alleati europei, Germania in primis. La Germania, membra del Patto dal 1955, quando ancora il Paese era diviso in due, non sembra, per vari motivi, intenzionata a svincolarsi da essa. Una tale azione comporterebbe dei costi che, probabilmente, l’elite tedesca non vuole o non può sostenere. Quindi si assiste al tentativo da parte di Berlino, ai limiti dell’equilibrismo, di ritagliarsi più spazio di manovra all’interno di un’Alleanza che in realtà non lascia spazi (eccezion fatta per gli USA) e l’enunciazione delle cosiddette 3D, fatta a suo tempo dal segretario Stato di Bill Clinton Madeleine Albright, ne sono la riprova.

Come ben sappiamo, Washington è impegnata in un tentatativo di reset delle sue relazioni con Mosca, azzeramento che chiaramente è utile a servire gli interessi statunitensi e che deve farsi secondo i ritmi, i modi e le priorità dettati dalla Casa Bianca senza che si presti troppa attenzione alle idee russe in materia di sicurezza e che si prendano in considerazione i loro timori. È ancora presto per capire quali conseguenze geopolitiche avrà tale rilancio delle relazioni tra i due Paesi, tuttavia, ad oggi, permangono molte differenze tra le due rappresentazioni geopolitiche di Washington e Mosca (per approfondire meglio tali differenze rimandiamo al brillante saggio scritto da Tiberio Graziani dal titolo La Russia, chiave di volta del sistema multipolare’, editoriale del numero 1/2010 di “Eurasia”) ed è possibile che anche questo nuovo tentativo si dissolva in una bolla di sapone com’è già accaduto in passato.

Washington non ha ancora commentato la proposta russo-tedesca, tuttavia è probabile che il progetto non sia gradito alla Casa Bianca la quale potrebbe scorgere nell’avvicinamento russo-tedesco, se non proprio una vera minaccia geopolitica, comunque un elemento di fastidio da evitare a tutti i costi. Come molti hanno fatto notare, se il progetto russo-tedesco si realizzasse la Russia otterrebbe inevitabilmente una certa influenza sulle decisioni della NATO, cosa che chiaramente Washington non vuole e la storia delle relazioni NATO-Russia dal 1992 ad oggi lo dimostrano chiaramente. È quindi nell’interesse degli USA evitare che la Germania trovi nella Russia, con la creazioni di meccanismi istituzionali come il Comitato Politico e di Sicurezza, un Paese con cui fare fronte comune per rifiutare le richieste di Washington o per far comunque valere piani alternativi più utili ai propri interessi. C’è da aspettarsi dunque che gli USA facciano di tutto per far deragliare il progetto, magari facendolo nascere totalmente depotenziato.

La sfida che attende Mosca e Berlino è molto complessa e difficile in quanto non sarà per niente facile convincere e rassicurare Washington delle proprie buone intenzioni volte a salvaguardare ed incrementare la sicurezza europea che non può prescindere dal coinvolgimento attivo e paritario della Russia.


Conclusioni

Sebbene in questo periodo di profonda crisi economica in cui la mancanza di prospettive occupazionali domina le discussioni quotidiane delle persone comuni in tutta Europa, il tema della sicurezza europea rappresenta uno delle questioni politiche più pressanti per gli statisti del Continente.

Negli ultimi anni si è assistito ad un vistoso abbassamento del livello della sicurezza europea. Tale tendenza, che reca in sé una dimensione politica, economica, militare e geopolitica, può essere chiaramente invertito a patto che vengano prese tutta una serie di decisioni.

A tal fine ci sembra improcastinabile la piena partecipazione della Russia, con relativa assunzione di oneri ed onori, ai tavoli in cui si discute e si decide di comune accordo come mantenere la stabilità e la sicurezza nello spazio europeo. Sia chiaro però che l’inclusione della Russia deve essere reale e non fittizia e deve quindi dare a Mosca la possibilità di esprimere la propria opinione, discutere con gli altri interlocutori, decidere, contribuire alla sicurezza e goderne i benefici. Per arrivare a tale traguardo urgono passi concreti da parte di tutti verso un rimodellamento delle proprie rappresentazioni geopolitiche al fine di accantonare gli elementi più divisivi presenti in esse. La creazione del Comitato Politico e di Sicurezza UE-Russia potrebbe essere un passo concreto verso quella direzione.

Purtroppo, a parere di chi scrive, il timore più grande non risiede nella possibilità che tale Comitato non veda mai la luce ma che nasca profondamente ridimensionato, depotenziato e incapace di espletare le funzioni per cui era stato pensato. Questo perché purtroppo, da un secolo a questa parte ormai, la politica europea ci ha abituati a convivere con montagne che partoriscono topolini.


* Alessio Bini è dottore in Relazioni internazionali (Università di Bologna)

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La diaspora palestinese e i diritti negati

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La questione dei rifugiati palestinesi costituisce il più grande problema di profughi non risolto nel XX secolo: ne vengono stimati circa 5 milioni, che rappresentano quasi 1/5 della comunità di popolazioni profughe riconosciuta nel mondo. L’UNRWA , l’organizzazione delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione, definisce “rifugiato palestinese” una persona il cui normale luogo di residenza è stato in Palestina fra il giugno 1946 e il maggio 1948, che ha perso sia l’abitazione sia i mezzi di sussistenza in conseguenza del conflitto arabo-israeliano del 1948”1. La definizione di rifugiato include anche i discendenti delle persone che sono diventate rifugiate nel 1948.

Nel 1950 se ne contavano circa 914 mila, nel 2002 più di 4 milioni (dati UNRWA) e il loro numero continua ancora a crescere dato lo sviluppo naturale della popolazione. Oggi queste persone vivono senza documenti d’identità, non possono studiare, sposarsi, lavorare e rischiano di essere arrestati ogni volta che vengono fermati a qualche posto di blocco. Non possono, dunque, godere degli stessi diritti civili delle popolazioni dei paesi ospitanti.


Origini della diaspora palestinese

L’esodo palestinese ebbe inizio nel 1948, con la nascita dello Stato di Israele e la cosiddetta Nakba (letteralmente “catastrofe”), che segnò la cacciata delle popolazioni non ebree che vivevano nelle aree israeliane. Tra il 1947 e il 1949 il numero dei rifugiati palestinesi passò da 520 unità a circa 1 milione. I ricchi mercanti e i capi villaggio si spostarono da Tel Aviv e Gerusalemme verso i paesi confinanti. Più di 1/5 della popolazione palestinese abbandonò il suo territorio: circa 100 mila andarono in Libano, altri 100 mila in Giordania, 90 mila in Siria, 10 mila in Egitto e 4 mila in Iraq. La classe media si recò in città arabe, come Jaffa e Haifa, mentre i contadini finirono nei campi dei rifugiati delle Nazioni Unite. In Israele rimasero circa 150 mila palestinesi, 1/8 della popolazione araba dell’epoca.

I palestinesi, come cittadini di Israele, avrebbero dovuto godere degli stessi diritti civili e religiosi degli ebrei ma, in realtà, fino al 1966, vissero sotto una giurisdizione militare che imponeva loro severe restrizioni sulla libertà di movimento. Dopo che le loro terre vennero confiscate, molti agricoltori arabi divennero lavoratori sottopagati nelle fabbriche israeliane. Alcuni riuscirono ad inserirsi all’interno della società israeliana, ma la maggior parte di coloro che vivevano in territorio israeliano rimasero isolati rispetto a quelli che abitavano in Cisgiordania o nella Striscia di Gaza, entrambe poste sotto il controllo egiziano fino al 1967. In Cisgiordania, l’area ad ovest del fiume Giordano, avevano trovato rifugio circa 300 mila persone, mentre nell’attuale Striscia di Gaza si riversarono circa 190 mila palestinesi, rendendo questo minuscolo territorio (lungo 40 chilometri e largo 8 chilometri) una delle aree attualmente più popolose al mondo e sopratutto un’area in cui quotidianamente si assiste, attraverso i media, ad una delle più gravi emergenze umanitarie.

La base della questione dei profughi è di natura nazionale-politica, oltre che umanitaria. I rifugiati palestinesi in tutti i paesi della diaspora insistono sulla loro unità come nazione, sul diritto a tornare nel loro paese e all’autodeterminazione, basato sulla risoluzione n.194 delle Nazioni Unite e rafforzato dalla Dichiarazione dei diritti dell’uomo, decretata anch’essa dall’ONU il 10 dicembre 1948. Questi diritti sono sostenuti dai profughi palestinesi anche laddove godono dei diritti civili fondamentali.

In Siria, per esempio, i rifugiati godono dei diritti civili pur mantenendo la loro identità palestinese, in conformità con il Protocollo di Casablanca, firmato dal primo vertice arabo nel settembre 1965. Il Protocollo esortò tutti i paesi ospitanti a trattare i palestinesi come propri cittadini, permettendo loro di preservare l’identità nazionale. Ma non tutti gli stati nei quali i palestinesi vivono da più di sessant’anni rispettano quanto suggerito, rendendo la questione palestinese un problema di difficile soluzione.

La presenza palestinese nei paesi confinanti ha alterato l’equilibrio demografico della regione, in particolar modo in Giordania e in Libano.

In Giordania gli esuli palestinesi, che corrispondevano a circa 1/3 della popolazione, ricevettero subito la cittadinanza, causando il malcontento degli abitanti locali. Negli anni Settanta, inoltre, si verificarono violenti scontri tra le milizie del re giordano Hussein e i gruppi armati palestinesi, che minacciavano di impossessarsi dello stato.

In Libano la presenza palestinese provocò una serie di conflitti che insanguinarono il paese durante gli anni ’80.


L’esodo palestinese in Libano

Il problema dei rifugiati palestinesi in Libano è di grande importanza per la loro ingente presenza. Sono circa 420 mila le persone che vivono in 12 campi profughi. Una consistente ondata si riversò sul territorio libanese in seguito al conflitto avvenuto in Giordania tra il 1970 e il 1971, noto come Settembre Nero, che si concluse con la morte o l’espulsione dalla Giordania di migliaia di palestinesi2. L’afflusso, che, come ricordato, aveva avuto inizio nel 1948, modificò la composizione demografica del paese. Infatti, nel 1975, il numero dei palestinesi nel territorio libanese era cresciuto fino a circa 300 mila unità. Sono circa 400 mila i palestinesi attualmente presenti in Libano. Ad essi è precluso il diritto di ritorno nei territori d’origine e sopravvivono grazie alle rimesse dei familiari emigrati all’estero, agli aiuti dell’UNRWA e delle organizzazioni internazionali non governative.

Inoltre, le autorità libanesi continuano ad ostacolare l’integrazione dei palestinesi nel tessuto sociale attraverso il mancato riconoscimento dei diritti civili: i profughi non hanno diritto alla proprietà privata, a viaggiare liberamente nel paese. Sono perfino esclusi dalla sanità pubblica del governo, dai servizi scolastici e dai servizi sociali pubblici. Considerati come stranieri, è vietato loro di accedere a più di 72 professioni.

Stanchi di questa discriminazione che ormai perdura da più di mezzo secolo, alla fine di giugno i rifugiati hanno organizzato un’imponente manifestazione a Beirut, davanti al Parlamento, a cui hanno partecipato 2000 persone. Scopo dell’evento era fare pressione al governo affinché approvi una legge che garantisca diritti e lavoro ai palestinesi. Il disegno di legge, se venisse approvato, darebbe loro l’opportunità di ottenere la residenza o almeno una copertura sanitaria. Sarebbe un passo avanti nella difficile soluzione della questione palestinese, considerato anche che le istituzioni libanesi hanno sempre visto la consistente presenza dei profughi (quasi il 10% della popolazione) come una minaccia alla già fragile stabilità dello stato, basato su equilibri demografici e confessionali tra le varie entità religiose e culturali presenti. In seguito ai fatti giordani dei primi anni ’70, lo spostamento della guerriglia palestinese in Libano trasformò il paese in un campo di battaglia che attirò anche le pressioni israeliane, provocando una serie di tensioni tra le varie componenti religiose (cristiana, maronita e falangista, di orientamento filo-israeliano, musulmano-sciita, sunnita, palestinese, etc.), le quali sono state al centro della guerra civile che ha sconvolto il Libano dal 1975 al 1990.

Nel periodo del conflitto, durante il quale l’esercito israeliano occupò militarmente il paese, nei campi profughi i palestinesi subirono perdite materiali e umane devastanti. Fu soltanto con l’intervento dell’esercito siriano, in forma di forze di “interposizione”, che si pose fine alle ostilità.

Nel 2000, poi, il ritiro di Israele dal sud del Libano dopo ventidue anni di occupazione militare, diede al paese la possibilità di sperare nell’avvio di un processo di pacificazione interno ed internazionale e costituì l’inizio di un periodo di ricostruzione sociale ed economica del paese.

Le difficoltà economiche e sociali dei palestinesi, oltre che dalle ostilità dirette, sono state aumentate anche da altri eventi. Nel 1982, la partenza dal Libano dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina (OLP), in seguito all’invasione israeliana, privò i palestinesi dei servizi che le istituzioni dell’OLP avevano loro fornito fino ad allora.

In seguito, lo scoppio della seconda Guerra del Golfo (1990-91) provocò l’espulsione di migliaia di palestinesi da alcuni stati del Golfo, soprattutto dal Kuwait, dove molti di loro lavoravano. L’espulsione fu una risposta al supporto dell’OLP a favore dell’Iraq che, tra l’altro, perse gran parte delle sue fonti di supporto finanziario, e quindi dovette ridurre o annullare l’assistenza ai profughi in Libano.

Le autorità libanesi, inoltre, non si sono mai preoccupate del benessere economico e sociale dei profughi e si sono sempre rifiutate di prendere provvedimenti per migliorare la loro situazione. Altri paesi ospitanti hanno, invece, adottato provvedimenti riguardo ai diritti civili.

Bisogna considerare, poi, il peggiorare delle condizioni economiche del paese, in seguito al crollo della moneta nazionale, l’inflazione e l’alto costo della vita, tutti fattori che hanno provocato una degenerazione della vita economica e sociale libanese. Il rapporto delle Nazioni Unite sul Libano indica che il 27% della popolazione vive sotto il livello della povertà assoluta.

Il fatto che il governo libanese non accordi ai palestinesi i diritti civili fondamentali, significa che l’integrazione dei profughi viene considerata dannosa per l’unità politica in una società che sta ancora cercando una stabilità dopo la guerra civile. Di conseguenza i palestinesi in Libano sono meno integrati economicamente e subiscono restrizioni più severe sui diritti civili rispetto ai profughi negli altri paesi ospitanti della regione.


I rifugiati palestinesi in Giordania

I rifugiati palestinesi che vivono in territorio giordano sono più della metà dei 6,3 milioni di abitanti del paese.

Secondo Human Rights Watch, l’organizzazione internazionale indipendente che si dedica a difendere e proteggere i diritti umani, a tremila giordani di origine palestinese (e ai loro familiari) è stata revocata la cittadinanza agli inizi di quest’anno. Il governo giordano giustifica il ritiro come un’operazione per l’attuazione del disimpegno dalla Cisgiordania presa nel 1988. La Giordania, infatti, aveva annesso la Cisgiordania nel 1950, dopo lo scoppio del conflitto arabo-israeliano del 1948, ed aveva concesso la cittadinanza giordana a tutti gli abitanti che erano sottoposti alla sua amministrazione, fino a quando Israele occupò nel 1967 tutta la Cisgiordania. Nel 1988 il governo di Amman decise di liberarsi del legame giuridico e amministrativo al quale era soggetta la Cisgiordania.

Alla luce di quanto accaduto con il ritiro della cittadinanza ai palestinesi che vivono in territorio giordano, bisogna considerare la violazione dei diritti fondamentali di migliaia di persone. Attualmente centinaia di migliaia di abitanti di origine palestinese sono esposti al rischio del ritiro della cittadinanza giordana, inclusi circa 200 mila giordani palestinesi tornati in patria dal Kuwait nel 1990-91, dopo l’invasione irachena nel 1990. Come avviene in Libano, anche in Giordania le autorità temono la possibilità di un esodo permanente dei palestinesi entro il suo regno, dal momento che il governo israeliano non intende rimuovere i suoi insediamenti nei territori occupati. L’ingente quantità di palestinesi che vivono in Giordania viene considerata sia come una minaccia all’identità sociale e culturale del popolo giordano sia come un fattore di impoverimento di un’economia, come quella giordana, già di per sé non molto sviluppata.

Il dissenso nei confronti dell’insediamento della popolazione palestinese in Giordania è stato manifestato recentemente anche da parte del Comitato Nazionale dei Veterani dell’Esercito giordano, i quali hanno firmato una petizione con attacchi diretti sia alla monarchia sia al popolo palestinese. Nel documento i veterani hanno espresso la loro preoccupazione per il problema palestinese che, dal loro punto di vista, il governo affronta cedendo a pressioni esterne ad insediare i rifugiati del regno e vedono la loro presenza come una grande fonte di problemi per il governo del paese. I veterani hanno, inoltre, criticato le politiche economiche neo-liberali del re Abdullah e le nomine di persone di origine palestinese in posizioni importanti del governo. Il documento si conclude con la richiesta di costituzionalizzare il disimpegno dalla Cisgiordania del luglio 1988, privare del diritto di voto l’intera popolazione palestinese del regno e rinforzare l’esercito. Infine viene affermata la necessità di riforme politiche e viene chiesto di impedire la corruzione ed investire il governo e il parlamento di maggiori poteri.


I palestinesi della Siria

Anche in Siria la questione palestinese costituisce un fardello per le autorità del governo. Come gli altri stati della regione, la Siria iniziò ad accogliere i profughi palestinesi all’indomani della nascita dello Stato d’Israele: allora se ne contarono circa 85 mila (dati UNRWA). Un altro imponente afflusso si verificò dopo la Guerra dei Sei giorni nel 1967, quando il numero di profughi giunse a 450 mila. Circa il 10% dei palestinesi vive nei 10 campi profughi ufficiali; il 25% vive in tre campi profughi non ufficiali, controllati dalle forze di sicurezza siriane. Il 50% circa vive, invece, nelle varie città siriane.

A differenza dei profughi che vivono altrove, tuttavia, in Siria essi possono godere di qualche diritto civile: malgrado non possano acquisire la cittadinanza siriana, possono frequentare scuole e università gratuitamente ed hanno diritto all’assistenza sanitaria pubblica. Godono, inoltre, del diritto di proprietà per quanto riguarda le abitazioni, esclusi i terreni. Ricoprono alte cariche governative, con l’eccezione degli incarichi politici. Infine possono richiedere dei passaporti speciali per recarsi all’estero.

Molti leader delle fazioni politiche e militari palestinesi hanno scelto come sede delle loro attività la Siria: si tratta dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP), il Fronte Democratico per la Liberazione della Palestina, il Fronte Popolare per la Liberazione della Palestina, Hamas ed altri gruppi di resistenza palestinese. Nonostante il gran numero dei rifugiati abbia danneggiato l’economia e le condizioni di vita siriane, il paese arabo ha concesso loro dei diritti che vengono negati in altri paesi.


Conclusioni

Il ritorno dei palestinesi in Palestina è una questione complicata. Sebbene il diritto di ritorno sia riconosciuto a livello internazionale, dal momento che fu decretato dall’Assemblea delle Nazioni Unite con la risoluzione n.194 del 1948, esso non è mai stato rispettato dai governi mediorientali e i palestinesi sono tuttora cittadini senza patria. Essi non intendono rinunciare alla speranza di assistere un giorno alla tanto agognata nascita di uno Stato palestinese. Gli aiuti e l’assistenza da parte degli enti internazionali sono certamente utili, ma non risolvono il problema. L’unica soluzione per porre fine al grande esodo e favorire il riconoscimento dei diritti umani fondamentali alla popolazione palestinese, sarebbe l’esecuzione della risoluzione n.194. Ciò richiede la collaborazione degli organi internazionali affinché premano su Israele per la realizzazione dell’autodeterminazione del popolo palestinese.


* Silvia Bianchi è dottoressa in Editoria e giornalismo (LUMSA di Roma)


1La prima guerra arabo-israeliana portò allo scontro fra la componente ebraica della Palestina e quella araba della stessa regione. Quest’ultima ottenne l’appoggio delle forze armate di diversi paesi arabi del Vicino Oriente, come l’Egitto, la Transgiordania, la Siria, il Libano e l’Iraq.

2Il 16 settembre 1970 Re Hussein di Giordania dichiarò il controllo militare del suo paese, in risposta ad un tentativo da parte dei Fedayyn palestinesi ( militanti della guerriglia armata) di prendere il controllo del regno.

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Gennadij Zjuganov: “Mosca smetta di inchinarsi agli USA”

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Il segretario del partito comunista russo ed esperto di geopolitica, Gennadij Zjuganov, ha duramente criticato l’attuale orientamento della politica estera russa. Per Zjuganov Mosca deve smettere di “inchinarsi all’Occidente”

Nel sito del partito si legge la seguente dichiarazione del capo comunista: “I dirigenti russi si impegnano a rafforzare la cooperazione con gli Stati Uniti e credono fermamente nelle sue intenzioni amichevoli. Tuttavia, il comportamento dei nostri nuovi ‘compagni’ – ben illustrato dal recente “scandalo delle spie’- a fatica ci risulta essere amichevole “.

Il politico russo ha osservato che l’incidente – che coinvolge una presunta spia russa negli Stati Uniti si è verificato poco dopo la visita ufficiale del presidente Dmitri Medvedev negli Stati Uniti – indica che “il sasso da lanciare contro la finestra russa” era stato preparato in anticipo.

Zjuganov ha anche criticato la decisione del Cremlino di sostenere nuove sanzioni contro l’Iran per i suoi piani nucleari e la “guerra del gas” con la Bielorussia. Secondo Zjuganov entrambe le questioni non sarebbero in linea con gli interessi geopolitici del paese.

Gli Stati Uniti sono sbarcati in Costa Rica

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Le autorità del Costa Rica hanno autorizzato la Casa Bianca all’ingresso di 46 imbarcazioni da guerra, 200 elicotteri, 7 mila uomini (tutti dotati di immunità diplomatica) e 10 aerei da combattimento Harrier, il tutto a partire dal primo di luglio.

Con l’obiettivo di garantire il “Plan Colombia” [ che fra le altre cose mira ad assicurare agli Stati Uniti l’approvvigionamento di petrolio e gas, sempre necessari per le sue industrie pesanti e belliche ], la Casa Bianca ha pattuito la continuità del TLC ( Trattato del Libero Commercio ) già firmato dall’ultimo presidente del Costa Rica, per il periodo 2006-2010 in cambio della sovranità militare del Paese (quella del Costa Rica).
Occorre ricordare che il paese centroamericano smantellò il suo esercito nel 1948 e che la “cooperazione” con la Guardia Costiera costaricana, sia via mare che via terra o aerea, è ormai abituale [vedi il Programma di Lotta contro il Narcotraffico degli Stati Uniti in Costa Rica – Documento Ufficiale * ].

Sebbene i documenti del Comando Sur ** menzionino già l’esistenza di un radar CBRN (Carribbean Basin Radar Network) dal 1990, per il controllo della zona caraibica, gli USA hanno mostrato grande interesse per installare una base militare nell’aeroporto internazionale di Liberia (città costaricana, capitale della provincia di Guanacaste, situata a Nord-Ovest dello Stato; NdT); interesse per il quale i ticos (termine colloquiale e familiare per indicare i costaricani; NdT) hanno espresso totale contrarietà data la violazione che si compierebbe nei confronti della Costituzione Nazionale.
L’attuale concessione delle autorità nazionali vìola, pertanto,la sovranità di un Paese che rappresenta la chiave di connessione terrestre fra l’America Latina e i Caraibi per gli Stati Uniti.
Nonostante, infatti, gli esponenti dei partiti politici oppositori abbiano manifestato energicamente il loro dissenso, è prevedibile che sarà resa maggiormente nota la posizione attuata dai governi dei Paesi della regione.


*http://www.state.gov/p/inl/rls/fs/141844.htm


**https://docs.google.com/viewer?url=http://www.state.gov/documents/organization/143863.pdf

Fonte: http://geopoliticaargentina.wordpress.com/2010/07/10/estados-unidos-ha-desembarcado-en-costa-rica/

(Traduzione di Stefano Pistore)

“La sfida totale”. Intervista a Daniele Scalea

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Riportiamo di seguito l’intervista effettuata da Simone Santini, per il sito “Clarissa.it”, a Daniele Scalea, redattore di “Eurasia”, a proposito del suo nuovo libro La sfida totale.

Si vedano anche la recensione al libro scritta da Augusto Marsigliante e la precedente intervista concessa da Daniele Scalea a Stefano Grazioli di “East Side Report”.


Fonte: Clarissa.it


È recentemente uscito per la Fuoco Edizioni il saggio “La sfida totale – Equilibri e strategie nel grande gioco delle potenze mondiali” di Daniele Scalea, giovane e talentuoso ricercatore già redattore della rivista di geopolitica Eurasia ed ora al suo primo libro. La sfida totale è una gemma rara, uno straordinario esempio di come la geopolitca, apparentemente una disciplina così complessa da essere materia riservata solo a grigi specialisti, riveli invece una freschezza e una ricchezza di riferimenti, intuizioni, fascinazioni, che servono ad interpretare la storia dei popoli così come la cronaca politica internazionale. Abbiamo incontrato l’autore per una chiacchierata di largo respiro sul suo libro e alcuni aspetti della odierna situazione mondiale.


Daniele Scalea, grazie per averci concesso la possibilità di questa intervista. Comincerei proprio dall’inizio. Il generale Fabio Mini ha scritto la prefazione al tuo volume, brevi note ma palpitanti e profonde. Un tuo commento.

Il generale Mini è una figura d’altri tempi. Un militare che, ad una vasta conoscenza pratica e teorica della sua professione, ha affiancato lo studio approfondito di varie tematiche, il tutto in un quadro di vasta cultura umanistica. Qualcosa di ben diverso dalla cultura superficiale, o al contrario dall’iper-specializzazione, che si sono ormai affermati nella società odierna. È stato dunque un piacere ed un onore che il mio primo libro potesse essere prefato da una persona simile.
Per quanto concerne i contenuti della prefazione stessa, non posso che concordare e fare mia l’appassionata difesa della validità della geopolitica, anche se dal generale Mini divergo a proposito del giudizio sulla geopolitica classica. Secondo il Generale la geopolitica classica, incentrata sull’interesse e l’azione dell’attore statuale, passerebbe oggi in secondo piano rispetto ad una nuova geopolitica, non ancora formalizzata, che dovrebbe riguardare i nuovi soggetti primari della politica internazionale: le compagnie multinazionali, i capitali finanziari transnazionali, ed in generale le varie «reti» che bucano ed oltrepassano gli angusti confini dello Stato.
Indubbiamente, oggi vi sono poteri “informali” che hanno acquisito un enorme peso decisionale. A mio giudizio, però, non è sufficiente per individuare un nuovo paradigma geopolitico. L’influenza di potentati “extra-democratici” non è una novità della nostra epoca, per quanto oggi abbia raggiunto il suo massimo. Come ha insegnato l’imprescindibile lezione della scuola elitista, troppo spesso dimenticata proprio perché mina le fondamenta ideologiche del regime attuale, tutti gli Stati d’ogni epoca e luogo sono sempre stati oligarchie, a prescindere dal loro ordinamento formale. Da sempre le minoranze organizzate riescono ad avere la meglio sulle maggioranze disorganiche, sulle masse, e da sempre lo fanno anche tramando ed agendo nell’ombra. È significativo che Karl Marx, autore quanto mai distante dagli elitisti, considerasse lo Stato come uno strumento di dominio e sfruttamento della classe dirigente su quella subalterna, e che Thomas More – lontano tanto da Marx quanto dagli elitisti – definisse lo Stato «una conventicola di ricchi che, sotto nome e pretesto di Stato, pensano a farsi gli affari loro». Da notare che si tratta di pensatori distanti non solo negli orientamenti ma anche nel tempo e nello spazio, eppure tutti convergono nella sostanza sul loro giudizio dello Stato.
Pur non disponendo di una documentazione “dietrologica” ricca come quella concernente le epoche più recenti, sappiamo per certo che i magnati di Roma antica ebbero un ruolo di primo piano nel definirne la politica estera
contingente. Nel Seicento e Settecento la politica dei Paesi Bassi fu determinata soprattutto dalla sua oligarchia mercantile. Nel secolo scorso il Banco di Roma incitò Giolitti a conquistare la Libia. Non sono mancate, in questo quadro, le influenze di potentati transnazionali del tipo cui fa riferimento Mini. Tanto per fare un esempio, l’espansione africana della Gran Bretagna nell’Ottocento avvenne principalmente su impulso di Lord Rothschild, ma nello stesso periodo il ramo francese della famiglia Rotschild finanziava l’imperialismo francese in Africa Occidentale. Non è neppure necessario citare lo stretto intreccio tra la politica statunitense ed il “complesso militare-industriale”.
Ma tutte queste “spinte”, appena descritte, non sembrano essere state troppo divergenti dall’effettivo interesse nazionale degli Stati influenzati: Roma continuò ad espandersi attorno al Mediterraneo, rimanendo fedele alla natura geopolitica del suo impero; i Paesi Bassi cercarono di diventare la prima potenza marittima, coerentemente coi caratteri geografici del loro paese; l’Italia perseguiva la penetrazione nel Nordafrica e, in ottica di lungo periodo, l’egemonia mediterranea, logica politica di potenza per una penisola montuosa nel cuore dello stesso; infine, Francia e Gran Bretagna cercavano di crearsi propri imperi coloniali per sostenere il rafforzamento dell’apparato industriale, elemento imprescindibile della potenza statale.
Le oligarchie, com’è ovvio, concorrono in maniera non trascurabile a definire l’interesse nazionale, ma non possono ignorare del tutto quel che è l’interesse
oggettivo, potremmo dire scientifico, della nazione: e quest’ultimo è fissato prima di tutto dalla geografia. Le nazioni in cui l’interesse soggettivo dell’oligarchia diverge da quello oggettivo della nazione, e s’impone su di esso, sono destinate al declino. Ma le nazioni in cui l’interesse oligarchico s’accorda e si fonde con quello nazionale hanno saputo raggiungere, storicamente, i vertici della potenza.
Se partiamo da questo presupposto – che nel corso della storia intera tutti gli Stati sono intimamente più o meno oligarchici, che tutte le oligarchie concorrono a fissare l’interesse nazionale, e che le oligarchie nazionali possono essere legate tra loro (nell’Età Moderna le dinastie regnanti erano tutte imparentate, ma ciò non impedì loro di combattersi incessantemente, così come i magnati finanziari ed industriali erano tutti in affari tra loro nella prima metà del Novecento, ma non di meno permisero due drammatiche guerre mondiali) – allora la dinamica giustamente sottolineata da Mini non ha però un peso talmente radicale da mutare il paradigma geopolitico stesso. Va tenuta in debito conto, ma non cancella la realtà geografica con cui le società umane debbono fare i conti.


Sono rimasto affascinato dalla concezione della geopolitica classica della divisione e contrapposizione tra potenze terrestri e marittime di cui parli nel primo capitolo del libro, e di come queste caratteristiche geografiche possano influenzare non solo le strutture economiche ma anche l’organizzazione statuale e la stessa antropologia dei cittadini. Ci puoi illustrare brevemente questi concetti?

È sempre stato un concetto tanto palese quanto contestato quello che la geografia influisse in maniera determinante o poco meno sulle sorti delle società umane. Ciò è infatti inaccettabile agli occhi di tutte le ideologie universaliste, si chiamino esse “cristianesimo” o “marxismo” o in altro modo ancora, le quali rientrano tutte nel solco del progressismo unilineare. La geografia è un elemento differenziante le società umane (gli habitat non sono uguali per ogni popolo) e come tale non può essere presa in considerazione tra i fattori determinanti se si vuol sostenere che le civiltà hanno tutte un comune destino ineluttabile. Se invece non si vuole partire da una premessa generale (che può essere il “Paradiso” così come il “Comunismo” o la “superiorità della razza ariana”) e ricavare per deduzione tutto ciò che ne discende, ma al contrario si vuol partire dall’osservazione empirica della realtà per indurne delle regole generali, allora la geografia conquista un posto di primo piano nella definizione delle sorti delle società umane.
Charles Darwin ha spiegato in maniera abbastanza convincente come le specie viventi reagiscano all’ambiente circostante
adattandovisi. Quest’adattamento non riguarda solo i caratteri fisici, ma anche i comportamenti. Oswald Spengler, ad esempio, spiegava con la geografia (e dunque con l’adattamento all’ambiente) le diverse attitudini di due popoli che, dal punto di vista biologico, sono decisamente simili: quello inglese e quello tedesco. I Tedeschi, trovandosi nel mezzo di una pianura aperta su più lati, esposti ad ogni tipo di pressione da parte dei vicini, hanno sviluppato un naturale senso di coesione e solidarietà di gruppo: il comunitarismo tedesco sarebbe un surrogato di confini naturali certi. Al contrario gl’Inglesi, protetti dal mare e dediti alle attività di navigazione, avrebbero perciò sviluppato il loro peculiare individualismo. Carl Schmitt, addirittura, individuava l’origine della speculazione finanziaria nella pesca, che a differenza dell’agricoltura non dà un prodotto necessariamente proporzionale al lavoro ma dipende dalla fortuna.
Non c’è bisogno di spingersi fino ad interpretazioni così stringenti e particolari per trovare esempi dell’influenza geografica sulla storia. È certo che solo in presenza di pianure fertili e corsi d’acqua si sono potute sviluppare le grandi civiltà stanziali, e che è proprio in queste civiltà che si sono create istituzioni statali e sociali più articolate (il sovrappiù alimentare permette la differenziazione delle attività). È certo che senza ingenti risorse di carbone la piccola Gran Bretagna non sarebbe stata così potente nell’Ottocento. È certo che senza la scoperta di rotte alternative verso l’Oriente (Capo di Buona Speranza, Stretto di Magellano) il ruolo economico dell’Italia non sarebbe declinato nel Cinquecento. Se il riso (che accelera lo svezzamento) non fosse stato originario della Cina e ivi coltivato già ottomila anni fa, difficilmente gli Han si sarebbero moltiplicati con tanta rapidità. Si potrebbero fare infiniti esempi su come la geografia sia stata determinante nella storia di ogni popolazione.
Sarebbe però un errore sfociare nel puro e semplice determinismo geografico. Non a caso, tra gli eserghi del mio libro ne ho scelto uno di Halford Mackinder (tra i padri nobili della geopolitica), il quale afferma che: «
L’equilibrio di potenza è il prodotto delle condizioni geografiche e di fattori relativi, come il numero, la virilità, l’equipaggiamento e l’organizzazione dei popoli in competizione». L’uomo è un artefice del proprio destino, seppure non l’unico. Usando una metafora calcistica, sicuramente calzante in questi giorni, la geografia detta le regole del gioco, ma poi in campo ci scendono degli esseri umani, capaci tanto di errori quanto d’intuizioni geniali.


Nel tuo volume dai ampio spazio alla figura ed al pensiero geopolitico di Zbigniew Brzezinski. Nonostante sia considerato un mentore del presidente Obama, a me pare che la sua visione strategica (contenimento dell’Eurasia con la Russia suo elemento centrale; transizione di Ucraina ed Iran nel campo occidentale) non sia prevalente nell’attuale politica americana. Concordi? Quali sono attualmente i principali antagonisti della dottrina Brzezinski?

Brzezinski è mentore di Obama, che l’ha definito «uno dei maggiori pensatori» degli USA contemporanei. Bisogna però considerare che Obama, diventando presidente, si è trovato davanti una situazione particolare. Dal predecessore ha ereditato un debito pubblico fuori controllo, due guerre in corso e dall’andamento non positivo, cattivi rapporti con mezzo mondo e, anche se questo non si può addebitare a Bush jr. (o almeno non a lui principalmente), una grave crisi economica. È normale che in tali condizioni non si possa fare tutto quel che si vorrebbe.
In ogni caso, la politica di Obama è ostile alla Russia
almeno quanto quella del predecessore. Al di là della retorica del “reset nelle relazioni bilaterali”, si può osservare che: lo scudo antimissili balistici non è stato abbandonato, ma solo ristrutturato (postazioni mobili anziché fisse, che sarebbero vulnerabili agli Iskander russi piazzati nell’exclave di Kaliningrad) ed infine ampliato (si progettano componenti anche in Romania e Bulgaria); Washington si è accordata con Mosca per sanzioni condivise contro l’Iràn, e subito dopo – contro la volontà russa – ne ha varate unilateralmente di ulteriori; recentemente la segretaria di Stato Hillary Clinton ha svolto un tour per i paesi ex sovietici, rassicurandoli sul sostegno degli USA contro il rischio di ritornare entro la sfera d’influenza moscovita.
Alla luce di quanto appena detto, ritengo che Brzezinski continui a fare scuola a Washington. Tuttavia, la sua influenza diminuisce sensibilmente quando ci si sposta nel Vicino Oriente, perché la voce più forte diviene quella della
lobby sionista.


L’amministrazione Obama sta cambiando in qualche modo il contesto geopolitico americano? È già possibile delineare un carattere “obamiano” della attuale politica estera Usa?

Anche i più feroci critici di Obama gli riconoscono sempre almeno un pregio: è un bravo oratore. Credo che proprio nelle parole stia la maggiore innovazione apportata da Obama alla politica estera statunitense. Bush abbaiava e mordeva. Obama continua a mordere ma cerca di non abbaiare, perché capita che una parola di troppo, in diplomazia, faccia più danni di una bomba. Ho appena citato il caso dei rapporti con la Russia: Obama sorride e stringe la mano a Medvedev, ma poi appena il Presidente russo si distrae, inanella una serie di misure antimoscovite che farebbero invidia ai tempi della Guerra Fredda (abbiamo avuto persino la retata di “spie” russe – alcune delle quali, come Vicky Peláez, erano al massimo degli “agit-prop” moscoviti, non certo dei ladri d’informazioni riservate). Medvedev non è un caso isolato. Obama sta dispensando abbracci e sorrisi a molti dei suoi nemici, cercando poi di pugnalarli alla schiena. Ha abbracciato Chávez per poi circondare il Venezuela di truppe statunitensi. Si mostra amichevole con Lula da Silva ma sostiene sottobanco l’opposizione brasiliana. Dispensa elogi a Berlusconi, ma non sorprenderebbe scoprire un giorno che, nel corso dell’ultimo anno, abbia manovrato per farlo cadere e sostituirlo con qualcuno che non consideri Putin “un amico”.


Nel capitolo dedicato a Cina e India mostri come il Dragone viva nell’attuale contesto geostrategico una straordinaria ambivalenza: può essere considerato il competitore fondamentale dell’Impero ma allo stesso tempo anche una sorta di “hub dell’occidente” e l’economia cinese un “interfaccia” della globalizzazione anglosassone in oriente. L’attuale strategia statunitense in Medio Oriente e Asia centrale può essere considerata come un’operazione su larga scala per costringere la Cina a divenire in maniera strutturale il socio di minoranza dell’Impero? Qual è la tua opinione?

L’idea della Cina come junior partner appare ormai superata. Lo stesso Obama ha optato, nei primi mesi della sua amministrazione, per un “G-2″, che almeno sulla carta prevederebbe un rapporto paritario. La Casa Bianca, però, non è più abituata a trattare “alla pari” con qualcuno, e Pechino si è risentita per alcune provocazioni – come la massiccia vendita di armi a Taiwan (e qui ritorniamo all’Obama che sorride ma nel frattempo pugnala alle spalle).
Oggi gli USA cercano piuttosto un asse con la Russia per arginare la Cina ma, come abbiamo visto, non mancano neppure le provocazioni a Mosca.
Attualmente mi pare che la Cina navighi verso l’emancipazione: riduce le riserve in dollari e l’acquisto di buoni del Tesoro statunitensi, rafforza lo yuan per proporlo come valuta di riferimento in Oriente, ristruttura lentamente la propria economia verso il mercato interno, vara un importante programma di riarmo navale. L’incognita è la possibile prossima crisi finanziaria in Cina. Il governo si sta sforzando di sgonfiare in maniera controllata la bolla immobiliare. Se fallisse, molte cose potrebbero cambiare, ma non è scontato che lo facciano in meglio per gli USA. L’economia statunitense rimane in bilico sull’orlo del baratro, e l’onda lunga d’una eventuale crisi cinese potrebbe farle perdere l’equilibrio.

Usciamo infine dalle pagine del tuo volume per una incursione nella cronaca geopolitica. Analisti e commentatori si stanno dividendo sulle previsioni circa una possibile drammatica guerra prossima ventura in Medio Oriente. C’è chi sostiene, tra cui anche il sottoscritto, che si giungerà prima o poi ad un confronto bellico con Teheran; altri ritengono, se non sbaglio tu ti trovi su questa linea, che alla fine una guerra non ci sarà. Qual è la tua posizione e la tua analisi attuale?

Io non so se la guerra ci sarà “alla fine”, perché si tratta di un tempo troppo poco determinato per pronunciarsi. Rimango dell’opinione che non ci sarà “a breve”, e questa previsione si è finora rivelata azzeccata – e spero, non solo per vanagloria personale, che continui ad esserlo ancora a lungo.
Obama si è presentato come l’uomo che avrebbe risolto per via negoziale la crisi iraniana: sarebbe pronto ad affrontare il contraccolpo d’immagine che conseguirebbe ad uno sviluppo bellico della stessa?
Gli USA hanno truppe in Iràq e Afghanistan: da ciò deriva che a) sono vulnerabili a rappresaglie iraniane e b) il loro esercito “di campagna” è in larga parte immobilizzato. Non sono le condizioni ideali per attaccare il paese persiano.
Il debito pubblico di Washington è ormai fuori controllo, ed una nuova guerra non gli gioverebbe. A meno di pensare che, come successo spesso in passato, una nuova guerra possa rilanciare l’economia statunitense. Però ogni guerra dev’essere commisurata alla crisi che dovrebbe risolvere. Attaccare l’Iràq all’inizio degli anni ’90 o dopo l’esplosione della bolla “IT” può risolvere piccole crisi congiunturali, ma per crisi sistemiche come quella attuale sarebbe necessario un conflitto mondiale (vedi il Ventinove).
Molti di questi deterrenti non si applicano a Israele, che rimane perciò l’indiziato principale per un ipotetico attacco aereo contro l’Iràn. Credo ci siano discrete possibilità che Tel Aviv lanci una nuova aggressione bellica entro la fine dell’anno, ma la vittima più probabile è ancora una volta il Libano.
Il programma nucleare iraniano non è ancora così minaccioso da giustificare un’opzione militare. Anche se, come si diceva in precedenza, spesso gli uomini sbagliano. E i dirigenti a Washington e Tel Aviv, più di molti altri, negli ultimi tempi ci hanno abituato a parecchi errori, soprattutto quando a pagarli col sangue sono altri popoli.

Scheda libro:
http://sfidatotale.wordpress.com/about/

Dove trovarlo:
http://sfidatotale.wordpress.com/dove-trovarla/

Acquista on-line:
http://www.ibs.it/code/9788890465826/scalea-daniele-mini/sfida-totale-equilibri-e.html

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Crisi economica: un possibile scacco politico

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Secondo recenti sondaggi condotti negli USA, circa il 42% della popolazione ritiene che la questione principale di l’amministrazione Obama debba farsi carico sia proprio la crisi economica. Sebbene molti studiosi abbiano dato il loro plauso all’azione presidenziale, pronosticando una ripresa sul lungo periodo, è importante che vi siano riscontri anche nella vita reale. Il malcontento fra gli statunitensi è costante e l’idea di tassare le banche che attuano politiche lesive del sistema economico, o i fondi stanziati per nuovi progetti a sostegno dell’occupazione sono di aiuto solamente sulla carta.

Recenti indagini inerenti gli ultimi mesi, hanno infatti dimostrato un parziale passo indietro nella già complicata strada della ripresa economica. Secondo l’analisi dei dati le ore lavorate settimanalmente, le paghe medie orarie e gli stipendi nel settore privato hanno subito una battuta d’arresto. L’interpretazione delle statistiche può essere ambigua, questo poiché il settore privato continua a creare lavoro: marzo e aprile hanno visto la nascita di ben 200 mila posti di lavoro, a fronte dei soli 33 mila posti di maggio; solo il mese di giugno ha visto un parziale rialzo a 83 mila nuove assunzioni, a fronte delle circa 110 mila stimate come necessarie per uscire rapidamente dalla crisi.

Ad aggiungere altra carne al fuoco ci pensano i dati che mostrano sì una discesa dell’indice di disoccupazione al 9.5%, ma pure un drastico calo della forza lavoro totale. I dati incoraggianti che venivano proposti all’inizio del 2010 cominciano, neanche troppo lentamente, a dimostrarsi poco attendibili man mano che i giorni trascorrono: ogni mese si crea un minor numero di posti di lavoro, così come coloro che già hanno la fortuna di possederne uno spesso vedono ridotto il proprio orario lavorativo.

La spiegazione è molto semplice: non basta una lieve ripresa (con conseguente creazione di nuovi posti di lavoro) per far sì che il settore privato si rialzi totalmente.

La guerra dei numeri che viene fatta mensilmente sui dati dei sondaggi è una guerra che, purtroppo, si fa su percentuali irrisorie: i guadagni medi orari, ad esempio, hanno subìto un calo dello 0.1% invece che aumentare della stessa percentuale. Risulta ovvio che, continuare a piccoli passi è sì un modo per tentare di andare avanti, ma è obiettivo che le cifre sulle quali sarebbe utile attestarsi per riuscire ad avere una ripresa reale e solida sono ben lungi dalle attuali. Il fatto che l’indice di occupazione mensile presenti quasi sempre un calo rispetto al mese precedente è un campanello d’allarme: gli input dati alla ripresa hanno funzionato, ma solo all’inizio. Risulta, quindi, necessario che Obama punti su altre politiche economiche poiché i risvolti politici del flop che si sta verificando potrebbero non tardare a farsi sentire.

Pensare di lasciare la ripresa economica solo sulle spalle dei consumatori americani, come se il sistema finanziario fosse già in grado di sostenersi da solo, è assolutamente poco credibile. Un dollaro forte continuerà a mantenere le esportazioni basse, la spesa pubblica a favore della ripresa rimarrà costante se non minore rispetto al passato, quindi si supporrebbe di dover contare solo sul consumatore. Se si pensa ciò, però, è importante ricordare che le nuove generazioni dovranno sempre più scontrarsi con un basso accesso al credito, nonché con la sempre minore ricchezza proveniente dal possesso di immobili o di titoli bancari. In sostanza, se l’americano medio non ha molta liquidità a disposizione tenderà, come è logico, a risparmiare; ma si viene a verificare un circolo vizioso poiché minore moneta si immette al suo interno, minore è la capacità di quel sistema di espandersi.

Queste brevi considerazioni dovranno certamente spingere il presidente statunitense a correre ai ripari: le elezioni di mid-term non sono lontane e gli interventi a sostegno dell’economia sono un argomento fondamentale per la campagna elettorale.

L’economia ha ancora bisogno di molto spazio per riprendersi o, come ha affermato Paul Krugman, il Nord America potrebbe ritrovarsi nella “Terza Depressione”. Su questo stanno tenendo banco degli accesi scontri fra democratici e repubblicani al Congresso: i primi stanno, infatti, cercando da settimane di far approvare una serie di misure volte ad aiutare i disoccupati, con sussidi, o assicurazioni sanitarie, e a incoraggiare gli imprenditori, con tagli fiscali, a riprendere le assunzioni. I repubblicani, dal canto loro, fanno una dura opposizione affinché la proposta di legge non passi; il loro scopo è, infatti, quello di puntare sul risanamento del debito più che sullo stimolo all’economia.

I repubblicani affermano che gli statunitensi siano più preoccupati di questo aspetto che degli aiuti contro la crisi, ma il risvolto più interessante è un altro. In effetti, non si può affermare con certezza che i cittadini considerino tale faccenda più importante di altre, ma si può ben pensare che, se falliranno le misure a favore dei lavoratori, la colpa ricadrà pesantemente sui democratici. Questi ultimi sono in maggioranza sia al Senato che alla Camera e diverrà, dunque, facile per l’elettore identificare nei Democrats la causa del prolungarsi della crisi.

Tutti questi aspetti, quindi, stanno attualmente favorendo sulla carta il partito repubblicano ed è in virtù di ciò che Obama dovrà scendere in prima persona per affrontare la crisi economia. Il presidente, ora più che mai, deve puntare su quell’immagine vincente e portatrice di cambiamenti positivi che lo ha premiato nelle scorse elezioni del 2009. Senza contare, poi, che con la nuova campagna presidenziale alle porte, le elezioni di mid-term potranno essere un termometro reale del suo gradimento all’interno del Paese. Un motivo in più per prodigarsi nel sostegno all’economia nazionale, in fondo.


* Eleonora Peruccacci è dottoressa in Relazioni internazionali (Università di Perugia), collabora frequentemente al sito di “Eurasia”

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South Stream, cosa si muove

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Aggiornamenti sul fronte della geopolitica delle pipeline.

Ci sono significative novità in merito al progetto del gasdotto eurasiatico South Stream, la cui notevole valenza geopolitica si è più volte evidenziata.

Stando a quanto emerge dalle ultime notizie, come riportato dal giornale russo Kommersant, il duo Cremlino-Gazprom sembra aver trovato un punto d’incontro con la Bulgaria, nelle settimane precedenti piuttosto riluttante.

La trattativa ha avuto un risvolto positivo durante la visita a Sofia del vice primo ministro russo Viktor Zubkov al primo ministro bulgaro Boiko Borisov. Quest’ultimo ha espresso per la prima volta pubblicamente il suo sostegno al South Stream e nei prossimi giorni si dovrebbe procedere ad una “road map”, con l’inizio del progetto entro il 2015.

La road map è il primo documento sul South Stream che Mosca firmerà con Boyko Borisov, succeduto a Sergey Stanishev, con cui i russi avevano ratificato i precedenti accordi.

In effetti, sin qui Borisov aveva mosso delle critiche sia nei confronti della Russia che di Gazprom, specie sulla scia delle diatribe tra Mosca e Kiev, annunciando il congelamento di tutti i progetti di cooperazione energetica con Mosca, compresa la costruzione della centrale nucleare di Belene.
Borisov sosteneva che questi contratti fossero stati firmati sotto pressione della Russia e non rispondessero agli interessi nazionali bulgari. Il governo bulgaro aveva persino pubblicato un report per il settore energetico fino al 2020, in cui si evidenziava come il compito del Paese fosse quello di ridurre drasticamente la dipendenza energetica dalla Russia.

La Bulgaria ha il 70% del consumo di energia dipendente dalle importazioni russe di gas, petrolio e combustibili nucleari. In quest’ottica, Sofia reputava utili, ai fini di una diversificazione, i progetti Nabucco che aggirano la Russia.

Sul South Stream c’erano alcune divergenze:

Sofia cercava di mantenere la proprietà dei terreni di transito del gasdotto, mentre Gazprom insisteva sulla loro cessione; il controllo della joint venture, con la relativa possibilità di definire la dimensione del transito e dello stoccaggio di gas; la costruzione di nuovi gasdotti, rispetto all’intenzione dei russi di usare l’attuale sistema di trasporto.

Ora sembra proprio che la soluzione fondamentale sia stata trovata sulle questioni più controverse.

Quindi, il sistema di trasporto di gas della Bulgaria sarà incluso nel South Stream, mentre le altre sezioni da costruirsi del gasdotto apparterranno alla Russia e alla Bulgaria su un piano di parità.

Un altro vantaggio ottenuto è stata la disponibilità della Russia a prendere in considerazione l’eliminazione del problema degli intermediari per la fornitura, cosa poco gradita a Sofia per il riverbero sui consumatori. Inoltre, esiti positivi sono anche quelli per la centrale nucleare di Belene, per la cui costruzione delle prime unità i russi hanno accettato il rinvio del pagamento.

Il netto cambio di direzione sul South Stream è dovuto principalmente al fatto che nel mese di giugno Gazprom ha avviato contatti con i rumeni, inducendo i bulgari a temerne la concorrenza.


Gli esperti ritengono che gli accordi con la Bulgaria siano importanti, ma rimangano per alcuni ancora delle incertezze sulla fattibilità del gasdotto dal punto di vista economico. Il peso dei finanziamenti è notevole, ma pare proprio che Gazprom sia decisa a fare la parte del leone.

Gli americani, da parte loro, hanno già storto il naso. L’ambasciatore a Sofia James B. Warlick si è espresso negativamente, ribadendo come tutto ciò complichi la situazione per il Nabucco e favorisca le manovre di avvicinamento della Russia all’Europa.

A ciò, si aggiunge il cambio di posizione dei bulgari su un altro tema caldo per gli USA.

In base a quanto dichiarato da Anyu Angelov, ministro della Difesa della Bulgaria, il Paese non risulta adeguato per accogliere elementi relativi al progetto dello scudo anti-missile americano.

La Russia, quindi, sembra non fare passi indietro.

Anzi, una nuova mossa è stata fatta e potrebbe essere decisiva per il South Stream e scacco matto per il Nabucco.

Come riportato dal quotidiano russo Vzglyad e dal tedesco Handelsblatt, il vice presidente di Gazprom, Alexander Medvedev, ha avviato una trattativa con la tedesca RWE per la partecipazione di questa al progetto South Stream, nell’intento di scipparla praticamente a quello del Nabucco, progettato dall’Ue in accordo strategico con gli americani.

La RWE, compagnia elettrica con sede ad Essen, è il secondo maggior produttore di elettricità tedesco dopo la E.ON, oltrechè grande distributore di gas e acqua.

Se la prospettiva dovesse concretizzarsi, saremmo sicuramente ad una svolta nella vicenda dei principali gasdotti intorno ai quali ruotano anche le traiettorie della geopolitica eurasiatica.

Gli analisti sembrano possibilisti. Come sostiene Viktor Markov della Zerich Capital Managment, molte aziende sarebbero disposte ad unirsi al South Stream, ritenuto decisamente più valido del concorrente Nabucco, sulla cui effettiva capacità delle forniture ci sono concreti dubbi.

Rispetto a ciò, poi, la Russia ha recentemente annunciato che la capacità del suo progetto, prevista inizialmente di 31 miliardi di metri cubi / anno, passerà a ben 63 miliardi.

E’ una vicenda in continua evoluzione e passibile di non poche sorprese.

Certo è che gli sviluppi del South Stream, con protagonisti la russa Gazprom e l’italiana ENI in primis, con la recente adesione minoritaria della francese EDF e la partecipazione degli altri partner europei, sono destinati a segnare non poco gli equilibri politici del continente e a misurare la tenuta delle forze strategiche in campo, Washington compresa.

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BRIC: solo un acronimo?

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Nel 2001 la banca d’affari statunitense Goldman Sachs fu tra le prime a rendersi veramente conto del mondo che stava cambiando. Coniò il termine BRIC per indicare i quattro principali Paesi emergenti (Brasile, Russia, India e Cina), e da allora, anche se non ce ne rendiamo conto, un po’ le nostre vite sono cambiate. La centralità nel mondo dei Paesi sviluppati (USA, Europa e Giappone in particolare) non è venuta meno, ma ci siamo resi conto di non essere poi così soli al mondo: anche e soprattutto nelle scelte di geopolitca che investono le dinamiche internazionali.
E, come già affermato, forse con sorpresa e preoccupazione, osserviamo che il fenomeno della globalizzazione non per forza significherà americanizzazione o predominanza dei Paesi industrializzati sul resto del mondo.

Le nuove economie (in Asia, i Sud America e in Est Europa) hanno sui sistemi economici delle economie evolute impatti non trascurabili.
In senso negativo, si pensi agli effetti delle crisi finanziarie dei mercati asiatici, ai rincari e alla scarsita’ delle materie prime (ad esempio acciaio, alluminio, rame,…) e risorse naturali (petrolio e derivati), dovuti alla forte domanda proveniente dai Paesi emergenti. In senso positivo i tenori di vita alti e le inflazioni relativamente basse nei Paesi sviluppati, nonostante un livello di consumi alto è in buona parte spiegabile con la delocazzazione delle produzioni in Paesi dal costo decisamente inferiore. Se, per esempio, il cittadino americano medio, ma anche l’europeo, può mantenere alti livelli di qualita’ della vita (precisando che si intende solo dal punto di vista dei consumi), lo deve non solo alla sua ‘generosa’ propensione all’indebitamento, bensì alla nuova fattispecie del ciclo acquisti: comprando la stragrande maggioranza dei prodotti di uso quotidiano presso le grandi catene distributive low-cost (si pensi a Walmart), sta acquistando all’ 80% manufatti realizzati in Cina.

I Paesi del BRIC all’interno del gruppo delle economie emergernti rappresentano le realtà più importanti e tra le più dinamiche. I loro PIL aggregati sono passati da una quota del 16% nel 2000 al 22% nel 2008 della produzione mondiale. Insieme rappresentano quasi la metà della popolazione mondiale (42%). Detengono il 40% del valore delle riserve valutarie mondiali (circa 2,8 miliardi di dollari, anche se in realtà la maggior parte appartiene alla Cina). Le aspettative per il futuro sono parimenti impressionanti. Ci si attende che raggiungano i 2 miliardi di cittadini (di cui la maggioranza sarà la nuova classe media entro il 2030). E sempre Goldman Sachs prevede che il PIL dei Paesi BRIC superi quello dei G7 entro vent’anni (o addirittura dieci, secondo le analisi previsionali).

Tuttavia occorre riflettere sulla valenza intriseca del termine BRIC. Rappresenta un aggregato stabile di Paesi con una visione comune, obiettivi e strategie condivise e omogeneita’ di caratteristiche oppure una pura semplificazione di realtà eterogenee e disgiunte?
Il tema è sicuramente dibattuto. I Paesi del BRIC hanno manifestato la volontà di coalizzarsi e svilupppare politiche comuni. Per promuovere lo sviluppo e la crescita economica e combattere la povertà interna hanno realizzato una dichiarazione congiunta nella quale si afferma il desiderio di “sviluppare una cooperazione tecnica e finanziaria con il fine di realizzare uno sviluppo sociale ed economico sostenibile (includendo welfare state, protezioni sociali, tutela dei lavoratori e in generale politiche del lavoro )”
Il tema di condivisione degli intenti e la vera sfida da affrontare e’ proprio questa: porre le condizioni per uno sviluppo economico sostenibile con focus sul miglioramento delle condizioni sociali dei propri cittadini. Traghettare modelli sociali superati verso economie moderne e creare una nuova classe sociale, il ceto medio, benestante e con garanzie di tutela sociale.
Per sviluppare una proficua cooperazione in tale direzione i Paesi del BRIC si sono incontrati ancora in aprile a Brasilia per il loro secondo Summit.

I più critici commentatori vedono però in tali azioni una mancanza di visione comune e l’assenza delle pre-condizioni per poter realizzare progetti comuni.
Fra gli altri Joseph S.Nye. L’ illustre professore di Harvard ed ex assistente al segretario della difesa statunitense afferma che “BRIC è solo un termine enfatizzato e continuamente riproposto dai giornalisti, ma privo di un concetto e valore intrinseco. E’ stato inventato da Goldman Sachs con l’unico scopo di portare alla attenzione dei più le profitable opportunitites nei mercati emergenti”, E forse anche per ricordare i rischi connessi all’affermarsi delle nuove economie. E continua: “A seguito del loro primo incontro nel giugno del 2009 a Ekaterinburg con l’obiettivo di trasformare un acronimo in una forza politica internazionale, a parte poche dichiarazioni di intenti, fra cui la critica al sistema finanziario mondiale, dominato e determinanto da una unica valuta, poco e’ stato realmente fatto”.
Alcuni importanti argomenti sono in realtà stati messi sul tavolo, tra cui prime discussioni sui sistemi finanziari, su come affrontare congiuntamente la lotta al terrorismo, il tema delle risorse alimentari, energia, cambiamenti del clima e ambiente, e sviluppo sostenibile. Tuttavia accordi e piani attuativi non sono stati realizzati ancora.

Inoltre i Paesi BRIC rimangono fortemente divisi ed eterogenei. India e Cina, pur presentando notevoli differenze per quanto riguarda la stuttura politica e sociale, cultura di appartenenza e costumi, sembrano simili per molti aspetti: la velocita’ di crescita e l’approccio allo sviluppo tipico da Paese emergente. Per converso, secondo il Prof. Nye ha poco senso includere la Russia nel gruppo preso in considerazione. Non e’ un Paese in via di sviluppo bensi’ una ex super-potenza. La sua popolazione non e’ cosi’ numerosa, il livello educativo medio e’ decisamento superiore e il reddito pro-capite e’ molto piu’ alto. Inoltre a sua economia non sarebbe in crescita bensi’ in declino e secondo le parole dello stesso presidente Medvedev, “necessita urgentemente di una politica modernizzatrice”.
Il Brasile è stato invece una sorpresa, dall’introduzione delle riforme degli anni novanta, la crescita è stata sostenuta (intorno al 5%). La sua inclusione a suo tempo nell’acronimo BRIC rappresenta una felice intuizione di Goldman Sachs.

Che il termine BRIC sia appropriato e corretto nell’unire popoli di cultura e obiettivi diversi, rimane una questione aperta. Il prof. Nye direbbe che serve solo come indicatore di opportunita’ economiche (e che addirittura sarebbe piu’ corretto sostituire la Russia con l’Indonesia).

Conclusioni
A nostro avviso, accanto alle forti diversità, nei BRIC sono presenti elementi in comune importanti: territori sterminati e popolazioni numerose con ampi margini di miglioramento in termini di condizioni sociali, tenore di vita e dove non va dimenticata la presenza ancora oggi di gravi disugualglianze .
Non è sicuro se vorranno e riusciranno a delineare un percorso comune di crescita e ad affermarsi come entita’ unica nello scacchiere internazionale.
In ogni caso, la valenza del termine coniato servira’, quasi sicuramente, a ricordarci le iniziali dei Paesi che unitamente o per conto proprio, al fianco di USA, Europa e Giappone (alcuni addirittura affermano in sostituzione) sempre piu’ incideranno sulle dinamiche internazionali. In sintesi, e’ un monito a non sottovalutare l’influenza sui sistemi economici e sociali occidentali dello sviluppo di queste economie. Ed e’, come inteso da nella sua definizione originaria, anche uno stimolo a ricordarsi delle opportunita’ che si stanno aprendo.


Pechino – 22 Giugno 2010


*Emanuele C.Francia, manager e consulente, ha seguito per diverso tempo le operazioni cross-border per numerose imprese italiane in Europa e Stati Uniti. Da alcuni anni vive a Pechino ed e’ co-fondatore e partner di Emasen Consulting, una societa’ di consulenza specializzata nei processi di internazionalizzazione e supporto alle imprese italiane. Scrive su alcune riviste scientifiche di geopolitica, economia e managemnt e collabora con alcune universita’ sia in Italia che in Cina nell’ambito della ricerca e dell’insegnamento

Gli effetti a lunga durata dell’operazione Piombo fuso

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Gli effetti immediati di una guerra, a prescindere dall’oggettività delle fonti giornalistiche in loco e dalla reale possibilità che queste hanno di riferire sugli eventi bellici, sono spesso riportati in termini ponderali, quindi misurabili: numero di morti e di feriti, danni agli edifici e alle infrastrutture, ecc. Un simile approccio è ben più problematico, invece, quando gli effetti sotto studio sono quelli a lungo termine sulla salute dei sopravvissuti. Questo è in gran parte dovuto alla difficoltà intrinseca di studi condotti sul posto, che sono invisi alle forze occupanti, e alla natura stessa di questi studi, i quali necessitano di lunghi periodi di follow-up, un numero elevato di campioni, personale altamente specializzato per la raccolta dei dati ecc. Un gruppo di ricercatori italiani ed esteri ha appena pubblicato su una rivista scientifica internazionale i risultati di una ricerca, del tutto inedita come approccio e sui generis, sugli effetti delle nuove armi usate dall’esercito israeliano a Gaza nelle operazioni militari del 2006 e 2009, e i dati che ne derivano sono allarmanti.

Il 27 dicembre 2008 Israele lanciava sulla striscia di Gaza l’offensiva militare denominata in codice dei servizi di sicurezza israeliani Piombo fuso. Il conflitto, terminato il 18 gennaio 2009, lasciava sul terreno circa 13 israeliani e 1300 palestinesi. ça van sans dire, le vittime furono soprattutto civili. Durante e dopo la guerra di Gaza, molti medici palestinesi hanno riferito sulla presenza di ferite insolite sui cadaveri e i feriti. Le persone con queste ferite insolite non avevano alcun residuo né frammento, facendo pensare all’utilizzo, da parte dell’esercito israeliano, di nuove armi cosiddette directed-energy weapons o senza frammenti. Durante l’operazione di Gaza l’esercito d’Israele ha utilizzato, ad esempio, il fosforo bianco come arma incendiaria, tuttavia, vista la natura delle ferite e delle amputazioni, l’utilizzo di altre armi senza frammenti è una certezza. Per questo motivo, un gruppo indipendente di ricercatori del New-weapon committee (http://www.newweapons.org/) sta conducendo studi in loco per (i) registrare l’impatto immediato di queste armi sulle vittime e l’ambiente e (ii) studiarne gli eventuali effetti a lungo termine sulla popolazione civile. Recentemente il New-weapon committee ha pubblicato una parte dei dati nella rivista scientifica internazionale BMC International Health and Human Rights (http://www.biomedcentral.com/bmcinthealthhumrights/) e questi primi risultati aiutano a gettare luce su quello che è un vero e proprio cono d’ombra sugli effetti di una guerra sul corpo delle vittime.

Durante l’offensiva israeliana sono stati prelevati campioni di tessuto dalle vittime, divisi in classi di ferite, per analizzare la presenza di metalli pesanti, tra cui sono noti molti elementi tossici, cancerogeni e potenzialmente dannosi per le donne incinte e i loro bambini. I campioni sono stati poi analizzati in diversi laboratori indipendenti, italiani ed esteri, per un’analisi in cieco, vale a dire senza saper nulla sull’origine e natura dei campioni. E i risultati non si sono fatti attendere: la maggior parte dei metalli studiati erano presenti nelle ferite in quantità molto sopra la soglia normale ed erano in dosi letali o altamente tossiche (ad esempio nel caso dell’arsenico, l’alluminio e il mercurio). Alcuni di questi metalli possono causare nel tempo delle malattie croniche, come effetti tossici per i feti e problemi riproduttivi, polmonari, cutanei e renali. Trattandosi di metalli pesanti non vanno naturalmente esclusi effetti cancerogeni, del tutto accertati per molti dei metalli analizzati (come per l’arsenico, il cadmio e l’uranio). Molti metalli hanno inoltre un comportamento biologico simile agli estrogeni, e possono quindi interferire con la fertilità, la determinazione del sesso e la riproduzione.

Assieme all’analisi della presenza di questi metalli pesanti nelle ferite provocate da questo tipo di armi – dice Paola Manduca, professoressa di Genetica all’Università di Genova, che è anche tra gli autori dello studio e portavoce del New-weapon committeesarà importante stabilire un’eventuale contaminazione ambientale, specie in quei territori colpiti dai bombardamenti e ad alta densità demografica, in cui c’è agricoltura e i bambini sono liberi di scendere in strada a giocare. Per questo stiamo conducendo studi per evidenziare la presenza di metalli pesanti nella popolazione, nelle donne incinte e i bambini, attraverso l’analisi dei capelli: questi sono, infatti, un ottimo indicatore di contaminazione ambientale. Risultati preliminari, conclude la professoressa Paola Manduca, evidenziano la preoccupante presenza di contaminazione di metalli cancerogeni e tossici nei capelli dei bambini e nella popolazione giovane di Gaza che è stata più esposta ai bombardamenti”.

Riferimenti:
Metals detected by ICP/MS in wound tissue of war injuries without fragments in GazaSobhi Skaik, Nafiz Abu-Shaban, Nasser Abu-Shaban, Mario Barbieri, Maurizio Barbieri, Umberto Giani, Paola Manduca ( http://www.biomedcentral.com/1472-698X/10/17 )

* Domenico Lombardini (Albenga, 1980), laureato in biologia, è redattore e traduttore tecnico. Dopo un’esperienza nella ricerca biomedica, si è dedicato completamente alla redazione e traduzione medico-scientifica. Collabora con agenzie di comunicazione e testate giornalistiche, tra cui Sapere e Il Manifesto. Si occupa anche di storia contemporanea e poesia. Pubblicazioni in volume: Economia (Puntoacapo, 2010), Legenda (Fara editore, 2009 – antologia del premio in cui risulta primo classificato).

“Il mondo manca di regole uniformi”: intervista a David Sanakoev

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Quello che segue è un estratto dell’intervista rilasciata da David Sanakoev* in esclusiva per i lettori di Nasha Gazeta e Eurasia, Rivista di Studi Geopolitici a Luca Bionda, redattore di “Eurasia”. L’intervista completa sarà pubblicata sul prossimo numero della rivista “Eurasia”. Un ringraziamento particolare ad Olesja Kadzhaeva (Tskhinval, Ossezia del Sud) per il supporto nell’intervista.


    Lei lavora come Ombudsmen per il Presidente dell’Ossezia del Sud dal 2004. Quali sono gli aspetti più importanti che ha dovuto affrontare, e quali sono i principali problemi per i diritti civili del popolo osseto?

Siamo impegnati in una ampia gamma di questioni in cui ogni decisione è spesso influenzata dalle difficili condizioni socio-economiche sopraggiunte all’aggressione georgiana contro l’Ossezia del Sud. Nonostante ciò, siamo coscienti della necessità di monitorare attentamente la situazione dei diritti umani e di esercitare il massimo impegno per proteggerli. Assieme a noi sono coinvolti non solo i cittadini osseti, ma anche quelli di altri Stati presenti nel territorio del nostro paese, indipendentemente dalla loro etnia. Naturalmente, l’aggressione del 2008 ha modificato sensibilmente la percezione dei problemi da parte della popolazione. Questo è quindi un appello ai garanti del diritto internazionale, affinché collaborino a proteggere i diritti dei nostri cittadini e dei loro cari, risolvendo i problemi inerenti la ricerca delle persone scomparse, le richieste di scarcerazione dei detenuti, nonché la restituzione ed il risarcimento dei beni perduti a causa dell’aggressione georgiana.

    Ha lavorato molto attivamente per indagare sulla detenzione dei cittadini osseti nelle prigioni georgiane dopo l’Agosto 2008. Quale è la situazione oggi in Georgia ed Ossezia del Sud riguardo il problema del rapimento di civili? Lei ha dichiarato che in Georgia manca ancora una vera collaborazione con l’Ossezia del Sud riguardo i diritti umani.

Oggi, secondo i nostri dati, in Georgia sono rinchiuse 35 persone catturate prima dell’Agosto 2008, oltre ad un detenuto incarcerato dopo l’Agosto 2008. Questa tuttavia non è la cifra finale, dal momento che la parte georgiana non ha risposto alla nostra richiesta di fare chiarezza sul numero di cittadini dell’Ossezia del Sud rinchiusi in Georgia.

Al momento, continuiamo a lavorare su inchieste riguardanti la detenzione illegale e la condanna dei cittadini dell’Ossezia del Sud da parte delle autorità georgiane. Abbiamo raggiunto un certo successo nell’affrontare la questione. Alla fine del mese di Agosto 2008, alla parte georgiana sono state consegnate 175 persone e 43 cadaveri appartenenti a truppe dell’esercito georgiano, e sono anche state trasmesse informazioni sull’ubicazione di due corpi individuati in territorio georgiano, in villaggi limitrofi all’Ossezia del Sud. Inoltre, il 15 Novembre 2008 alla parte georgiana sono stati consegnati altri 10 corpi di militari georgiani. Verso la fine del 2008 alla parte osseta sono stati consegnate 47 persone e 2 corpi, uno deceduto prima della guerra a causa di un morso di lupo, mentre il secondo non è stato identificato. In questo processo è importante il Commissario per i Diritti Umani del Consiglio d’Europa, poiché è in gran parte grazie ai suoi sforzi che molti detenuti hanno fatto ritorno alle loro famiglie, mentre i parenti delle persone scomparse non hanno perso la speranza di far luce sulla sorte dei propri cari.

    Ci sono stati degli sviluppi positivi per i diritti delle popolazioni locali, dopo l’arrivo della missione di osservatori europea EUMM (European Union Monitoring Mission) in Georgia? Quali sono i risultati?

La missione di monitoraggio dell’Unione Europea ha adottato sotto la propria responsabilità l’osservazione del confine tra l’Ossezia del Sud e la Georgia all’inizio dell’Ottobre 2008. Da quel momento sono stati rapiti più di venti cittadini dell’Ossezia del Sud, e tre di loro sono ancora registrati come dispersi. Sul territorio controllato dalla missione si verificano violazioni del diritto, si dispongono postazioni militari illegali, ed i rappresentanti delle strutture di potere georgiane violano la frontiera dell’Ossezia del Sud; qui gli osservatori dell’Unione europea monitorano il territorio al fine di rispondere agli incidenti. La situazione al confine con la Georgia rimane tesa, anche se stabile. I rappresentanti dell’Ossezia del Sud sono con gli osservatori europei entro la fascia operativa della “linea calda”, nonostante abbiamo sospeso la loro partecipazione ai procedimenti per la prevenzione e la reazione agli incidenti. Ciò è accaduto anche perché durante le fasi attuative non si ottenevano risultati positivi per i problemi sollevati nel corso delle riunioni, e soprattutto per la mancanza di attenzione verso un tema così delicato come la ricerca delle persone disperse durante e dopo l’aggressione della Georgia nel 2008.

    Nella Sua opinione, perché l’Unione Europea ha ignorato il riconoscimento dell’Ossezia del Sud e dell’Abkhazia, anche dopo il riconoscimento dell’indipendenza del Kosovo da parte di alcuni Stati europei? Alcuni Stati occidentali sostengono che il riconoscimento del Kosovo rimarrà una “eccezione”, anche se tutto questo sembra una posizione assurda e poco democratica…

Per garantire un equilibrio internazionale, il mondo dovrebbe essere guidato da regole uniformi. Oggi, nei risvolti internazionali, osserviamo la tendenza opposta, in cui una nazione cerca di imporre la propria volontà di affrontare questioni importanti su scala internazionale. Di conseguenza, molti esperti rilevano che il diritto internazionale esistente non regge all’assalto della realtà moderna. L’Unione Europea non è una struttura così semplice e ciò può essere visto analizzando i processi che vi avvengono. Lo stesso vale per la questione del riconoscimento dell’indipendenza dell’Ossezia del Sud. Il mondo tuttavia non si limita alla sola Europa e Stati Uniti, quindi tanto vale sfruttare tutte le opportunità per ottenere il massimo dei risultati. Naturalmente, se la Repubblica dell’Ossezia del Sud si mostrerà come un partner responsabile e credibile, questo sarà un aspetto fondamentale per il nostro riconoscimento da parte di altri paesi.

    Cosa pensa riguardo alle false notizie di una invasione russa della Georgia diffuse dal canale televisivo “Imedi”? Si tratta di una prova per misurare le reazioni del mondo politico oppure di una opportunità per giustificare un movimento dell’esercito georgiano verso i vostri confini?

Questa azione ha causato un danno prima di tutto al popolo georgiano; essa rimarrà sulla coscienza degli stessi organizzatori, i quali erano ben consapevoli della reazione che avrebbe provocato nel popolo della Georgia. D’altra parte, credo che gli organizzatori della manifestazione abbiano raggiunto gli obiettivi prefissi, testando la risposta e la disponibilità di tutte le parti coinvolte in questa provocazione. Mi auguro che le autorità georgiane si convincano che questo comportamento è dannoso per la comunità internazionale, e per i propri alleati. Anche la ripetizione di una politica aggressiva sarà certamente un atto da condannare.


* David Sanakoev è commissario per i diritti umani presso la Presidenza della Repubblica dell’Ossezia del Sud

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Tarek Aziz e i prigionieri di guerra consegnati al nemico

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Fonte: Fance – Irak -Actualité

Annunciato da due anni, il trasferimento dei dirigenti iracheni arrestati, o che si sono arresi sotto condizione dopo l’occupazione del paese nell’aprile 2003, è iniziato qualche giorno fa a Baghdad. Cinquantacinque tra essi – tra cui il vice primo ministro Tarek Aziz e Abed Hmoud, segretario del presidente Saddam Hussein – sono attualmente detenuti nella prigione di Kazimiyya, centro di tortura controllato dal ministero iracheno della giustizia e dalle milizie pro-iraniane.

Badie Aref, avvocato iracheno di Tark Aziz e di altri prigionieri di guerra, ha ricordato che questo atto costituisce « una violazione della carta della Croce Rossa che vieta che un prigioniero sia estradato verso suoi nemici ». Ha aggiunto che la vita di Tarek Aziz era « ormai in pericolo, poiché tra le mani dei suoi nemici i quali avrebbero potuto infliggergli la pena di morte per liberarsi di lui » [1]. Ma il suo appello è rimasto lettera morta, così come le richieste per la sua liberazione in ragione della sua salute [2].

L’avvocato Jacques Vergès, incaricato di assicurare la difesa di Tarek Aziz all’estero, ha scritto a riguardo ai cinque capi di Stato membri permanenti del Consiglio di Sicurezza dell’ONU. Ha ricevuto risposte dall’ambasciatore della Russia, dal suo omologo della Gran Bretagna e dal consigliere diplomatico di Jacques Chirac [3]. Gli Stati Uniti ed il regime di Baghdad hanno rifiutato di rilasciargli un visto col quale recarsi in Iraq per incontrare il suo cliente, mentre si sono accordati col giudice Philippe Courroye per interrogare Tarek Aziz nell’ambito dell’affare « Petrolio in cambio di cibo ».

In un comunicato, la Commissione Libertà e Giustizia [4] riunita a Parigi nel maggio 2008, dichiarava che il trasferimento delle autorità imprigionate era « contrario allo spirito e a quanto scritto nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 relative al trattamento dei prigionieri di guerra » e suggeriva che gli Stati Uniti « li consegnassero ad una potenza neutrale ».

Più di 1600 resistenti sono attualmente detenuti a Camp Cropper, nell’indifferenza dell’opinione pubblica mondiale, sotto-informata [5]. Altri marciscono nelle prigioni segrete della CIA, del regime di Baghdad o dei servizi segreti curdi. La Commissione Libertà e Giustizia concludeva così il suo comunicato: « La decisione di consegnare i prigionieri di guerra iracheni alle milizie pro-iraniane che si dividono il potere a Baghdad è non solo illegale, ma criminale e vergognosa, poiché significa abbandonarli – con cognizione di causa – alla tortura e al boia».

Traduzione a cura di Matteo Sardini

1. Nel marzo 2009, Tarek Aziz è stato condannato a 15 anni di prigione per « crimini contro l’umanità », senza alcuna prova, a seguito del processo detto dei commercianti. I processi a ripetizione contro l’ex vice primo ministro iracheno avevano come obiettivo impedire la sua liberazione.

2. Bollettino sulla salute di Tarek Aziz (Clinica di Camp Cropper – 26/01/10):  http://www.france-irak-actualite.com/article-tarek-aziz-etat-de-sante-45332733.html

3. Vedere: La défense pour dénoncer – intervista di Jacques Vergès per il Quotidien d’Oran (16/2/06):  http://www.globalresearch.ca/index.php?context=viewArticle&code=DEC20090210&articleId=1991

4. La Commissione Libertà e Giustizia si riunisce periodicamente. È composta da personalità e da militanti iracheni, arabi e francesi che tentano di sensibilizzare l’opinione sulla situazione in Iraq

5. Vedere: « Tarek Aziz…connais pas! », http://www.france-irak-actualite.com/pages/Tarek_Aziz_connais_pas_Bakchichinfo_20508-1982322.html;

« Tarek Aziz, l’homme qui en sait trop », http://www.france-irak-actualite.com/pages/tarek-aziz-l-homme-qui-en-sait-trop-juin-2008–1982315.html

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Cina, la vera sfida per l’Unione Europea?

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L’attuale complesso delle relazioni internazionali e la crisi economica globale che, partendo dagli Stati Uniti, ha investito l’intero sistema mondiale, hanno sottolineato come la Cina abbia accresciuto il suo potere economico-politico, candidandosi a poter diventare la quarta potenza economica del mondo e un attore politico di importanza strategica per i capitalismi occidentali. Negli ultimi quindici anni e, in particolar modo, dopo l’ingresso nella World Trade Organization, Pechino ha portato avanti una corsa all’industrializzazione, al progresso tecnologico, al potenziamento militare, alla globalizzazione e all’urbanizzazione senza precedenti, cosicché si può parlare di un nuovo “Balzo in Avanti”.

Ma l’escalation cinese riflette anche un mutamento degli equilibri politici su scala regionale e globale, sul quale le altre grandi potenze economiche, Stati Uniti e Unione Europea, hanno bisogno di riflettere e al quale, al tempo stesso, dare risposta. In particolare, Bruxelles, nell’ambito delle sue relazioni esterne, non ha ancora preso in considerazione la costante influenza e penetrazione cinese all’interno delle strutture economiche e politiche di Paesi che rivestono un ruolo chiave all’interno dello scacchiere internazionale (Russia, Iran, India e in qualche misura anche Arabia Saudita), continuando a considerare il paese asiatico un “partner strategico” quasi esclusivamente in ambito commerciale.

L’incerta “partnership strategica”

Infatti, fin dal 1982 – anno della nuova Costituzione cinese, che, ispirata alla “strategia delle quattro modernizzazioni” di Deng Hsiao-p’ing, ha aperto la Cina alle economie di mercato occidentali – Bruxelles ha inteso intavolare con la Cina accordi bilaterali di natura commerciale: l’“Accordo di cooperazione economica e commerciale” (1985) era volto a “promuovere e intensificare gli scambi commerciali” e “incoraggiare la costante crescita della cooperazione economica”. Queste relazioni, raffreddatesi a seguito dei fatti di piazza Tienanmen (1989) e del conseguente embargo posto sulla vendita delle armi, si sono rinnovate nel corso degli anni Novanta, che, pur aprendosi a nuovi settori – ambiente e sviluppo sostenibile, diritti umani, cooperazione doganale e culturale, relazioni sull’informazione e sulla ricerca in campo scientifico e tecnologico –, hanno continuato a limitarsi ad una cooperazione economica che ha posto le basi per l’ingresso della Cina nella WTO (2001).

Dopo il 2001 – anno cruciale anche nella ridefinizione dell’intero sistema delle relazioni internazionali – il Consiglio dell’UE ha approvato un rapporto della Commissione europea sulle relazioni UE-Cina, “A Maturing Partnership: Shared Interests and Challenges in EU-China Relations” (settembre 2003), in cui le istituzioni comunitarie hanno definito Pechino “partner strategico” dell’Unione Europea e hanno dato avvio nel biennio 2005-2006 ad una serie di memorandum e intese bilaterali (24 Dialoghi Settoriali) volte a conseguire una collaborazione in una vasta gamma di ambiti che vanno dalla ricerca scientifica e tecnologica alla regolazione delle imprese e alla politica di concorrenza, dalle politiche energetiche ed ambientali a quelle agricole e industriali, dall’educazione e dalla cultura ai diritti di proprietà intellettuale.

Tuttavia i dettagli e, soprattutto, gli obiettivi di tale partenariato strategico – menzionato anche nel Rapporto sulla Sicurezza Strategica Europea (ESS, dicembre 2003) e nella successiva Comunicazione della Commissione intitolata “Unione Europea e Cina, partner più vicini, responsabilità crescenti” (ottobre 2006) –, pur escludendo con chiarezza l’aspetto militare, non sono mai stati completamente definiti e hanno omesso la nuova dimensione geopolitica assunta dal colosso cinese. D’altra parte, gli obiettivi principali per i leader comunitari, in assenza di una visione politica effettivamente comune, sono la costante importazione di prodotti a basso costo, l’allargamento del mercato europeo nel sud-est asiatico, la possibilità di contare su un partner economico con cui instaurare un multilateralismo effettivo che porti ad una “global governance”. Dal canto suo, la Cina, nel mantenere semplicemente relazioni commerciali con l’Europa, spera di ottenere la garanzia dello status di economia di mercato (MES), di porre fine immediata all’embargo sulle armi, di assicurare la libertà di movimento dei propri cittadini e beni all’interno dello spazio europeo, di procurarsi il know-how necessario al potenziamento scientifico e tecnologico. L’Unione Europea per la Cina, quindi, non è altro che il più grande mercato su cui sfogare l’enorme produzione interna. Tuttavia è al di fuori dell’UE che la Cina trova la ragione della sua legittimazione internazionale.

Il nuovo impero cinese

Negli ultimi anni l’ex Celeste Impero, grazie alla sua diplomazia, ha tessuto una fitta rete di rapporti internazionali che lo rendono il principale attore asiatico in grado di connettere cinque regioni strategiche: la formazione del BRIC (con Brasile, Russia e India) e dell’alleanza strategica del Gruppo di Shanghai (SCO, di cui fanno parte anche Russia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan, Uzbekistan e che ha come osservatori Iran, India e Pakistan), è lo strumento attraverso cui la Cina intende imporre la propria egemonia economica e politica nell’Asia Centrale. E proprio verso l’Iran – contro cui sono state richieste dagli USA nuove sanzioni per il proseguimento del programma nucleare, sanzioni che la Cina ha nei giorni scorsi criticato aspramente pur finendo per approvarle – il Paese asiatico sta rivolgendo le sue attenzioni, sperando di costruire un polo di interesse alternativo a quello americano. In secondo luogo, attraverso il dialogo con l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (ASEAN) e attraverso il costante potenziamento della flotta, la Cina aspira a diventare, come le recenti vicende relative alla Corea, i rapporti con Taiwan e i contenziosi circa alcune isole nel Mar cinese meridionale hanno dimostrato, la prima potenza militare nella regione del sud-est asiatico, estromettendone gli Stati Uniti. Non di meno, la Cina sta rafforzando la sua influenza nella regione del Golfo Persico, allacciando relazioni sempre più strette con l’Arabia Saudita, alla quale ha venduto fin dagli anni Ottanta missili e armi e con la quale ha siglato dei memorandum di intesa per l’approvvigionamento energetico. Proprio la connessione fra petrolio e moneta costituisce il perno intorno a cui ruota la politica di ascesa della Cina. La “oil diplomacy” della Cina si dispiega su scala globale e gli introiti derivanti dai Paesi produttori di petrolio (così come quelli derivanti dalla cooperazione energetica con le regioni siberiane della Russia) vengono impiegati nella costruzione di infrastrutture in Asia, Africa e America Latina e nei fondi sovrani asiatici. Proprio in Africa, grazie al forum sino-africano (FOCAC) e ad investimenti ad ampio raggio all’interno di 49 Paesi su 53 del Continente nero, la Cina sta creando le premesse per un nuovo terreno di scontro con gli Stati Uniti. Infine, grazie agli investimenti che Pechino ha realizzato nel Sud America, Argentina e Brasile hanno potuto saldare i propri debiti con il Fondo Monetario Internazionale, togliendo agli USA una potente arma di ricatto.

In questo scenario si inseriscono, inoltre, le controverse relazioni con il Tibet – territorio fondamentale per l’accesso ad importanti risorse naturali – e con le minoranze di altre regioni interne, che, invece, godono dell’approvazione delle democrazie occidentali; infine, il segno tangibile dell’accresciuto peso della Cina è stato il fallimento della Conferenza di Copenaghen sul clima, in cui Pechino è riuscita a dettare le sue regole al momento della finalizzazione dell’accordo.

Questi ambiti, dunque, sono accomunati da una medesima strategia: l’indebolimento dell’Occidente e, in particolare, degli Stati Uniti. In questo gioco di forze, che potrebbe preludere alla creazione di un G2 con gli USA per un’effettiva governance mondiale, l’Unione Europea rischia di rimanere esclusa.

Ripensare la strategia europea

La Cina è diventato, quindi, un importante test per l’Unione Europea. Bruxelles dovrà dimostrare che le sue azioni non riguardano più il completamento dell’allargamento e del mercato interno, ma anche una globalità di aspetti e regioni mondiali. La sfida per i leader comunitari diventa inserire la Cina non più nel contesto di politiche commerciali o, comunque, di ampio raggio economico, ma nell’ambito di politiche di aspirazione mondiale.
La sfida per l’UE, che allo stato attuale delle cose non ha alcuna influenza politica sulle scelte di Hu Jintao, è capire, come suggerito dai maggiori think tank europei, di cosa la Cina ha bisogno e che soltanto l’Unione Europea può offrirle e garantirle.

Dopo la ratifica del Trattato di Lisbona – che conferisce all’UE una nuova credibilità a livello internazionale anche attraverso la ridefinizione del ruolo dell’Alto Rappresentante dell’Unione per gli Affari Esteri e la Politica di Sicurezza – e la creazione del “Servizio Europeo per l’Azione Esterna” (EEAS), Bruxelles ha la possibilità di agire su due diversi livelli per creare un’effettiva partnership strategica con Pechino: da un lato, date le tensioni nelle relazioni sino-americane, può rilanciare un coordinamento politico con Washington; dall’altro, rilanciando il partenariato Asia-Europa (ASEM, 1996), può realizzare una forte rete di collaborazione e coordinamento politico con i Paesi del sud-est asiatico.

Questa strategia ha, dunque, come presupposto l’abbandono delle politiche bilaterali con la Cina, per aprirsi ad un approccio multilaterale globale. In particolare, questa multilateralità deve esplicarsi non più su punti vaghi ed obiettivi incerti, ma su alcuni aspetti concreti: commercio e investimenti, industria e tecnologia, cambiamenti climatici, proliferazione nucleare e diritti umani. La multilateralità deve presupporre, inoltre, un sistema di “reciproco impegno”, prevedendo una serie di misure sanzionatorie qualora la Cina non rispetti gli accordi presi (per esempio, misure anti-dumping, sanzioni sulle importazioni illegali, sanzioni per la non collaborazione alle emissioni di CO2).

Creare un sistema di interdipendenza globale che imbrigli la Cina, la sua moneta, il suo sistema economico e sociale in una rete internazionale, può essere l’arma con cui l’Unione Europea può emergere anche come potenza mondiale capace di influenzare le scelte dei partner a livello regionale e globale. Questa partnership, infine, non può prescindere dal problema della sicurezza.

La Commissione Barroso I (2004-2009), infatti, pur rinnovando il vecchio accordo del 1985 (il nuovo “Partnership and Cooperation Agreement”, a cui si aggiungono i nuovi meeting UE-Cina), è risultata piuttosto debole nelle sue azioni verso Pechino. Tuttavia, dato il quadro internazionale e la criticità soprattutto della regione mediorientale, e dato il rinnovamento politico e istituzionale dell’UE anche grazie al passaggio dell’Unione Europea Occidentale (UEO) sotto il controllo di Bruxelles, la Commissione Barroso II ha il compito di rafforzare il suo peso all’interno della NATO, in modo da creare un effettivo ed efficace blocco politico e strategico contrapposto a quello cinese, anche alla luce del futuro ingresso nel patto Atlantico di Paesi che hanno strette relazioni con il Continente asiatico. E, inoltre, non bisogna dimenticare il ruolo che il Partenariato Euro-Atlantico (EAPC) può giocare negli equilibri euroasiatici. Una potenza mondiale, quale l’Unione Europea potrebbe aspirare ad essere, necessita non solo di una “partnership strategica” di tipo economico, ma anche di una partnership in materia di sicurezza globale.


* Maria Serra è Dottoressa in Scienze Internazionali (Università di Siena)


Le opinioni espresse nell’articolo sono dell’Autrice e potrebbero non coincidere con quelle di “Eurasia”

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La Francia è sospettata di voler utilizzare l’UNIFIL contro la resistenza libanese

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Fonte: Voltaire

Degli incidenti hanno avuto luogo tra gli abitanti del villaggio Khirbit Silm e Tulin, con i soldati francesi della Forza interinale delle Nazioni Unite in Libano (UNIFIL), il 29 giugno, 3 e 4 luglio 2010.

Gli abitanti di queste due località, a sud del Paese, hanno protestato quando le forze di pace sono entrate nel loro villaggio, per eseguire manovre senza all’insaputa dell’esercito libanese. Hanno detto che i soldati hanno agito al di fuori del mandato ONU, hanno fatto fotografie, domande per identificare i membri della Resistenza, e violato le proprietà private.

Lo scenario dell’esercitazione UNIFIL immaginava un attacco con razzi contro Israele di Hezbollah, e la difesa di Israele da parte di UNIFIL.

Il ministro francese della Difesa, Herve Morin, ha recentemente dichiarato la sua intenzione di modificare le regole d’ingaggio nella missione UNIFIL, di integrarvi una unità di tipo GIGN, per perquisire le abitazioni dei presunti membri della resistenza alfine di sequestrare armi.

Gli abitanti dei villaggi, armati di bastoni e pietre, hanno ferito due soldati.

Un portavoce di Hezbollah, Ammar Moussawi, ha detto che le provocazioni dell’ UNIFIL e gli incidenti che hanno fatto seguito, erano destinate ad ingannare l’esercito libanese, una manipolazione che è fallita.

L’esercito libanese ha espresso il rammarico che i membri della missione UNIFIL aveva agito senza consultarlo, e gli ha garantito la sua protezione. Il Capo di Stato Maggiore ha rivelato che i soldati francesi dell’UNIFIL avevano ricevuto la richiesta israeliana di perquisire le case dei membri di Hezbollah. Ha ribadito che la difesa del Libano passa attraverso il coordinamento tra l’esercito e la Resistenza.

Una persona vicina alla Resistenza ha detto, al quotidiano As-Sharq al-Awsat, che questi eventi sono parte di un piano d’ingerenza francese.

Il Consiglio di Sicurezza ha adottato, il 9 Luglio 2010, una dichiarazione letta dal suo Presidente, che riafferma la missione UNIFIL. Questo testo è stato elaborato dalla Francia.

Ricevendo il Primo Ministro libanese Hariri al palazzo dell’Eliseo, il presidente francese Nicolas Sarkozy l’ha messo in guardia sulla situazione nel Libano meridionale.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Gli Stati Uniti, negli aiuti umanitari, penalizzano i gruppi che descrivono come terroristi

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Fonte: Voltairenet.org

La Corte Suprema degli Stati Uniti s’è occupata della costituzionalità della ‘Legge sull’anti-terrorismo e l’effettiva applicazione della pena di morte del 1996’ (Antiterrorism and Effective Death Penalty Act of 1996).

Questo testo, introdotto dal presidente della Camera dei Rappresentanti Newt Gingrich, è stato adottato per consenso, in risposta all’attentato di Oklahoma City, e promulgato con entusiasmo dal presidente Bill Clinton.

Una delle sue disposizioni era stata ampiamente criticata. Prevedeva di limitare a una sola la possibile richiesta di scarcerazione (“richiesta di habeas corpus”) di un sospetto accusato di terrorismo. Nella sua decisione Felker vs Turpin (1997), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha confermato che questa limitazione non viola l’articolo 1, sezione 9, paragrafo 2 della Costituzione. Non si tratta, in effetti, a rigor di logica, di una proroga della custodia cautelare, anche se una volta respinto l’appello iniziale, nulla osta a che la detenzione diventi illimitata.

Un’altra disposizione della legge resta da commentare. Essa vieta di fornire consapevolmente assistenza di qualsiasi natura, fatta eccezione per i servizi medici o religiosi, ad una organizzazione terroristica straniera. Su denuncia delle amministrazioni successive, Clinton, Bush e Obama, i giudici hanno ritenuto, dopo una dozzina d’anni, che ciò si applica ad una associazione che ha fornito consulenza legale al PKK e alle Tigri Tamil, anche se la consulenza era volta a trovare una soluzione pacifica al conflitto curdo e tamil, portando i casi alle Nazioni Unite. Nella sua decisione Holder versus Humanitarian Law Project, rilasciata il 21 Giugno 2010, la Corte afferma: Che i termini della legge sono abbastanza chiari sul fatto che l’imputato non abbia alcun dubbio su ciò che è vietato.

Che questo divieto non viola il suo diritto di espressione, dal momento che nulla impedisce a un imputato di esprimere il proprio sostegno a cause difese dai terroristi;

Che tale divieto non viola il suo diritto di associazione, perché non vieta di incontrare i terroristi e di discutere con loro.

Come sempre, la Corte Suprema degli Stati Uniti si è basata su una visione puritana dell’uomo. Come i puritani non vogliono aiutare il peccatore in difficoltà, perché non ha rinunciato espressamente al peccato, così la Corte ha vietato di assistere i terroristi, fino a che non abbiano rinunciato alle azioni armate. Perché secondo essa, uno che li aiuta sul piano legale, educativo, culturale, sociale o altro, consente loro di conservare le energie per compiere il Male.

Resta il fatto che nella legislazione statunitense, un’organizzazione terroristica non è una organizzazione che è stato condannato per reati specifici, ma un gruppo designato come tale dal Dipartimento di Stato, su dei criteri politici.

Pertanto, tutti i tipi di azione possono essere sanzionati come “terroristici” da parte dei tribunali degli Stati Uniti. E’, per esempio, il caso degli aiuti alimentari delle Nazioni Unite agli abitanti di Gaza, dal momento che è distribuito dai funzionari locali di Gaza, che sono membri di Hamas.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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La Duma della Russia approva il disegno di legge per l’espansione dei poteri della FSB

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Fonte: RussiaToday http://rt.com/Politics/2010-07-16/duma-fsb-bill-powers.html/print

16 Luglio 2010

Il parlamento russo ha approvato una proposta di legge del governo, per ampliare i poteri del Servizio di Sicurezza Federale (FSB). I Deputati vantano  anche un numero record di leggi approvate nel corso della sessione primaverile.

Il disegno di legge per l’FSB, consente ai capi degli organismi dell’Agenzia, o ai loro delegati, di rilasciare le avvertenze ai cittadini sulle azioni che potrebbero portare a commettere reati, l’indagine preliminare in ciò che per legge si riferisce alle competenze dell’FSB.

Se l’informazione ottenuta è “sufficiente ed è confermata“, gli organismi della FSB presenteranno lettere all’agenzia di stato corrispondente, o alla direzione di una società, che richiede una richiesta di mandato sulle ragioni e condizioni che consentano il riconoscimento delle minacce alla sicurezza dello Stato.

Il disprezzo per l’ordine legittimo di un ufficiale dell’FSB, da parte di funzionari, comporta una multa o un arresto amministrativo fino a 15 giorni. Ma la disposizione non riguarda i privati. La Duma ha apportato modifiche corrispondenti alla legge sul Servizio Federale di Sicurezza e al Codice degli illeciti amministrativi.

Molti attivisti dei diritti umani e politici hanno criticato il disegno di legge. “Non vi è alcuna indicazione di una lotta contro il terrorismo, o la prevenzione di esso, e non è di alcun beneficio per nessuno“, affermava Interfax, citando il leader del partito Jabloko, Sergej Mitrokhin. Il partito liberale non è rappresentato in parlamento.

Nessun gruppo sociale ne avrà beneficio, ad eccezione dell’elite oligarchica di governo, che si aggrappa al potere e alla ricchezza che porta al potere“, ha detto Mitrokhin.

Leonid Gozman, co-presidente del partito della Giusta Causa, ritiene che il disegno di legge darà all’FSB il via libera ufficiale per fare pressione sui cittadini. “Facciamo un enorme passo dalla democrazia allo stato di polizia”, ha osservato.

Il presidente Dmitrij Medvedev ha detto, il 15 luglio, che gli emendamenti all’espansione dei poteri del Servizio Federale di Sicurezza poteri sono stati presentati al parlamento per suo ordine diretto.

Il presidente deve mantenere “un equilibrio di forze al vertice“, ha detto Gozman. Tuttavia, ha detto a Interfax che la legislazione “in qualche misura, contraddice ciò che [Medvedev] ha detto e fatto nei mesi passati“.

Il gruppo per i diritti umani Memorial, ha chiesto al presidente, il 15 luglio, di porre il veto alla legge. Il gruppo ha descritto la legislazione come “in parte inutile e in parte pericolosa per la libertà pubblica“.
La Duma stabilisce il record di leggi approvate

Durante la sua sessione di primavera, che si è conclusa questo Venerdì, la Duma ha approvato 249 leggi, ha detto lo speaker del Parlamento, Boris Gryzlov, riassumendo i risultati del lavoro dei deputati. Si tratta di “una cifra record” non solo per la quinta Duma, ma per l’intera storia della Duma di Stato, ha sottolineato.

Tra le leggi più importanti, vi sono quelle ad iniziativa presidenziale per rafforzare il partito e il sistema elettorale a livello regionale, ha detto Gryzlov. Ritiene che i deputati abbiano anche contribuito a superare le conseguenze della crisi economica globale.

I leader del partito di governo, Russia Unita, di Russia Giusta e del Partito Liberal Democratico, hanno espresso soddisfazione per i principali risultati della sessione di primavera. Tuttavia, i comunisti sono delusi.

Prendendo atto di “certi momenti positivi“, il vice speaker della Duma Ivan Melnikov, del partito comunista, ha detto che “ci sono stati molti momenti negativi.” La sessione non ha soddisfatto le aspettative dichiarate lo scorso autunno, nel discorso presidenziale al parlamento, ha detto.

La sessione autunnale avrà inizio l’8 settembre con oltre 560 leggi  sul tavolo della Duma. Più di 80 richiedono un esame prioritario, nota Gryzlov. Una delle questioni più importanti è la ratifica del Trattato Russia-USA sulla riduzione degli armamenti strategici. I legislatori della Russia e degli Stati Uniti possono sincronizzare la ratifica dello START, l’oratore ha detto lo speaker.

Traduzione di Alessandro Lattanzio
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Caos all’uscita dal tunnel afghano

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La storia è governata da un inesorabile determinismo in cui la libera scelta dei principali personaggi storici ha un ruolo marginale”,  Leone Tolstoj

Gli americani hanno gli orologi, ma noi abbiamo il tempo”,  un membro di una tribù afghana

I recenti avvenimenti riguardanti l’Afghanistan non dovrebbero generare confusione. La coalizione formata da Stati Uniti e Nato ha perso una guerra che i suoi leader politici non hanno mai voluto, e non hanno mai saputo come, vincere”,  Michael Scheuer, ex capo dell’unità Cia a caccia di Bin Laden.

Per preparare gli americani, in special modo coloro che rifiutano di accettare il declino dell’egemonia statunitense, nel suo saggio pubblicato su nationalinterest.com il professor Paul Kennedy – che nel 1987 scrisse un’opera pionieristica intitolata The Rise and Fall of the Great Powers – cerca di preparare i credenti nella validità eterna del “destino manifesto” degli Usa al ridimensionamento della potenza e dell’influenza di Washington.

Dopo una lucida esposizione della storia europea degli ultimi cinque anni, il prof. Kennedy biasima gli imperialisti, i neo-con e i “sio-con” statunitensi, in particolare per l’uso inappropriato della parola appeasement nella sua accezione più comune: resa. Secondo il prof. Kennedy, per il primo ministro Neville Chamberlain a Monaco si trattò di una mossa strategica, e non di una resa.

Nel suo libro, il prof. Kennedy mise in evidenza lo stretto legame esistente tra economia, potere e strategia politica negli ultimi cinque secoli, forse per la prima volta in un’opera storica. Il libro prevedeva che gli Stati Uniti si sarebbero esposti troppo e che avrebbero potuto subire un declino; tutto questo si è avverato, sebbene all’epoca una tale blasfemia sia stata oggetto di scherno da parte di molti, soprattutto perché l’Unione Sovietica stava già smembrandosi e il Giappone non era riuscito ad acquisire un vero potere.

Il libro, tradotto in 23 lingue, venne accolto molto positivamente dagli altri storici, come A.J.P. Taylor, sir Michael Howard e altri. L’autore di questo articolo, che all’epoca (1987-89) partecipava all’istituzione della Scuola diplomatica per i funzionari del Ministero degli Esteri indiano, raccomandò il libro come lettura obbligatoria, tra l’altro, per tutti coloro che si apprestavano a intraprendere la carriera diplomatica.

Per la prima volta, nel  libro si stimava che la percentuale di partecipazione dell’Hindustan (il subcontinente) e della Cina all’economia mondiale ammontava rispettivamente al 24,5% e al 32,8% nel 1750, anno in cui le compagnie commerciali e d’invasione occidentali giunsero in Asia; dopo che queste ultime ebbero colonizzato e razziato il continente, nel 1900 le percentuali scesero all’1,7% e 6,2% rispettivamente, mentre quella dell’Europa, in particolare quella britannica che passò dall’1,9% al 18,5%, aumentò fino al 62%. L’Asia assicurò le materie prime e i mercati protetti che favorirono l’industrializzazione dell’Europa, mentre la ricchezza estorta alle colonie servì a espandere e a mantenere l’Impero britannico, su cui il sole non tramontava mai. Non dovrebbe quindi sorprendere che la percentuale di partecipazione di Cina e Hindustan all’economia mondiale stia di nuovo aumentando.

Prima di considerare ciò che il prof. Kennedy afferma a proposito di Afghanistan e Pakistan nel suo saggio, si presenteranno alcuni dati storici, geografici e psicologici riguardanti l’Asia meridionale e le regioni immediatamente confinanti.

La configurazione geopolitica di India e Pakistan

Per quanto riguarda la configurazione geopolitica dell’Hindustan o Asia meridionale, coloro che oggi prevalgono in Pakistan – ossia i musulmani dal Punjab a Lahore e Islamabad – nel corso della storia hanno provato invidia per coloro che governavano l’Hindustan e che avevano stabilito la propria capitale sulla Yamuna a Delhi o Agra, disponendo di vasti territori a cui imporre tasse, anche senza il Deccan. Essi invitarono i Moghul a invadere l’Hindustan quando gli afghani erano al potere a Delhi. Poi invitarono i Pathan e gli iraniani quando i Moghul detenevano il potere a Delhi. La religione di chi era al potere a Delhi era irrilevante. Per difendersi, l’Hindustan avrebbe dovuto controllare Kabul, se non anche Kandahar, come successe all’epoca dei primi Moghul. Una volta che Kabul e Kandahar andarono perdute, l’Hindustan divenne preda degli invasori. E le genti del Punjab parteciparono alle razzie, depredando gli invasori se questi non avevano successo.

Oggi è in atto lo stesso paradigma strategico. Le potenze straniere – prima la Gran Bretagna, poi gli Usa e la Cina – sono dietro alle violente contese che hanno visto il Pakistan opporsi all’India, prima nel 1947, poi nel 1965 e infine con la guerra di Kargil, per citare alcuni episodi. In questo processo, il Pakistan è stato afflitto dalla diffusione dell’oppio (nella cui coltivazione e vendita di contrabbando le élite pakistane, specialmente individui provenienti dall’esercito e dall’ISI, sono coinvolte sia per finanziare le proprie attività sia per incrementare la ricchezza personale) e dei kalashnikov e continua a invidiare il progresso economico dell’India.

La debolezza dell’India

Grandi pensatori nel campo della metafisica e delle questioni spirituali, con una visione del mondo interiore simile a una rana in un pozzo, nel corso della storia gli indiani hanno mostrato raramente di possedere l’intelligenza tattica e la mancanza di scrupoli necessaria ad adottare decisioni strategiche. C’è qualcosa che non va nel clima sicofantico di Delhi e dell’Hindustan, a prescindere dal fatto che i leader siano induisti o musulmani. Tra i pochi regnanti dotati di una mentalità e di capacità strategiche ci furono i Maurya, che avevano la loro capitale a Pataliputra e dislocarono il principe ereditario a Ujjain per respingere l’invasione dall’Hindukush e scontrarsi con l’invasore nel percorso prescelto: il Sind-Gujarat  o Punjab e le montagne ai piedi dell’Himalaya. Allo stesso modo i primi Moghul; dopo aver costruito la sua lussuosa capitale a Fatepur Sikri, Akbar passò circa dieci anni nei pressi di Lahore per contrastare l’arrivo dei mongoli e di altri popoli radunatisi nella regione dell’Hindukush. In epoca moderna, c’è stata Indira Gandhi che, invece di rastrellare in tutto il mondo (come sta invece facendo l’attuale leadership in seguito allo stupro della capitale economica e culturale dell’India  avvenuto il 26 novembre 2008) per evitare l’afflusso di rifugiati provenienti dal Pakistan orientale, sfruttò la situazione e divise in due il Pakistan. Ci sono stati ancora pochi altri, come il maharaja Sikh Ranjit Singh e Tippu Sultan, ma le tele che tessero furono di gran lunga meno ampie.

Come è stato ricordato scherzando, salvo il mitico re Poro che oppose una forte resistenza all’avanzata di Alessandro Magno, la regione tra Peshawar e Panipat è sempre rimasta porosa per gli invasori provenienti da nord-ovest. Sopravvivere a tutte le avversità è la qualità delle genti della regione, che sono dinamiche, lavorano sodo e tra loro ci sono delle buone guide, che tuttavia non sono abbastanza perspicaci da assumere il controllo supremo. Solo raramente hanno dato vita a grandi regni, come evidenziò Rajiv Gandhi durante l’insurrezione del Punjab indiano supportata dal Pakistan, e l’unico Stato di una certa importanza in quella regione venne creato dal maharaja Sikh Ranjit Singh a Lahore.

Durante l’epoca coloniale e dopo la partizione dell’India, gli inglesi, seguendo il principio imperialista del divide et impera, hanno sfruttato la rivalità tra induisti e musulmani. La bugia che hanno lasciato durevolmente in eredità consiste nell’aver inculcato ai pakistani l’idea che essi sono più coraggiosi degli indiani e degli induisti. Naturalmente alcuni pakistani ci hanno ricamato sopra, rintracciando le origini del proprio popolo in Asia centrale, in Afghanistan, in Iran e nelle terre arabe. Quando si schierarono con gli inglesi all’epoca in cui gli abitanti dell’Hindustan insorsero contro la Compagnia delle Indie Orientali nel 1957, i pakistani vennero classificati come una razza marziale e destinati a carne da macello per l’impero a causa del loro tradimento. Il giornalista e storico S. Khuswant Singh ha ricordato che il Punjab venne conquistato dagli inglesi con truppe indiane provenienti dal Bengala, dal Bihar e dall’Orissa. Gran parte dei pakistani e dei musulmani in India erano in origine individui provenienti dall’Hindustan e dal Deccan che si sono poi convertiti.

Un altro esempio. Nell’odierna Repubblica turca, coloro che giunsero dall’Asia centrale – ossia i turcomanni e altre tribù altaiche – e che diedero vita all’impero selgiuchida e ottomano costituiscono il 12-15% del totale. Ironia della sorte, gran parte di essi sono aleviti e seguono una forma sciita dell’Islam, che trae origine dalla loro visione cattolica centroasiatica che rispetta e accoglie spunti da tutti i credo, a partire da Tengri (il dio turcomanno che simboleggia il cielo) agli sciamani, fino al buddhismo, il cristianesimo, evolvendo infine in una versione sufita umanistica dell’Islam. Gli aleviti non sono trattati molto meglio degli ahmadi, dei qadiani e persino dei mohajir (emigrati dall’attuale India) in Pakistan. Di tanto in tanto, devono far fronte a pogrom da parte dei turchi sunniti. I cittadini turchi discendono in gran parte dagli abitanti originari dell’Asia minore, che parlavano greco quando vennero conquistati, e dai migranti delle province ottomane dell’Europa orientale. Il paese venne islamizzato e turchizzato dopo la disfatta dell’esercito bizantino a opera dei turchi selgiuchidi sul lago Van nell’XI secolo e la conquista nel 1453 di Costantinopoli, l’odierna Istanbul.

Ma non sono in molti a conoscere l’influenza e il contributo del Buddhismo all’Islam sufita, sebbene il contributo dei santi sufiti dal Khorasan e dall’Asia centrale sia riconosciuta. L’Islam si diffuse nel subcontinente in gran parte per opera dei santi sufiti.

Le comunità altaiche nell’Asia centrale costituiscono una piccola parte della popolazione dell’Asia meridionale, della Turchia e via dicendo. Dunque la leggenda secondo cui queste facevano parte del gruppo di invasori è evidentemente falsa. In ogni caso i mongoli e le loro orde, le tribù altaiche e altre che devastarono e dominarono l’Asia e l’Europa orientale per oltre un secolo sono stati dominati col pugno di ferro dai russi, da cui si affrancarono in seguito al crollo dell’Urss. L’epoca del predominio basato sulla bruta forza fisica è finita già da tempo, altrimenti i neri negli Stati Uniti e gli africani tra gli altri, che dominano in campo sportivo, controllerebbero il mondo.

Il petrolio mediorientale e la partizione del Pakistan

Si consideri ora la raison d’être per cui venne creato il Pakistan. Già prima della Seconda guerra mondiale era divenuto chiaro che il petrolio rivestiva un’importanza capitale per affrontare le guerre e sostenere l’economia. Negli anni quaranta gli inglesi, che dominavano il Medio Oriente e amministravano ancora l’India, consapevoli dell’importanza del petrolio e dell’importanza strategica del Medio Oriente quale ancora di salvezza per l’India, strinsero alleanze militari con la maggior parte dei paesi mediorientali, incluso l’Iran, per proteggere i propri pozzi di petrolio dall’Unione Sovietica.

Gli inglesi, quindi, crearono un Pakistan debole e dipendente che fungesse da baluardo contro qualsiasi mira dell’Unione Sovietica sul Golfo e l’Asia meridionale. Lo Stato voluto dagli inglesi aveva il destino segnato sin dall’inizio. Nel 1972, quando l’autore di questo articolo venne assegnato ad Ankara, i turchi non si stupirono della divisione del Pakistan.

Nel suo libro ben documentato The Shadow of the Great Game: The Untold Story of India’s Partition e basato su documenti inglesi, un ex diplomatico indiano, Narendra Singh Sarila, rivela che dopo la Seconda guerra mondiale, avendo ormai compreso che Londra avrebbe dovuto liberare l’India dal suo giogo, la classe dirigente inglese di ogni orientamento politico, conservatore e laburista allo stesso modo, tramò, raccontò una serie di bugie e infine divise il subcontinente indiano creando lo stato del Pakistan. Questo perché a causa della dottrina della non violenza e della pace propugnata da Gandhi, nonché l’idealismo non strategico e la visione di Jawaharlal Nehru per la creazione di un rapporto di amicizia e solidarietà tra i popoli colonizzati e sfruttati nel mondo intero, Nuova Dehli non avrebbe mai firmato i patti militari occidentali per proteggere i giacimenti di petrolio mediorientali dall’Unione Sovietica.

L’obiettivo finale degli inglesi era quello di mantenere il controllo su almeno una parte dell’India nordoccidentale, per scopi difensivi e offensivi nei confronti dell’Urss in caso di future concessioni nel subcontinente. E gli inglesi sapevano che questo obiettivo sarebbe stato raggiunto più facilmente se un Pakistan zelante e obbediente avesse stretto con loro un rapporto clientelare. L’unico modo per ottenere tutto questo era quello di usare Jinnah per staccare una parte dell’India, che confina con Iran, Afghanistan e lo Xinjiang e crearvi un nuovo Stato. Sarila documenta nei dettagli il fatto che, al termine della Seconda guerra mondiale, il nuovo governo laburista di Clement Attlee e Wavell decisero di dividere l’India e usarono Jinnah e i movimenti politici islamici per proteggere i propri interessi strategici.

In un telegramma segreto datato 6 febbraio 1946 e indirizzato al Segretario di Stato a Londra, Lord Wavell spiegava a grandi linee come avrebbe dovuto essere divisa l’India. Il  3 giugno 1947 il ministro degli esteri inglese Ernest Bevin, in un discorso tenuto all’assemblea annuale del partito laburista, rivelò che la divisione dell’India “avrebbe contribuito a consolidare la posizione della Gran Bretagna nel Medio Oriente”.

Sarila illustra inoltre le origini dell’attuale problema in Kashmir e come la questione venne gestita alle Nazioni Unite in modo da favorire l’alleato pakistano. Il fatto che l’India non avrebbe dovuto avere un accesso diretto via terra in Asia centrale, nemmeno attraverso l’Afghanistan, e che questo causò la perfida politica dell’Occidente riguardo alla questione del Kashmir è stato affermato chiaramente anche nel libro War and Diplomacy in Kashmir, 1947-48, di un altro diplomatico indiano, C. Das Gupta.

L’asse militare Usa-Pakistan

A differenza di quanto accadde in India, all’inizio in Pakistan non esistevano organizzazioni politiche popolari forti, mentre i funzionari civili dell’epoca britannica rafforzarono il controllo dell’apparato burocratico sull’entità politica e sulle decisioni da prendere e ben presto invocarono un aiuto militare. Poco dopo il generale Ayub Khan, incoraggiato dai militari americani, cercò di stringere rapporti di cooperazioni più stretti con il Pentagono. E nel 1958 i militari si impadronirono del paese, mentre Ayub Khan, un semplice colonnello all’epoca della divisione, si promosse ben presto al rango di feldmaresciallo. Egli cacciò via gli ufficiali che non volevano sottostare al piano anglosassone che prevedeva di sfruttare la posizione strategica del Pakistan nell’ambito delle mutevoli contese della Guerra fredda contro il blocco comunista.

Il generale Zia ul-Haq fu un abile macchinatore, un vero mullah in uniforme. Mentre seduceva i mezzi di comunicazione dell’India del Nord (che un altro generale, Parvez Musharraf, trattò con atteggiamento sprezzante ad Agra nel 2001) con generosi encomi e kebab, il generale pianificò l’operazione Topaz, che nel 1989 alimentò l’insurrezione in Kashmir. L’islamizzazione del paese a cui diede impulso rese la situazione per le donne e per le minoranze insostenibile. In seguito alla sentenza di esecuzione di Zulfiqar Ali Bhutto nel 1977, il generale Zia divenne un paria; ma nel 1979, dopo l’invasione sovietica dell’Afghanistan, divenne nuovamente caro agli Stati Uniti, i quali ripristinarono e rafforzarono notevolmente i legami militari del Pakistan con il Pentagono.

Questo fece sì che il controllo sul Pakistan da parte dei militari e dell’ISI diventasse pervasivo, onnipotente, onnisciente e minaccioso per il paese stesso. Questa alleanza difensiva, le cui radici risalgono all’epoca di Ayub Khan, e la relazione simbiotica tra l’ISI e la CIA, rafforzata dal generale Zia, non sono mai venute meno e le probabilità che questo accada sono poche. Washington preferisce avere a che fare con i militari e con altri dittatori, che sono più facilmente gestibili.

Come all’epoca dell’entrata delle truppe sovietiche in Afghanistan nel 1979, causata dalle provocazioni degli Usa e dal sostegno ai jihadisti afghani (come arrogantemente ammesso da Zbigniew Brzezinski, consigliere della sicurezza nazionale di Carter, al settimanale francese Le Nouvel Observateur), l’11 settembre ha nuovamente posto la necessità che il Pakistan si conformasse nuovamente agli obiettivi degli Stati Uniti (Washington minacciò persino di radere al suolo il Pakistan con le bombe se non avesse obbedito). Washington aveva bisogno del Pakistan per proteggersi dalla cosiddetta ritorsione della sua precedente politica in Afghanistan con cui aveva creato i Mujaheddin, Al Qaeda e i Taliban. Gli Usa desideravano ardentemente impedire che il materiale nucleare o la bombe atomiche pakistane finissero nelle mani dei jihadisti. Secondo alcuni documenti, in questo caso si verificherebbe l’intervento delle forze speciali statunitensi, mentre secondo un altro documento le armi nucleari più importanti sarebbero state nascoste vicino al confine con la Cina, in modo da poter essere facilmente portate via. In ogni caso, la prospettiva è pericolosa, specialmente per i vicini del Pakistan, che ricatta regolarmente l’India, con grande sollievo per l’Occidente, che non esprime mai alcuna condanna. E pensare che l’Occidente si coalizza contro Tehran che arricchisce l’uranio per generare energia!

La creazione di vivai di terroristi in Afghanistan e Pakistan

Dal 1979 fino all’abbandono delle truppe sovietiche nel 1989, gli Usa, la Gran Bretagna, altri paesi occidentali, l’Arabia Saudita, altri paesi del Golfo o musulmani e persino la Cina (che ha venduto fucili d’assalto AKM e lanciarazzi RPG Type 69, mentre gli Stati Uniti hanno fornito addirittura sistemi missilistici antiaerei) hanno sfruttato i jihadisti come arma contro le forze russe in Afghanistan. Washington e Riyadh sono stati i principali finanziatori, per un totale di circa 10 miliardi di dollari per la guerra in Afghanistan (gli Stati Uniti hanno contribuito con 600 milioni di dollari l’anno di aiuti, una cifra analoga proveniva dagli Stati del Golfo). La CIA e i suoi alleati, l’ISI, l’MI6 britannico e altri hanno reclutato, equipaggiato e addestrato quasi 40 000 mujaheddin fanatici provenienti da 40 paesi musulmani tra cui il Pakistan, l’Arabia Saudita, l’Iran, l’Algeria e lo stesso Afghanistan. Il governo militare di Zia ha fondato circa 2500 scuole religiose, finanziate dall’Arabia Saudita e appoggiate dagli Stati Uniti. Circa 225 000 bambini iscritti in queste scuole sono stati addestrati a combattere come guerriglieri in Afghanistan e altrove. Non è stato speso neanche un centesimo a sostegno della popolazione o dell’economia aghane.

Tra coloro che risposero all’appello per la Jihad figura il miliardario saudita Osama bin Laden con le sue coorti. Sebbene nella sua violenta campagna contro gli interessi degli Stati Uniti bin Laden avesse attaccato alcune ambasciate americane nell’Africa orientale e gli Stati Uniti abbiano reagito attaccando i suoi campi di addestramento con missili, fu solo con l’attacco al World Trade Center di New York dell’11 settembre 2001 che gli Stati Uniti si resero conto della possibile minaccia posta dal terrorismo nucleare, con legami tra Al Qaeda, i Taliban e altri facenti capo al potente ISI nel Pakistan dotato di armi nucleari (naturalmente, molte persone, anche negli Stati Uniti, credono che l’11 settembre sia stata una montatura per fornire agli Stati Uniti un pretesto per attuare le sue invasioni illegali).

Dopo aver imposto il ritiro delle forze sovietiche dall’Afghanistan nel 1989, cui seguì lo sgretolamento e il crollo dell’Urss, l’Occidente dimenticò a lungo il mostro che aveva creato. Ma era ovvio che i vivai di terroristi lasciati a sud del ventre molle della Russia e proprio al di là del confine con la turbolenta provincia musulmana dello Xinxiang nella Repubblica cinese e con lo Jammu e Kashmir in India avrebbero prima o poi agito in maniera negativa in questi paesi. I mujaheddin mercenari, infatti, si animarono di vita propria. A centinaia fecero ritorno nei paesi d’origine, in Algeria, Cecenia, Kosovo e Kashmir per organizzare attentati terroristici in nome di Allah contro i seguaci della “corruzione” laica. Di fatto, Lashkar-e-Toiba, l’implacabile organizzazione nemica dell’India, nacque mentre l’Occidente e i paesi musulmani stavano intraprendendo la loro guerra contro l’Urss in Afghanistan. Per gli Stati Uniti si tratta solo di un danno collaterale per l’India. Un vero peccato!

Negli anni ottanta, la jihad sviluppò anche un cancro autoctono in Pakistan, che adesso minaccia seriamente di distruggere lo stesso Pakistan. Finita la Jihad contro le truppe sovietiche  in seguito al ritiro dei russi, nel 1990 l’ISI assegnò ai jihadisti un nuovo compito: seminare il terrore in Jammu e Kashmir. Guidati da veterani afghani, i combattenti vennero addestrati, equipaggiati e finanziati in segreto dall’ISI per combattere contro i soldati indiani in Kashmir. Migliaia vennero trasportati dagli Usa nei Balcani per combattere contro i serbi, dando loro un’esposizione internazionale. I migliori vennero poi inviati in Afghanistan per aiutare i Taliban contro le truppe della Nato e degli Stati Uniti che sostenevano a Kabul il governo di Hamid Karzai, imposto da Washington in Afghanistan nel 2002.

Il ruolo dei guerrieri islamici nella Storia

Le tensioni tra chi detiene il potere, il clero e i combattenti religiosi, ossia i Mir e i Pir, non si sono ancora allentate nel mondo islamico. Sembra andare a marcia indietro anche la moderna Turchia, l’unica nazione musulmana laica, dove il partito religioso dell’AK al potere è in ascesa, grazie ai miliardi investiti dai sauditi in Turchia e ai regali diretti al partito. I finanziamenti sauditi alle madrasah e alle moschee sono il principale ostacolo alla modernizzazione dell’istruzione e allo sviluppo della società islamica. La situazione rimarrà invariata finché la dinastia saudita protetta da Washington non sarà rovesciata.

Ascesa e declino dei giannizzeri nell’Impero ottomano. Un paragone con il potere dei Taliban

Poiché l’Iran divenne una barriera per il reclutamento dei turchi non musulmani dall’Asia centrale, una pratica che gli arabi avevano adottato, i sultani ottomani – successori dei turchi Selgiuchidi in Anatolia, come era chiamata allora la Turchia – conquistarono infine l’Impero bizantino e fecero di Costantinopoli, la capitale imperiale, la loro Istanbul. Poi cominciarono a reclutare ragazzi cristiani provenienti in gran parte dai Balcani ma anche dall’Anatolia per le loro famose truppe d’assalto, i giannizzeri, e per le posizioni più importanti dell’apparato amministrativo, con un sistema chiamato “Devshirme”.

Inizialmente basato sul reclutamento coatto, il sistema si trasformò progressivamente in un corpo – privilegiato e influente – di guerrieri che prevedeva la conversione dei ragazzi cristiani all’Islam, i quali imparavano le arti marziali turche. A differenza dei coscritti feudali, i giannizzeri giuravano fedeltà esclusivamente al sultano. Un rigido addestramento e un codice morale severo li rese qualcosa di più che un’impressionante forza militare, ossia un’entità politica dal potere talmente sconfinato (predecessori dell’ISI e dei Taliban loro protetti?) da contribuire involontariamente alla caduta dello stesso Impero. I giannizzeri furono un fattore importante nell’espansione militare dell’Impero ottomano, a partire dalla presa di Costantinopoli nel 1453 fino alle battaglie contro l’Impero austro-ungarico (il Pakistan in mano a individui del Punjab spera di estendere il predominio sull’Afghanistan e oltre; molti amministratori pakistani come il generale Zia sognavano di creare dei califfati).

Man mano che il potere ottomano aumentava, una serie di rivolte dei giannizzeri procurò loro molto potere. La prima rivolta dei giannizzeri nel 1449 servì da modello per molte altre rivolte successive, ognuna delle quali procurava più potere e denaro. I giannizzeri raggiunsero un livello d’influenza talmente elevato che alla fine del XVII secolo la burocrazia ottomana era di fatto ostaggio dei loro capricci e desideri. Un ammutinamento generò un cambiamento nell’atteggiamento seguito dai politici. I giannizzeri finirono con l’organizzare colpi di stato volti a rovesciare addirittura i sultani che non accontentavano le loro richieste. I giannizzeri posero davanti a qualsiasi altra cosa il loro interesse personale e ostacolarono la modernizzazione dell’esercito (i militanti pakistani/jihadisti legati ad Al Qaeda hanno tentato di assassinare il presidente Musharraf e hanno attaccato molti importanti santuari inclusi quelli dei Santi sufiti a Lahore e persino posti di polizia e dell’esercito).

Nel 1807, i giannizzeri insorsero contro il sultano Selim III e lo sostituirono con Mahmud II, il quale decise infine di decimare i giannizzeri per preservare l’impero. Nell’estate del 1826, quando i giannizzeri organizzarono un’altra rivolta, il resto dell’esercito e il popolo si schierarono contro di loro. I giannizzeri, infine, dovettero affrontare la morte oppure l’abbandono  e l’esilio. I sopravvissuti furono messi al bando e le loro ricchezze sequestrate dallo Stato.

Come nel sultanato d’Iconio, negli anni ottanta i pakistani – guidati dal presidente religioso Zia-ul-haq- inviarono in Afghanistan jihadisti e militanti, ossia ghazi dei giorni nostri, che imposero l’abbandono dell’Afghanistan da parte dei sovietici. Infine il Comunismo, danneggiato dal nazionalismo slavo e dal cristianesimo ortodosso, crollò all’inizio degli anni novanta.

Se il Pakistan riuscisse ad annientare i Taliban…

Un insieme composto da vari miliziani, predoni, fanatici religiosi, nazionalisti e capoclan etichettati come Al Qaeda, Taliban, Taliban pakistani a via dicendo sono in qualche modo simili ai giannizzeri dell’Impero ottomano, la forza militare più efficiente che nel passato terrorizzò i cristiani europei. Ma ben presto, invece di spargere il terrore tra i nemici degli ottomani, essi minacciarono i sultani e alla fine i giannizzeri dovettero essere annientati. Riuscirà il Pakistan a fare la stessa cosa, ossia a distruggere i Taliban pakistani? È una bella domanda. Forse il generale Musharraf avrebbe potuto farlo dopo l’11 settembre. Adesso invece bisognerebbe pagare un prezzo molto alto.

L’ennesimo asse Usa (Israele, Gran Bretagna) – dinastia saudita/wahabita – esercito pakistano/ISI

Al termine della Seconda guerra mondiale, Washington – che aveva procrastinato l’entrata in guerra in modo che la Gran Bretagna subisse perdite e si indebolisse – si autoproclamò ufficialmente capo delle nazioni cristiane occidentali. Già al termine del primo conflitto mondiale il centro del potere economico aveva cominciato a spostarsi dalla City di Londra verso Wall Street; ma Londra possiede ancora un grande potere di manipolazione e inganno.

A partire dagli anni cinquanta, l’Urss cominciò a interessarsi a molti Stati arabi guidati da leader laici e nazionalisti, come Abdul Gamal Nasser in Egitto. L’Occidente si servì della religione e di capi di Stato conservatori e dalle cariche ereditarie per contrastare le ondate di egualitarismo socialista che investirono il Medio Oriente, l’Asia e l’Africa. La lotta per ottenere l’influenza e il controllo su questi paesi da parte dell’Occidente e dell’Urss (con la Cina) ha visto molti capovolgimenti di fronte.

Un cambiamento fondamentale fu determinato dalla perdita dell’Iran nel 1979, quando lo Shah in Shah – il guardiano degli Stati Uniti in quella regione – venne rovesciato dalla rivoluzione sciita guidata da Khomeini, mettendo in pericolo gli alleati degli Stati Uniti, ossia l’Arabia Saudita e altri sceiccati e regni nella regione. Il mondo occidentale e i suoi impauriti alleati in quella regione, scioccati, incoraggiarono e fornirono aiuti economici e militari a Saddam Hussein, affinché spegnesse le fiamme che eruttavano dal vulcano della rivoluzione sciita con la fede nel martirio. Iran e Iraq persero oltre un milione di giovani. La guerra degli anni Ottanta tra Iran e Iraq servì solo a proteggere gli interessi dell’Occidente e dei suoi alleati in quell’area. L’Iraq continua a subire perdite e a soffrire.

Dal Medio Oriente, la leva della strategia occidentale per manipolare e controllare la regione e le sue risorse si è espansa nell’Asia meridionale grazie a un asse tra Washington, i religiosi wahabiti dell’oscurantista dinastia saudita e l’esercito pakistano-ISI. Dalla caduta dello Shia, Israele continua a essere l’attuale guardiano di Washington in Medio Oriente, cosa che ha reso Tel Aviv più esigente e irresponsabile nei suoi comportamenti. La sua importanza strategica non diminuirà, anche se gli Stati Uniti hanno perso in Ucraina nei confronti della Russia, hanno avuto un’attitudine esitante in Kirghizistan e l’alleato georgiano è stato duramente colpito due anni fa da Mosca, allo stesso modo degli invincibili carri armati e dei famigerati commando militari israeliani per mano dei guerriglieri Hezbollah nel Libano meridionale durante la guerra del 2006.

I vivai di terroristi di cui ci si era dimenticati si sono trasformati in Al Qaeda e nei Taliban, questi ultimi creati dal Pakistan con l’appoggio dei governanti arabi dei Paesi del Golfo e il consenso statunitense, dal momento che Washington voleva un Afghanistan “stabile” per gli oleodotti della sua multinazionale UNOCAL, che dovevano trasportare petrolio dall’Asia centrale a quella meridionale e oltre. Questo sogno non si è ancora realizzato.

In cambio della sua cooperazione, il presidente pakistano Zia-ul-Haq ricevette un adeguato compenso in denaro e aiuti militari che permisero a Islamabad di invadere il Kargil, in India. In abbondanza di armi, il Pakistan acquisì una cultura della violenza e aumentò la produzione di oppio in Afghanistan, rendendo inoltre milioni di suoi cittadini dipendenti dalla droga. Il generale Zia islamizzò il Pakistan e portò a termine il programma per la costruzione della bomba atomica con l’aiuto della Cina e con l’assenso e persino l’appoggio dell’Occidente.

Ma il capo di Al Qaeda Osam bin Laden, scelto per la Jihad in Afghanistan dai governanti sauditi, sognava di conquistare quegli Stati musulmani che si erano allontanati dall’ideologia salafita/wahabita e di convertire altri popoli all’Islam. Le vittime di questo disegno sono l’India e gli Stati dell’Europa centrale di recente indipendenza come il Tajikistan, il Kirgizistan e l’Uzbekistan e gli Stati arabi che hanno appoggiato la guerra e inviato volontari per combattere in Afghanistan.

I tragici eventi dell’11 settembre hanno mostrato chiaramente le contraddizioni di fondo dell’asse Usa-Arabia Saudita-Pakistan, dal momento che 14 dei 19 dirottatori erano di origine saudita ed erano guidati da un egiziano, mentre le ramificazioni dei Taliban e di Al Qaeda nell’esercito, nell’ISI e nella classe dirigente del Pakistan e viceversa erano profondissime.

Sebbene i dirottatori dell’11 settembre fossero sauditi, gli Stati Uniti – che avevano vinto in seguito alla caduta del muro di Berlino nel 1990 ed erano divenuti l’unica superpotenza mondiale – organizzarono invece un’invasione in Afghanistan, nell’ambito della cosiddetta “Guerra al Terrorismo”; in realtà l’obiettivo era quello di costruire basi militari per controllare la regione ed espandere la minaccia e il dominio di Washington in Asia centrale, ricca di petrolio e altre risorse.

Ma le tensioni all’interno dell’asse stretto tra crociati e jihadisti divennero intollerabili dopo che gli Stati Uniti invasero illegalmente l’Iraq nel marzo del 2003, provocando la rabbia e l’ostilità delle masse di musulmani in tutto il mondo nei confronti di Usa, Gran Bretagna e degli altri Stati occidentali, sullo sfondo della persistente occupazione ed espansione illegale in territorio palestinese da parte di Israele sin dal 1967 e dell’uccisione quotidiana di palestinesi trasmessa da canali come Al Jazeera.

Divenne ben presto chiaro che i motivi addotti per l’invasione dell’Iraq erano in realtà delle menzogne. Il vicesegretario alla difesa Usa Paul Wolfowitz confessò subito dopo l’invasione che il vero motivo era il petrolio iracheno e il controllo della regione. Prima dell’invasione, in effetti, Wolfowitz aveva detto al Congresso che la guerra si sarebbe ripagata da sola grazie al petrolio iracheno. Recentemente l’ex capo della Federal Reserve Alan Greenspan lo ha confermato. Si è scoperto che i piani per impadronirsi dell’Iraq a causa delle sue riserve petrolifere erano stati redatti già prima che George Bush giurasse come presidente, dopo che venne dichiarato eletto in base a una incresciosa decisione della Corte Suprema.

Le relazioni Usa-Arabia Saudita sono basate ancora sullo sfruttamento occidentale del petrolio arabo in cambio della protezione alla dinastia saudita, cosa che conferisce a quest’ultima – in qualità di regnante nel principale Stato musulmano sunnita, dal momento che protegge i luoghi santi della Mecca e Medina e che possiede ingenti riserve di petrolio –  un potere sconfinato. Poiché dentro il regno l’appoggio pubblico nei confronti di Al Qaeda sta aumentando, Riyadh potrebbe correre gravi rischi. Il suo potere  e il suo prestigio sono scemati a seguito del rafforzamento della posizione della potenza sciita rivale dell’Iran in Iraq e in tutta la regione, proprio il contrario di ciò che Washington si aspettava prima dell’invasione nel 2003. Il presidente George Bush non conosceva nemmeno la differenza tra l’Islam sciita e sunnita e Ahmet Chalebi, un iracheno molto furbo in esilio in seguito alla caduta della dinastia Hashemita nel 1958, era riuscito a far credere agli uomini del Pentagono che le truppe americane sarebbero state accolte dagli iracheni con il tappeto rosso. Nessuno si è mai preoccupato di leggersi la storia dell’Iraq o della regione.

L’invasione e l’occupazione statunitense dell’Iraq ha diviso il paese in almeno tre parti: sciiti, sunniti e curdi. Ad oggi, sembra molto difficile, se non impossibile, sanare le spaccature e ripristinare l’unità tra loro.

Adesso Washington vuole che il Pakistan annienti Al Qaeda, i Taliban pashtun e i jihadisti musulmani in Pakistan e Afghanistan, con cui l’Arabia Saudita, l’esercito pakistano, l’ISI e la classe dirigente hanno legami strettissimi sin dall’epoca della Jihad contro l’URSS (adesso Israele vuole che l’OLP annienti Hamas, allineato a Teheran, creato in origine dal Mossad per contrastare Al Fattah).

Gli Stati Uniti hanno perso sul campo di battaglia la guerra in Iraq e la Nato è in forte affanno in Afghanistan. Alla fine dell’operazione “Iraqi freedom” – la madre di tutte le battaglie per il petrolio, le materie prime e uno spazio strategico nell’Asia occidentale, meridionale e centrale – i confini del Medio Oriente e del Pakistan verranno molto probabilmente ridisegnati, non dall’Occidente, ma dai movimenti, dalle milizie e dai popoli locali; per esempio in primo luogo dagli sciiti nell’Iraq meridionale e dai Pashtun lungo il confine tra Afghanistan e Pakistan, i quali potrebbero cancellare ufficialmente la linea Durand. Ma l’Occidente ha investito troppe risorse in questa regione e la sua ricchezza dipende da essa. Sono poche le probabilità che si arrenda o si rassegni senza prima combattere duramente.

I soggetti coinvolti in Afghanistan

Il regno afghano venne considerato uno Stato cuscinetto dagli imperi britannico e russo alla fine del “Grande Gioco” in Asia centrale nel XIX secolo. La Gran Bretagna tentò più volte di conquistare il paese, invano. Alla fine del XX secolo, l’impero britannico e quello russo in Asia erano ormai crollati e dalle loro ceneri erano nati nuovi Stati. Quindi venne meno anche la raison d’être dello Stato cuscinetto. Dopo l’entrata delle truppe sovietiche in Afganistan nel 1979 provocata dagli Stati Uniti, il loro ritiro nel 1989, la lotta tra ciò che restava del regime di Nazibullah e i signori della guerra appoggiati dal Pakistan, infine gran parte del territorio afghano passò sotto il controllo dei Taliban – sostenuti dall’esercito pakistano e dall’ISI e aiutati economicamente dagli Stati del Golfo – che istituirono un regime rudimentale e medievale guidato dal mullah Omar. Intanto i tajiki, gli hazara, gli uzbeki e altri gruppi a maggioranza non sunnita combattevano contro le forze di occupazione russe guidate dai loro signori della guerra e membri della resistenza, come il mitico Masood, che venne misteriosamente ucciso proprio alla vigilia dell’11 settembre. Masood aveva guidato l’Alleanza del nord costituita da tajiki, hazara, uzbeki e altri che si opponevano al regime dei Taliban. L’Alleanza era appoggiata da Iran, Turchia, India, Uzbekistan, Tajikistan e altri paesi.

Il bombardamento e l’invasione dell’Afghanistan nel dicembre del 2001 non furono mai autorizzati delle Nazioni Unite e si basarono sul diritto degli Stati Uniti, e quindi della Nato, di difendere il territorio statunitense dopo gli attacchi dell’11 settembre. Malgrado gli Stati Uniti sognassero di entrare a Kabul come liberatori, a farlo furono le truppe dell’Alleanza del nord di Masood. Da quel momento in poi, fatta eccezione per gli attacchi aerei inclusi quelli fatti da aerei teleguidati che hanno ucciso moltissimi civili inclusi donne e bambini, le forze dell’ISAF e della Nato non hanno ottenuto risultati significativi sul campo di battaglia. L’aumento del numero dei morti fra le truppe straniere e la riluttanza di molti membri della Nato a proseguire ha intaccato profondamente la coesione all’interno delle truppe di occupazione occidentali. Il numero di soldati occidentali uccisi a giugno ha toccato un picco, ma l’Occidente – in conformità alla sua attitudine razziale – non conta il numero di morti tra le truppe nemiche e i civili (né in Afghanistan né in Iraq), secondo quanto ha affermato il generale Colin Powell. Il territorio afghano è sotto il controllo di diversi gruppi armati, sia stranieri che locali, mentre il presidente imposto da Washington, Hamid Karzai, che usa come guardie del corpo mercenari statunitensi, controlla a stento la città di Kabul. Fatta eccezione per Karzai, di etnia pashtun, gran parte della classe dirigente è composta dai leader delle varie etnie dell’Alleanza del nord, mentre la famiglia Karzai batte il ferro (fa cassa) finché è caldo. Recentemente i mezzi di comunicazione statunitensi hanno documentato come miliardi di dollari destinati a progetti militari e di sviluppo hanno preso il volo dall’Afghanistan (di tanto in tanto sono stati documentati simili sottrazioni di denaro anche dall’Iraq). I governi e i mezzi di comunicazione occidentali organizzano campagne di donazioni, per la Serbia o l’Iraq o l’Afghanistan, e le somme che vengono promesse (poi donate in quantità molto minore) vengono spese per affidare consulenze a esperti stranieri (in gran parte occidentali) oppure direttamente rubate e disinvoltamente trafugate per via aerea.

Il numero di soggetti coinvolti in Afghanistan è alto: il popolo afghano , per il 40% di etnia pashtun e per la parte restante composto da tajiki, hazara, uzbeki e altri che hanno origini etniche in Iran, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, Kirgizistan – che forniscono aiuto e anche manodopera – nonché paesi confinanti come la Cina con lo Xinjang e l’ex dominatrice dell’Asia centrale, ossia Mosca. Anche l’India ha interessi di lunga data e ha investito miliardi di dollari in progetti di sviluppo per avere un’influenza e relazioni amichevoli con l’Afghanistan, come accadeva quando il Pakistan era ancora parte dell’Hindustan unito.

Gli interessi del Pakistan sono chiari sin dall’occupazione sovietica dell’Afghanistan nel 1979 e il coinvolgimento negli affari di quest’ultimo. La dinastia saudita è tra i principali finanziatori della Jihad degli anni ottanta contro l’Urss e in ogni caso, dato che le sue casseforti traboccano di petrodollari, non avrebbe fatto un affare ad acquistare le armi americane e britanniche che, secondo molti, i sauditi non useranno, come i kuwaitiani nel 1990. Ma Riyadh segue la sua ideologia wahabita e possiede il denaro necessario per finanziare non solo le madrasah e le moschee, ma anche per armare il Pakistan e i pashtun afghani. In seguito alla distruzione della potenza irachena, gli alleati sunniti degli Usa, dall’Egitto alla Giordania, l’Iraq occidentale sunnita e persino lo Yemen sono preoccupati dall’incremento del potere e dell’influenza dell’Iran, malgrado tutti gli ostacoli e le sanzioni decise contro Tehran dall’occidente guidato dagli Stati Uniti. L’Iran ha i suoi avamposti in Libano, con gli Hezbollah, e a Gaza, con Hamas. Gli Hezbollah e i leader iraniani e siriani che si schierano contro gli Usa e Israele godono di forte popolarità tra le masse musulmane, e non solo nel mondo arabo.

Cosa succederebbe quindi se, dopo l’Afghanistan, anche il Pakistan si sgretolasse? Dal 1947, i leader pachistani non hanno fatto molti sforzi per sviluppare un’identità nazionale basata sul territorio. Neanche la Cina potrebbe evitare problemi ulteriori nello Xinjiang e in Tibet.

Le dimissioni del generale americano McChrystal

I governi occidentali sono comandati da un oligopolio formato da banchieri e finanzieri insieme al complesso dell’industria militare e del comparto dell’energia. Bush, Obama, Blair, Brown non sono altro che degli strumenti cui essi hanno dato il potere per realizzare strategie aziendali. Anche una volta andati in pensione, questi leader sono ben assistiti. Con una spesa militare pari a quella del resto del mondo messo insieme, gli Stati Uniti sovvenzionano la loro industria militare a spese dei contribuenti attraverso una serie infinita di guerre in tutto il mondo. In questa complicata serie di decisioni e attuazione di strategie, i generali malleabili hanno un ruolo importantissimo. Ricevono molte attenzioni mentre sono in servizio e una volta in pensione ottengono lavori nell’industria militare, in commissioni di esperti e persino come “esperti” militari per reti televisive coma la Fox e la CNN. Moli di loro obbediscono agli ordini dei loro padroni, ma qualcuno ogni tanto replica, protesta, si ribella e ne soffre le conseguenze.

La guerra in Iraq e la rivolta dei generali

Prima del tiro giocato dal generale Stanley McChrystal sulla rivista Rolling Stones per farsi sostituire piuttosto che vivere con l’ignominia di aver perso una guerra in Afghanistan impossibile da vincere, si erano già verificate alcune rivolte da parte di generali americani a proposito della gestione della guerra in Iraq da parte degli Usa. Le avvisaglie si ebbero molto prima del marzo 2003, quando i leader americani e britannici stavano suonando i tamburi di guerra. Le rivelazioni da parte di alcuni membri dell’establishment – a favore di un piano “alla rovescia” che prevedeva di “prendere prima Baghdad insieme a uno o due centri di comando e depositi di armi, nella speranza di isolare la leadership locale e provocare un rapido crollo del governo” – vennero definite dal generale Anthony Zinni, un ex comandante del comando centrale e già inviato Usa in Medio Oriente, come gli ingredienti perfetti per causare un disastro della “baia della capre”, simile al fiasco Usa della Baia dei porci a Cuba nel 1961 (simili piani irrazionali vengono di tanto in tanto proposti per intimidire l’Iran).

Molti generali e commissioni di esperti indipendenti, non finanziate dai neo-con, avevano avvertito che “un attacco degli Stati Uniti destabilizzerebbe pericolosamente la regione, danneggerebbe l’economia mondiale e provocherebbe il risentimento delle masse arabe e musulmane”. Tutto questo si è verificato. Il consigliere del segretario di Stato Colin Powell, il colonnello Lawrence Wilkinson, creò una cabala neo-con sul vicepresidente Dick Cheney, guidato dal suo vecchio amico e capo, il ministro della Difesa Donald Rumsfeld, a proposito del caos nato dopo l’invasione dell’Iraq.

All’inizio del 2006, sei generali dell’esercito e della marina Usa non più in servizio denunciarono il modo in cui il Pentagono aveva gestito la guerra in Iraq, un’opinione condivisa dal 75% degli ufficiali in missione e forse non solo (Rumsfeld fu infine costretto a dimettersi). I generali che parlarono non erano più in servizio, tuttavia avevano credenziali importanti. Il generale Paul Eaton, il primo a denunciare, era stato il responsabile dell’addestramento delle forze irachene fino al 2004. Affermò: “Ho visto diventare dominante l’opinione di una minoranza e una crescente riluttanza da parte di militari e civili esperti di mettere in discussione i dogmi imposti”. Il generale Gregory Newbold, responsabile delle operazioni dello Stato maggiore interalleato fino all’inizio della guerra, accusò Rumsfeld, Wolfowitz e Douglas Feith di “quell’imperizia e millanteria che sono prerogativa esclusiva di coloro che non hanno mai dovuto eseguire queste missioni – e nasconderne i risultati”.

Tra gli altri generali che si espressero contro il Pentagono, il generale James Marks, un veterano dell’Iraq fuori servizio e analista militare, affermò che “evidentemente sarebbe stata necessaria la presenza di un numero maggiore di forze sul campo di battaglia”. Il generale Eric K. Shinseki, il quale aveva avvertito il Congresso prima della guerra che dopo l’invasione sarebbero occorse centinaia di migliaia di uomini per pacificare l’Iraq, non ricevette più alcuna promozione. Il generale John Batiste, a capo della prima divisione dell’esercito in Iraq, accusò Rumsfeld di non aver mai accettato i consigli dei comandanti che erano sul campo di battaglia. Anche il generale John Riggs mosse questa accusa. Il generale Charles J. Swannack, ex comandante dell’82° divisione aerea, era convinto che “gli Stati Uniti avrebbero potuto dar vita a un governo stabile in Iraq”, ma che Rumsfeld aveva gestito male la guerra.

Venga il Messia armato Petraeus!

La nomina del generale Petraeus come comandante delle forze americane e della Nato in Afghanistan al posto di Stanley McChrystal è di fatto una degradazione poiché, in qualità di capo del Comando Centrale, Petraeus era stato in precedenza un superiore di McChrystal. Potrebbe trattarsi di una mossa (da politico) con cui Obama ha “sistemato” il generale Petraeus, che è dotato di lungimiranza politica, ha numerosi sostenitori politici e avrebbe ambizioni politiche personali (per le elezioni del 2012). Ma per uscire dal pantano afghano avrebbe bisogno di un miracolo.

Il cosiddetto “successo della rivolta” in Iraq sotto il generale Petraeus non è altro che una leggenda creata dalla stampa Usa e venduta dal Pentagono a un pubblico americano credulone. In realtà Petraeus non ha fatto altro che inviare soldati americani pieni di denaro presso alcuni gruppi scelti della resistenza sunnita che si opponevano strenuamente all’occupazione statunitense, combattendo allo stesso tempo conto il governo sciita di Baghdad e le sue varie milizie. La “rivolta” e gli attacchi condotti dalle forze Usa e dalle milizie sciite hanno scatenato una pulizia etnica, spingendo le comunità miste sciite-sunnite nelle regioni della propria comunità. Ma la guerra tra sciiti e sunniti in Iraq non è affatto terminata e ogni giorno provoca la morte di almeno 300 civili, anche se questo numero è diminuito molto dopo che le truppe Usa (meno di 90 000 uomini attualmente)  hanno accettato di rimanere confinate nelle loro basi, evitando così che la resistenza attaccasse i soldati Usa uccidendo allo stesso tempo numerosi civili iracheni.

L’eminente giornalista Pepe Escobar ha scritto: “Petraeus non ha mai posto fine alla guerra civile tra sunniti e sciiti in atto in Iraq tra il 2006 e il 2007. Ha provato a marginalizzare i sadristi e ha fallito miseramente. Oltre a distribuire una montagna di dollari, non ha fatto altro che uccidere – usando gli squadroni della morte di McChrystal – i capi di numerosi gruppi di resistenza, costruire un’infinità di posti di controllo e creare un orrendo apartheid di cemento a Baghdad (un fattore chiave che ha portato il tasso di disoccupazione in città all’80%).

Non bisogna dimenticare che, secondo il sito Informationclearinghouse.info, su una popolazione totale di 25 milioni, oltre un milione e trecentomila iracheni sono rimasti uccisi, milioni di persone sono rimaste ferite in modo permanente e più di 2 milioni di persone hanno cercato un rifugio in Siria, Giordania e nello stesso Iraq. Inoltre, oltre 4500 soldati Usa sono stati uccisi, diverse decine di migliaia ferite, anche in modo permanente. Il vice presidente Biden ha parlato dell’arrivo di una forza di pace delle Nazioni Unite dopo il ritiro delle forze Usa. Lo Stato dell’Iraq, creato dalla potenza imperialista del XX secolo unendo tre province ottomane, è oggi lacerato, in uno stato di caos provocato dalla nuova potenza imperialista: gli Stati Uniti.

Per quanto riguarda l’Afghanistan, la composizione demografica e la geografia del paese sono differenti. I Pashtun accetteranno le mazzette offerte loro da Petraeus (dopo tutto, l’Afghanistan  è il secondo paese più corrotto al mondo dopo la Somalia). Quello che è certo è che i Pashtun saranno davvero contenti di accettare il denaro senza dover scappare, ma solo aspettare, proprio come stanno facendo i sunniti in Iraq.

Per quanto riguarda lo zoccolo duro della contro rivoluzione (COIN) di McChrystal (“assalta, ripulisci e controlla” e costruisci una “governance” locale), la rivoluzione in Afghanistan non è stata altro che una ripetizione di quello che avevano fatto gli squadroni della morte del Pentagono in Iraq, ovvero una COIN pianificata dallo stesso Petraeus. Facendo molto chiasso, McChrystal ha fallito. Non è possibile conquistare i cuori e le menti dei civili Pashtun  radendo al suolo i loro villaggi con le bombe e uccidendo i loro figli, figlie e sposi.

Il prof.Kennedy a proposito del ritiro degli Usa dall’Aghanistan: “testa, si perde; croce, non si vince”

Sperando che qualcuno al Comitato per la Sicurezza nazionale o al Dipartimento di Stato stia pianificando una strategia per un ritiro lento ma regolare delle forze Usa, il prof.Kennedy afferma chiaramente che “la questione Afghanistan-Pakistan è talmente intricata e complicata che avrebbe messo alla prova il buon senso dei più grandi condottieri e strateghi del passato. Non è del tutto irrealistico immaginare Augusto, William Pitt il vecchio, Bismarck o George Marshall mentre studiano la cartina che mostra le terre che si estendono dalla valle della Beqa’ fino al passo Khyber. A nessuno sarebbe piaciuto quello che stavano osservando”. Considerando le distanze, la conformazione geografica poco felice e la prontezza della parte nemica ad accettare un alto numero di perdite, non è stata una scelta avveduta quella di fare una guerra limitata, finemente calibrata. Dopo aver parlato con persone che hanno vissuto la realtà della guerra in Afghanistan, Kennedy crede che gli Stati Uniti “come minimo non possono ‘vincere’ nell’accezione che ha questa parola secondo gli impulsivi membri del Congresso e i fanatici quotidiani di Murdoch, una vittoria distorta grottescamente dalla loro abitudine di utilizzare il lessico del football americano: attacca, conquista, schiaccia, annienta”.

L’abbandono non dovrebbe essere interpretato come un segno di debolezza perché gli Stati Uniti “non sarebbero i primi a lasciare a sé stesse quelle montagne infelici con le loro tribù bellicose; gli Usa andrebbero semplicemente ad aggiungersi alla lunga lista degli eserciti d’occupazione che alla fine hanno deciso che sarebbe stato meglio lasciare quei territori. Lord Salisbury, tre volte primo ministro inglese e quattro volte ministro degli esteri, una volta disse che niente è più fatale per una strategia saggia di un attaccamento a tutti i costi a una politica ormai morta”. Ma Kennedy ritiene che “sono pochi i capi di governo determinati a cedere; e francamente, nel caso dell’Afghanistan, un compromesso morbido, ovvero un ritiro semicamuffato, potrebbe risultare la maniera meno peggiore di andare via, almeno per ora. Magari non per sempre.”

Conclusioni

Quello che i vari soggetti coinvolti in Afghanistan desiderano e possono ottenere è difficilmente pronosticabile.  La superpotenza Usa non può nemmeno tentare di ottenere ciò che impose agli afghani nel 2002. Siamo nel 2010. I Pashtun saranno determinati. Se riusciranno a riunirsi, potranno eliminare la Linea Durand, imposta dagli inglesi ma insostenibile. I Pashtun sono omogenei da un punto di vista etnico, obbediscono alla dottrina deobandi, hanno legami con i paesi vicini e Dubai grazie all’oppio e al commercio di contrabbando, persino una bandiera e un leader, come il Mullah Omar. Ma è molto probabile che in primo luogo essi combatteranno tra loro, come accadde dopo l’abbandono delle truppe sovietiche. Ma a differenza della metà degli anni novanta, dopo ciò che l’esercito pakistano – composto in prevalenza da individui del Punjab – fece su ordine di Washington causando innumerevoli morti con gli aerei radiocomandati nel Pakistan nordoccidentale e in Afghanistan, è improbabile che i Pashtun si lasceranno manipolare dall’ISI. E se nascerà uno Stato pashtun, bisogna chiedersi cosa accadrà alle altre province del Pakistan, che non è riuscito a creare un’identità nazionale basata sul territorio.

E chissà cosa accadrà alla popolazione afghana di etnia non pashtun, che costituisce almeno il 60% della popolazione e che si oppone alla dominazione e all’ideologia taliban/pashtun, proprio come quando i taliban riuscirono a prendere il potere su gran parte dell’Aghanistan. A parte Karzai, un Pashtun, gran parte della classe dirigente è costituita da non Pashtun che si erano opposti ai Taliban nell’Alleanza del Nord. Essi avranno il supporto dei paesi vicini, come l’Iran, l’Uzbekistan e di altri attori, come Mosca, in ascesa, e Nuova Delhi, economicamente importante. Si consideri inoltre Pechino, che sogna di collegare la sua turbolenta provincia dello Xinjiang a maggioranza uigura al porto di Gwadar in Beluchistan, sul Mar arabico, per trasportare l’energia proveniente dal Golfo aggirando così le insicure rotte marittime attraverso l’Oceano Indiano e lo stretto di Malacca, un progetto che Washington cercherà in ogni modo di ostacolare. Allo stesso modo, neanche Mosca e l’India vorrebbero il progetto si realizzasse.

Ci si domanda inoltre cosa accadrà se gli Stati Uniti, come pianificato, manterranno alcune basi militari almeno nella parte nordoccidentale dell’Afghanistan  a prevalenza non pashtun e se staccheranno il Beluchistan ricco di minerali (le vecchie informazioni sulle vaste risorse minerarie sono state messe in risalto solo per trovare una giustificazione agli occhi della popolazione americana, ormai disillusa riguardo alla guerra infinita nelle montagne e nei deserti dell’Afghanistan). Quali saranno le conseguenze del sostegno del dissenso in Kirghizistan da parte degli Stati Uniti, mentre negli Stati multietnici della pianura di Fergana aumentano l’instabilità e il caos, come in Afghanistan, assediando l’Asia centrale e lo Xinjiang? Nuova Delhi deve tenere presente che, a prescindere dalla maniera in cui si risolverà la questione afghana, prima o poi i Pashtun cercheranno di stringere buone relazioni con l’India. Quest’ultima deve ristabilire dei contatti con i taliban e con gli altri leader.

Ecco quali sono in sintesi i problemi e le possibili vie d’uscita dal tunnel afghano, che presenta una flebile luce alla fine. Ci sono anche altri tunnel, come quello in Iraq in cui gli Stati Uniti sono entrati nel 2003, e il problema fondamentale della Palestina, mentre Israele non perde di importanza malgrado il ridimensionamento degli Stati Uniti, dopo che la Russia ha ristabilito la propria influenza in Ucraina, che la sua alleata Georgia è stata duramente colpita da Mosca due anni fa e che la posizione degli Stati Uniti comincia a vacillare in Kirghizistan.

Solo se avessimo un polpo, come quello che in Germania ha previsto con esattezza i risultati dei mondiali di calcio, potremmo anche noi vedere il futuro e predire ciò che accadrà.

Traduzione dall’inglese a cura di Sivia Zirone

K. Gajendra Singh, ex ambasciatore indiano, è stao ambasciatore in Turchia e Azerbaijan dall’agosto del 1992 all’aprile del 1996. In precedenza, aveva rivestito temporaneamente il ruolo di ambasciatore in Giordania, Romania e Senegal. Attualemtne è presidente della Foundation for Indto-Turkic Studies.

Copyright dell’autore:
http://tarafits.blogspot.com

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Il direttore Graziani all’IRNA: il nucleare iraniano e quello israeliano

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Il direttore di “Eurasia” Tiberio Graziani è stato interpellato dall’IRNA, agenzia di stampa iraniana, il 9 luglio scorso.

Il relativo lancio d’agenzia, in lingua persiana, può essere letto cliccando qui.

Di seguito alcune delle risposte date dal Direttore:

«Ritengo che la proposta dei diplomatici iraniani rivolta all’ONU di indagare e dare risposte precise riguardo all’arsenale nucleare di Tel Aviv sia giusta e che venga accolta, in considerazione non solo dello specifico dialogo sul nucleare iraniano, ma soprattutto in relazione alla questione nucleare sul piano mondiale. Tel Aviv, dato il suo stretto legame con una potenza (gli USA) che occupa militarmente due vaste aree dello scacchiere mediorientale (Iraq e Afghanistan), deve essere messo nelle condizioni di non rappresentare una minaccia per Teheran.
«Il dialogo sul nucleare iraniano deve essere giustamente allargato anche ad altri paesi, tra cui la Turchia e il Brasile, partner di Teheran. L’ONU deve tener conto anche degli interessi di Brasilia e Ankara sia per ragioni economico-industriale sia per motivi geopolitici.
«La questione della difficoltà di Washington nel proteggere il proprio arsenale nucleare è una pericolo per tutto il pianeta. L’ONU dovrebbe istituire un organo di controllo ad hoc».

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Le capacità nucleari di India e Cina: un’analisi

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Fonte: Paper no. 3.920 http://www.southasiaanalysis.org/papers40/paper3920.html 12 luglio 2010

Un confronto della capacità nucleare di India e Cina non può essere fatto in modo isolato. Deve essere tratto dall’insieme della loro visione strategica, delle ambizioni globali e politiche, e dall’etica sociale che condizionano le loro percezioni. La loro visione strategica impone lo sviluppo delle capacità nucleari (compresa la politica nucleare, i concetti, la potenza delle armi e dei vettori), adeguato al contesto geo-strategico.


L’impostazione strategica

Da quando la recessione economica globale è iniziata intorno al 2008, il peso economico della Cina è in aumento. E l’amministrazione Obama, subito dopo l’avvento al potere, ha compiuto sforzi particolari per corteggiare la Cina e chiederle aiuto a contrastare il proprio declino economico. Apparentemente le ambizioni globali delle Cina sono state rafforzate da tutto questo. Così, non sorprende se ha mostrato riluttanza a cooperare con gli sforzi dell’amministrazione Obama, per trasformarla in un partner negli affari internazionali.

Tuttavia, una delle ragioni più importanti della riluttanza cinese, è il sospetto sulle intenzioni degli Stati Uniti in Asia, dove essi stavano sviluppando una convergenza strategica nelle relazioni con l’India. Ciò è stato chiarito in Cina del Libro Bianco della Difesa 2008, che parlava dell’‘aumento della presenza militare Usa in Asia-Pacifico.’ La Cina s’è accorta della creazione, sponsorizzata dagli USA, dell’asse anti-cinese che si estende dall’India al Giappone. Anche se questo non è stato trattato dal generale Ma Xiaotian, il Sottocapo di Stato Maggiore del PLA, parlando al Shangri-La Dialogue 2010, ha detto: “noi crediamo che mantenere la sicurezza nell’Asia-Pacifico serva agli interessi della Cina, e ciò è anche responsabilità della Cina.” A quanto pare, la sempre più assertiva postura della Marina cinese nel Mar Cinese Meridionale, è solo una affermazione di questa politica.

Questa affermazione di potere, ha una forte connotazione strategica per i vicini dell’ASEAN, in particolare; la Cina rischia di essere incorporata nella loro architettura di sicurezza per i prossimi anni, come indicato dal Professor Zhuang Jian Zhong, Vice Direttore permanente del Centro Nazionale di Studi Strategici, della Shanghai Jiaotong University, al Shangri-La Dialogue 2010.

Dopo che la legge sul nucleare civile India-Stati Uniti è diventata una realtà, le relazioni economiche India-USA erano pronti a crescere velocemente. Tuttavia, questo non è accaduto quando l’amministrazione Obama ha avuto atteggiamenti dilatori proprio verso l’India. I rapporti USA-India sono entrati recentemente in fase di raffreddamento, per la prima volta da quando il presidente Obama è salito al potere. La realtà è che questo è avvenuto solo dopo l’impasse nei rapporti USA-Cina. Ora i rapporti economici India-USA sono pronti a crescere rapidamente solo perché l’economia indiana, meno dipendente dal mercato di esportazione della Cina, ha una crescita costante dell’8%.

Inoltre, anche se gli Stati Uniti si ritirassero dall’Afghanistan, probabilmente manterranno il Pakistan quale alleato strategico nella regione. È probabile che l’esercito continui a decidere la posizione strategica del Pakistan, nei prossimi anni. Forse questa è la ragione di fondo per i 10 miliardi di dollari USA di assistenza per l’esercito del Pakistan. Non va dimenticato che il Pakistan, uno stretto alleato della Cina, ha raggiunto la sua capacità nucleare aiutato dalla Cina. Queste considerazioni sono suscettibili di influenzare il modo degli Stati Uniti d’incoraggiare l’India a svolgere un ruolo strategico importante in Afghanistan, e altrove, verso Occidente. Con tali considerazioni, nell’orizzonte delle relazioni estere statunitensi, la Cina continuerà ad occupare uno spazio più grande dell’India, nei prossimi anni, indipendentemente dagli alti e bassi nei rapporti USA-Cina.

L’India domina la regione sud-asiatica fisicamente ed economicamente. Il soft power della cultura indiana si diffonde nella regione. Durante l’epoca della guerra fredda, aveva costruito una forte relazione con l’Unione Sovietica, che ha ancora un contenuto residuo di grandi dimensioni in Russia, in particolare come fornitore di attrezzature militari e armi. L’ubicazione geografica dell’India, le permette di essere una potenza dominante nella regione dell’Oceano Indiano. Così non sorprende che la Cina coltivi i vicini più piccoli dell’India, che hanno una paura latente della dominazione indiana. La stretta relazione della Cina con il Pakistan, è ben nota. Nepal e Sri Lanka sono sempre più sotto l’influenza cinese. Fatta eccezione per il Pakistan, l’attuale ruolo delle relazioni della Cina con gli altri vicini dell’India, sembra avere più contenuto politica ed economica che militare.
L’impostazione nucleare

Dato il peso militare relativamente più piccolo di quello economico, l’India, a differenza della Cina, sembra occuparsi solo delle ambizioni regionali. A differenza della Cina, che ha firmato il trattato di non proliferazione nucleare (TNP), come riconosciuta potenza nucleare, anche se l’India non ha firmato il TNP, la sua capacità nucleare ha ottenuto il riconoscimento solo dopo aver testato le armi nucleari nel 1998. Così l’India ha limiti fondamentali nell’aumentare le sue armi nucleari, anche se dice di avere scorte di uranio arricchito per la produzione di altre 30 testate. L’arsenale nucleare dell’India è stimato tra le 40 e le 80 testate. Cioè meno del numero di testate del Pakistan e, probabilmente, pari a un quinto dell’arsenale della Cina. Inoltre, con i limitati test nucleari effettuati, delle domande sulle loro prestazioni operative sono state sollevate.

Ma la limitazione principale dell’India sta nella sua debole componente dei vettori. L’India, al momento, ha solo missili balistici a breve e medio raggio. Lo sviluppo del missile navale è destinato soltanto a perfezionarne la gittata intermedia. Il  suo primo sottomarino nucleare, l’INS Arihant, è ora in fase di prove in mare, ma rischia di diventare operativo nel 2012, se continua tale sua programmazione. Quindi, al momento, non ha sottomarini lanciamissili balistici operativi. La sua flotta sottomarina sta invecchiando, e a causa degli appalti programmati, la sua flotta navale rischia di essere ridotta della metà, secondo una stima. Quindi, i vettori nucleari dell’India, in questo momento, sono limitate soltanto agli aeromobili e alle navi di superficie della Marina con capacità nucleare. Al momento, questo limita la portata della capacità nucleare dell’India verso l’Asia meridionale e il Tibet.

Dopo i test nucleari del 1998, l’India ha adottato la politica del ‘non primo impiego’. Ma secondo la sua politica nucleare, anche se non userà per prima le armi nucleari l’India, ‘progetterà ritorsioni nucleari a un primo attacco massiccio, volto a infliggere danni inaccettabili’. Ma come queste parole possano assumere un forma, resta da vedere. Con la limitata capacità missilistica dell’India, la capacità di un secondo colpo dovrà essere basata sulla sua forza aerea e navale di superficie. Così, l’India continuerà a essere vulnerabile agli attacchi missilistici nucleari superiori alla gittata intermedia.

Solo nel 2003 l’India ha istituito il Comando strategico nucleare. Questo riunisce l’organizzazione dei servizi responsabile del controllo e della totalità delle armi nucleari dell’India, missili e altri mezzi. Esso ha, inoltre, la responsabilità esecutiva per l’applicazione della politica nucleare. Tuttavia, è il Comitato governativo per la sicurezza (CCS) con il Primo Ministro, che autorizzerà la risposta a qualsiasi attacco nucleare. Rapide decisioni sotto pressione, non sono mai state il punto di forza del CCS. Anche se possa, in tempo reale, ordinare un attacco di rappresaglia nucleare, è una questione controversa.

La chiave della debolezza dell’India non è solo nel processo decisionale strategico, ma nella tardiva attuazione delle decisioni. L’India ha omesso di usare il tempo come risorsa insostituibile. Così, la ricerca sulla difesa, controllata dallo statale e i programmi di sviluppo, regolarmente non riescono a perseguire i programmi. Le acquisizioni della difesa sono diventate un focolaio della corruzione, e la procedura burocratica sembra essere più incentrata sulla corruzione derivanti dagli appalti che sulla programmazione dei sistemi d’arma. Ciò non è migliorato, nonostante le denunce dei capi del servizio; questo ha notevolmente indebolito la modernizzazione delle forze armate.

D’altro canto, la Cina ha sviluppato una ben articolata visione a lungo termine, per migliorare la sua capacità strategica ,in conformità con le sue ambizioni globali. Ha sviluppato la sua vasta scala di armi di ricerca, sviluppo e capacità produttiva. E’ diventato un produttore di arma importante, che dà un colpo potente per diffondere positivamente la sua influenza.

La Cina ha adottato la politica nucleare del ‘Non primo impiego’, ben prima dell’India, nel 1964, con l’affermazione di non essere la prima a usare armi nucleari “in qualsiasi momento e in qualsiasi circostanza.” Anche se la Cina ha ribadito la sua politica nucleare, nel 2009, la credibilità della Cina nell’attuarla, resta bassa. Per esempio, ci sono state segnalazioni che la Cina ha studiato attacchi nucleari contro l’Unione Sovietica, nel caso di un attacco sovietico convenzionale. Possiede vettori nucleari navali, aerei, sottomarini e anche missilistici.

Il suo programma di modernizzazione militare è sulla buona strada, con uno sviluppo mirato a migliorare le capacità navali e missilistiche, mentre si trasforma l’enorme PLA in una forza moderna, con una migliore mobilità e potenza di fuoco.

La Cina, è segnalato, avrebbe il minor numero di testate nucleari, tra le cinque potenze nucleari. Sebbene il numero esatto dell’arsenale nucleare la Cina non sia noto, la cifra di circa 130 testate nucleari collocate in missili e aerei, indicati dal Bollettino degli Scienziati Atomici, è probabilmente corretto. Probabilmente altre 70 si trovano in deposito. La Cina ha sviluppato una serie di missili balistici intercontinentali, tra cui il missile intercontinentale DF-5, che ha una gittata di circa 15 mila chilometri, ed è in servizio dal 1980. Circa 80 testate sono dispiegati sui missili balistici DF-3, DF-4, DF-5 e DF-21. Tra questi, la Cina avrebbe 25 missili DF-5. Nell’ambito del programma di modernizzazione militare, la Cina ha migliorato la precisione e la capacità di carico dei missili. Ha il potenziale per sviluppare, in alcuni anni, anche missili a testata multipla.

Anche se la marina del PLA è classificata come la terza più grande del mondo, aveva soltanto una capacità difensiva legata alle sue regioni costiere, la sola capacità costiera. Tuttavia, come risultato degli sforzi della modernizzazione, ha ormai raggiunto la capacità delle acque d’altura. Ciò significa che ha una capacità offensiva limitata a circa un migliaio di miglia dalle proprie coste. Continua a soffrire di carenze dei sistemi di comando C4.

In linea con una maggiore priorità strategica della marina cinese, è in procinto di trasformarsi in una marina oceanica, anche se è ancora una lunga strada da percorrere. Ha sviluppato i sottomarini lanciamissili balistici Type 094, armati con gli SLBM JL 2, con una gittata di 8.000 chilometri, il che metterebbe l’emisfero occidentale all’interno del suo raggio d’azione. Ha sviluppato una grande base per sottomarini ad Hainan, causa di preoccupazione per gli Stati Uniti e l’India.

Dall’ultimo decennio, la presenza militare cinese nelle acque internazionali è in aumento. Ha svolto esercitazioni congiunte con più di una dozzina di paesi, tra cui India e Pakistan. Nella sua prima esperienza internazionale, una flottiglia ha attuato operazioni anti-pirateria nel Golfo di Aden. Probabilmente, nel corso del prossimo decennio, vedremo l’affermazione su grande scala della marina cinese nella regione dell’Oceano Indiano.

I Cinesi sono stati determinanti nel contribuire allo sviluppo delle capacità missilistiche e nucleari del Pakistan, e del mancato rispetto degli accordi internazionali. I due paesi hanno stretto legami strategici. Ciò potrebbe determinare l’ulteriore crescita della capacità nucleare di Pakistan, in futuro. I cinesi che, recentemente, hanno annunciato di consegnare due centrali nucleari al Pakistan, apparentemente nell’ambito di un contratto del 1991, ne è un esempio calzante. Anche se l’amministrazione Bush si erano opposta, in precedenza, gli Stati Uniti sembrano, oggi, aver scelto di ignorarla, a causa delle opportunità politiche dettate dalla sua posizione in Af-Pak. Così, la Cina gode di enorme vantaggio, con la sua presenza nel vicino Pakistan.
Conclusione

La Cina gode di un grande vantaggio sull’India, in tre aspetti essenziali della capacità nucleare: le armi processo decisionale i sistemi, e opzioni di consegna. Tuttavia, la capacità cinese si basa soprattutto sui suoi sistemi ICBM operativi, di terra e di mare. La sua capacità di altura, è aumentata con lo sviluppo dei sottomarini balistici 094, armati di SLBM. Questo potrebbe superare i suoi limiti nelle operazioni oceaniche. Così, la capacità nucleare della Cina è coordinata con le sue ambizioni globali.

Comparativamente, la capacità nucleare dell’India è circoscritta dai limiti delle sue ambizioni regionali. Questa situazione è improbabile che cambi, a meno che l’India migliori la sua capacità di gestire le sfide alla sicurezza strategica. Per dare forma ad essa, più armi nucleari e missili sono essenziali. In particolare, sviluppare una forte capacità anti-missile. L’India ha una lunga strada da percorrere, in questo modo. La forza dell’India dipenderà la costruzione di un rapporto ‘win-win’ con la Cina; allo stesso tempo, l’India deve sviluppare più strette relazioni strategiche con gli USA, senza sacrificare i propri interessi regionali. Le relazioni indo-russe, un po’ stagnanti al momento, hanno anche bisogno di essere nutrite. Più di tutto questo, è necessario accelerare l’ammodernamento delle forze armate. Nei prossimi anni, la regione dell’Oceano Indiano rischia di diventare la scena dell’affermazione di potenza. Ciò comporterebbe la necessità di rendere la marina indiana una potente entità, in modo che l’India non perda il suo vantaggio strategico nella regione.

Il Col. R Hariharan, un ex ufficiale dell’intelligence militare, è associato al South Asia Analysis Group, e al Chennai Centre for China Studies. E-mail:colhari@yahoo.com Website: www.colhariharan.org

Traduzione di Alessandro Lattanzio

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Intervista a Enrico Galoppini — La funzione geopolitica dell’islamofobia

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19/07/2010

Qual è stato l’obiettivo principale di questo libro, ‘Islamofobia’?

L’obiettivo principale è stato quello di chiarire che quello che sinteticamente è stato definito col termine “islamofobia” non è una delle varianti del “pregiudizio” contro questo o quell’altro, ma un’esigenza organica per le strategie espansioniste occidentali, le quali prendono corpo principalmente negli Stati Uniti e nella Gran Bretagna (con al carro alcuni settori europei legati all’Ue). Quest’azione strategica è mirata da tempo – sin dall’11/9/2001 in maniera evidente – alla conquista di porzioni sempre più vaste del pianeta. Una conquista che si configura in un “dominio”, concetto che è cosa ben diversa dal “potere”: la conquista, cioè, delle menti e dei cuori. Quindi si tratta dell’espansione di un modello che va a configurare un “tipo umano”. Con l’espansione dell’Occidente si crea infatti un tipo umano che fondamentalmente è agito da forze economiche e puramente vitali, cioè un essere umano completamente avulso dalla dimensione della spiritualità, per il quale l’unico orizzonte di vita diventa unicamente quello animale (“animale” nel senso veramente deteriore del termine). Torniamo all’inizio del discorso: l’islamofobia serve dunque a demonizzare in primo luogo “l’esterno”, cioè quella parte del pianeta in cui vivono popolazioni a maggioranza arabo-musulmana (una volta l’Iraq, un’altra la Palestina, un’altra ancora il Libano o, addirittura, l’Iran), per la conquista con la forza e l’asservimento di questi territori; in secondo luogo con l’islamofobia viene demonizzato “l’interno”, agitando il pericolo degli immigrati arabo-musulmani che agirebbero sempre di concerto con questa cosiddetta “al-Qa’ida” che di volta in volta viene detta come insediata di qua o di là.

Lei vede un legame tra l’islamofobia e le strategie geopolitiche atlantiche?

Certo, il legame è necessario. Ma si tratta di uno strumento, che ad un primo livello serve come elemento propagandistico per favorire una strategia geopolitica. Una manovra che è evidente tra l’altro se si centra un atlante sull’America e non sull’Europa, poiché se si centra un atlante sull’America ci si accorge che dalla sua fondazione, c’è stata una progressiva espansione delle conquiste, sia verso est che verso ovest, quindi di un “dominio”, ovvero di un determinato modello. Infatti, da una parte, l’azione delle prime colonie ha comportato quella che viene chiamata la “conquista del West”, che in effetti era un’espansione verso la Cina… così è stato conquistato tutto il Pacifico, poiché l’obiettivo era quello di espandersi sul continente eurasiatico a partire dal lato propriamente asiatico. Mentre dall’altra parte, verso est (sempre dal punto di vista degli Usa), c’è stata un’analoga progressiva espansione sul continente eurasiatico con la tappa fondamentale della Seconda guerra mondiale, ma dall’altro lato rispetto a quello del Pacifico: è stata la conquista dell’Europa occidentale (le “liberazioni”…) e, con la fine dell’Urss e la nascita dell’Ue, la successiva espansione del succitato modello occidentalista in quei Paesi dell’Europa che prima venivano indicati come “Europa orientale”, i quali gravitavano nell’orbita sovietica. Quindi è evidente, nel lungo periodo, la mossa a tenaglia dell’America sull’Eurasia (cioè sul mondo intero). L’altro aspetto, più profondo, della questione è invece quello che attiene alla diffusione di un modello, quindi di un tipo umano fondamentalmente inconsistente, cioè un uomo (maschio e femmina!) che vive solamente nella prospettiva di “migliorare la propria condizione materiale”. Il che, detto così, sembrerebbe quasi incomprensibile da criticare, nel senso che tutti quanti aspirano a questo, senonché, se questa diventa l’unica prospettiva di vita interviene nella vita dell’uomo certamente un problema. Non sono infatti casuali tutti i disagi psicologici e gli squilibri ai quali possiamo assistere nel cosiddetto Occidente.

Secondo Lei c’è la necessità per gli Stati Uniti di creare un’islamofobia funzionale, puntando di volta in volta all’obiettivo che s’intende perseguire.

Il motivo è sempre lo stesso, ma gli argomenti sono indefiniti, come dire che possono essere migliaia, e infatti ne esce uno al giorno, per cui individuarli tutti diventa un esercizio quasi ozioso: si passa dalla polemica sulla moschea o il centro islamico che deve essere costruito ad “aperitivi” a base di carne di maiale proprio per esasperare sempre di più gli immigrati di cultura arabo-musulmana, sperando che un giorno tra l’altro uno di questi compia qualche “colpo di testa”, per poi dare la scusa ai media per demonizzare quanto accaduto: “visto che avevamo ragione a dire che sono degli estremisti?”. Va anche detto che se parliamo di queste manipolazioni, di questo veleno inoculato nelle menti e nei cuori degli europei, dobbiamo indicare negli Stati Uniti e la Gran Bretagna i principali manipolatori; inoltre basta scorrere anche solo i nomi dei personaggi principalmente coinvolti nelle campagne islamofobe per rendersi conto che si tratta di sionisti infilati dappertutto, i quali oggi non solo hanno a disposizione la loro base politico- territoriale nell’Entità Sionista, ma hanno anche a disposizione i loro agenti in ogni Paese, i quali agiscono di concerto con gli interessi anglo-americani.

A cura di Nabili

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